15 luglio 2020
"Le migrazioni contemporanee sono il semplice risultato della combinazione tra offerta di lavoro nei Paesi più sviluppati e domanda di opportunità e stili di vita migliori in quelli più poveri". A parlare è Stephen Castles, primo direttore dell’Istituto internazionale delle migrazioni di Oxford, ora in pensione, e una vita dedicata allo studio del fenomeno a livello globale. In accademia è noto per essere autore di The age of migration, "una sorta di affidabilissima wikipedia cartacea", come l’ha definita il professore Sandro Mezzadra nella presentazione scritta per la versione italiana. "Il problema – prosegue Castles – è che i governi preferiscono non riconoscere questi bisogni e faticano a rinunciare alla propria sovranità in materia. Come risultato, assistiamo a politiche medievali come l’innalzamento di muri e a una crescente differenziazione tra lavoratori specializzati liberi di muoversi e più che benvenuti e lavoratori non qualificati, costretti ad arrivare in maniera irregolare". Nel volume, pubblicato per la prima volta nel 1993 e giunto nel 2020 alla sesta edizione, Castles individua tre principali caratteristiche dell’era delle migrazioni.
Primo: la globalizzazione. Se da un lato le migrazioni vengono trasformate dalla globalizzazione, dall’altro sono esse stesse uno dei fattori di cambiamento a livello globale. "Mentre nel 1960 gli spostamenti intercontinentali erano solo il 38 per cento del totale, nel 2017 hanno riguardato il 55 per cento delle migrazioni. Sempre più Stati sono interessati dal fenomeno e migranti delle nazionalità più diverse approdano negli stessi Paesi dove le opportunità economiche sono maggiori. Anche i principali flussi sono mutati: mentre nel secondo dopoguerra oltre tre quarti dei migranti erano europei, questi rappresentano oggi solo il 22 per cento della popolazione migrante".
Secondo: la femminilizzazione."In passato le migrazioni per lavoro erano dominate dagli uomini, mentre le donne venivano relegate nella categoria dei ricongiungimenti familiari anche quando godevano di un impiego – spiega Castles –. Sebbene la quota di donne migranti sia stabile intorno al 46 per cento, si registra una crescente partecipazione delle donne alle migrazioni a scopo lavorativo. Ciononostante, a causa della loro alta concentrazione in settori perlopiù informali come i servizi di cura alla persona e le pulizie, le donne rimangono tuttora meno visibili".
Terzo: la politicizzazione e securitizzazione. "Parliamo di era delle migrazioni perché sebbene gli spostamenti plasmino le società da tempo immemorabile, il fenomeno è divenuto oggi centrale per le politiche nazionali e internazionali. L’hanno dimostrato gli ultimi eventi politici: l’elezione di Donald Trump nel 2016, la Brexit, lo spostamento a destra dello spettro politico europeo in materia di migrazioni e diversità. L’era delle migrazioni pone due importanti sfide alla politica: quella dell’identità e quella della sovranità". Secondo Castles, alla politicizzazione è seguita la securitizzazione – ovvero la tendenza a rappresentare le migrazioni come una minaccia fondamentale per la sicurezza e l’integrità culturale delle società di destinazione – con un conseguente aumento delle migrazioni irregolari.
"Da molto tempo la politica si serve della paura della perdita d’identità, ma dopo il 2008 questi discorsi sono divenuti più insistenti. Mentre la crisi finanziaria metteva in luce i limiti del modello neoliberale, lavoratori migranti e rifugiati venivano utilizzati come capro espiatorio di un sistema economico globale che nella realtà si è rivelato fallimentare per tutti". Le migrazioni tolgono lavoro e abbassano i salari? "L’evidenza scientifica mostra come le migrazioni abbiano perlopiù un impatto positivo sullo sviluppo e la vitalità dell’economia e delle società. I vantaggi delle migrazioni non sono, tuttavia, equamente distribuiti. Mentre le imprese ne beneficiano, i gruppi a basso reddito – già vittime del deterioramento delle condizioni di lavoro, dei salari e delle sicurezze sociali causato da globalizzazione e deregolamentazione economica – sono i più esposti ai cambiamenti socioculturali causati dalle migrazioni".
Tra le affermazioni di Castles ce n’è una particolarmente originale: "Le politiche migratorie sono fallimentari perché si focalizzano sulle migrazioni". Che lui argomenta così: "Le migrazioni non sono un problema da gestire, ma una normale componente dello sviluppo economico delle società. Non abbiamo bisogno di politiche sui migranti, ma di interventi strutturali inclusivi che garantiscano piena occupazione e diritti per tutti".
"Con la globalizzazione abbiamo assistito alla nascita di numerose istituzioni economico-finanziarie internazionali. In campo migratorio è mancata invece una pari volontà di cooperazione. Esistono organizzazioni con compiti specifici – come quella per le migrazioni (Oim) o per il lavoro (Oil) – ma nessuna ha la capacità di apportare cambiamenti significativi. Basti pensare che a ottobre 2018 solo 54 dei 193 membri delle Nazioni Unite avevano ratificato la Convenzione sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie del 1990. Sembra proprio che i governi non vogliano rinunciare alla propria sovranità in materia di migrazioni".
Sebbene il vostro Matteo Salvini si opponga strenuamente all'immigrazione, anche lui sa che senza, l'Italia sarebbe un Paese più povero"
Secondo Castles ci sono ottime ragioni per credere che questa continuerà a essere l’era delle migrazioni, in primis per la costante domanda di lavoro nei Paesi più ricchi per tutti i tipi di manodopera migrante. "La criminalizzazione delle migrazioni è il risultato di politiche che non riconoscono i bisogni economici delle società. Sebbene il vostro Matteo Salvini si opponga strenuamente all’immigrazione – afferma tra il serio e il divertito –, anche lui sa che senza l’Italia sarebbe un Paese più povero. L’ipocrisia dei governi sta proprio qui: contrastare a voce i migranti non qualificati, ma accettare di fatto che continuino a lavorare in maniera irregolare".
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