Rifugiati siriani e iracheni, vicini all'isola di Lesbo, soccorsi dagli operatori della ong Proactiva Open Arms nel 2015 (foto da Wikipedia)
Rifugiati siriani e iracheni, vicini all'isola di Lesbo, soccorsi dagli operatori della ong Proactiva Open Arms nel 2015 (foto da Wikipedia)

Tra Erdogan e Covid, i migranti in bilico alle porte dell'Europa

Nello Stato anatolico più di quattro milioni di rifugiati, soprattutto siriani, vengono usati per minacciare Bruxelles. Dopo averli spinti verso le frontiere a marzo, Ankara li tiene sul suo territorio senza un'adeguata assistenza sanitaria

Murat Cinar

Murat Cinargiornalista

17 giugno 2020

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Il 29 febbraio il presidente della Repubblica di Turchia si è presentato davanti alle telecamere e ha pronunciato queste parole: “Abbiamo aperto le porte”. Recep Tayyip Erdogan, con questa dichiarazione annunciava l’inizio di un’ondata di spostamento di persone dalla Turchia verso la Grecia. Le motivazioni di questa decisione, secondo il presidente della Repubblica, erano le seguenti: “L’Unione Europea non ha mantenuto le sue promesse. Siamo rimasti da soli a gestire queste persone. L’avevo avvertita, ma non ci ha dato ascolto. Non siamo obbligati, ormai, a prendere cura di tutti questi rifugiati. L’Europa deve darci una mano, altrimenti troveremo noi la nostra soluzione”.

In quei giorni il governo di Ankara aveva deciso di avviare per la terza volta un intervento militare sul territorio siriano, verso la città settentrionale di Idlib. Un’operazione molto discussa a livello internazionale, più delle precedenti che il governo centrale porta avanti dal 2016. Forse la protesta internazionale insieme a una serie di sanzioni hanno fatto sì che il presidente della Repubblica si rivolgesse alla “carta dei rifugiati”, per non perdere il sostengo dei sui alleati e partner economici. 

In pochi giorni, al confine greco, si sono ammassate migliaia di persone. Molte interviste fatte ai rifugiati dimostravano che queste persone venivano portate con autobus da diversi quartieri di Istanbul. Le forze dell’ordine non muovevano un dito, lasciandole libere nel tentativo di attraversare il confine. Le stesse scene venivano registrate anche lungo lo stretto dei Dardanelli sulle acque del Mar Egeo. Un servizio dell’agenzia di stampa Kronos ha raccontato la collaborazione della gendarmeria turca con i trafficanti. La redazione turca della Voice of America ha intervistato un trafficante che parlava tranquillamente dell’aumento del flusso in atto e ringraziava il presidente della Repubblica per aver annunciato l’apertura delle porte. Invece dall’altra parte del confine, in Grecia, la preoccupazione aumentava. La guardia costiera su mare e la gendarmeria su terra non esitavano a sparare lacrimogeni e munizioni vere oppure a picchiare e derubare i rifugiati.

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Violenze e pandemia al confine

Una volta finita la pandemia noi non fermeremo nessuno che vuole attraversare il confine. Quindi nessuno si senta al sicuroSuleyman Soylu - Ministro dell'Interno turco

I tafferugli, l’attesa e la crisi politica hanno avuto una durata di circa un mese sul confine turco-greco. Il 27 marzo gli immigrati sono stati obbligati a lasciare il presidio. I video diffusi da diversi giornali online dimostrano che la tendopoli improvvisata è stata incendiata. Nei giorni precedenti il ministro degli Interni Suleyman Soylu aveva specificato in un programma televisivo che il numero dei migranti presenti sul posto era salito a 4.600. La zona che è stata presa di mira è in prossimità della dogana Pazarkule della città di Edirne. Secondo i giornali Sozcu, Birgun e i portali di notizie online come BoldMedya e Sendika.org, l’obiettivo della retata era quello di mettere in quarantena per quattordici giorni tutte le persone presenti sul posto per via della pandemia coronavirus. Sendika.orgha parlato con alcuni rifugiati che raccontano come siano stati i soldati turchi a bruciare la tendopoli, rifugiati che sono in viaggio per la città di Malatya per essere sistemati in un centro di accoglienza. Anche il quotidiano nazionale Birgun era riuscito a mettersi in contatto con alcuni migranti presenti sul posto. Secondo le testimonianze che ha raccolto la redazione, i migranti non sono stati informati su ciò che stava succedendo e sono stati malmenati dalla polizia e poi caricati su circa sessanta bus diretti in diverse città della Turchia. Le notizie sono state confermate anche da alcuni media greci come Greek City Times.

Nelle prime ore del 28 marzo l’agenzia di stato Anadolu Ajansi ha pubblicato le comunicazioni ufficiali del ministro degli Interni che confermavano la situazione e mantenevano quel famoso tono di minaccia che Ankara ha sempre assunto quando ha voluto usare i migranti come un elemento di ricatto: “Stiamo distribuendo i migranti in nove città diverse. Abbiamo spostato dal confine circa 5.800 persone. È un’azione di precauzione, ma sia chiaro che una volta finita la pandemia noi non fermeremo nessuno che vuole attraversare il confine. Quindi nessuno si senta al sicuro”. Secondo la relazione della Frontex del mese di maggio, a causa della pandemia, i passaggi al confine sono diminuiti del 90%. Si tratta del numero più basso mai registrato dal 2009 ad oggi.

L’Associazione di solidarietà con i rifugiati (Multeci-Der) il 20 aprile ha diffuso un comunicato stampa in cui riportavano che dopo i quattordici giorni di quarantena numerosi migranti sono stati accompagnati alle coste dell’Egeo. Una volta portati qui, i migranti sono stati abbandonati nelle prossimità delle città di Canakkale e Izmir. Secondo l’associazione alcuni di questi sono stati trattenuti nei centri di identificazione e rimpatrio e dopo pochi giorni respinti in strada in piena pandemia e durante le ore del coprifuoco imposto dal governo.

Nel suo comunicato Multeci-Der dichiara che diversi migranti con l’aiuto delle ong sono riusciti a prendere un mezzo per tornare nelle città di residenza. La stessa associazione all’inizio della pandemia, nel mese di marzo, aveva diffuso un comunicato stampa in cui ricordava che grazie al cambiamento legislativo del 2019, i rifugiati dotati di protezione internazionale dopo un anno di residenza perdono la copertura sanitaria. Il sistema sanitario nazionale offre un servizio dignitoso soltanto a coloro che hanno una condizione “speciale”. Dunque centinaia e migliaia di persone sono a rischio e sono rimaste impossibilitate ad accedere al servizio sanitario in piena pandemia. 

Il 13 maggio il quotidiano nazionale Sozcu annunciava la notizia legata a due casi di coronavirus sull’isola di Lesbo in Grecia. Secondo la fonte del quotidiano, ossia il portale greco LesvosPost, questi due migranti provenivano dalla Turchia.

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Un’attesa infinita

In Turchia attualmente ci sono più di quattro milioni di rifugiati provenienti da diverse parti del mondo. In cima alla lista ovviamente si trovano i cittadini siriani a causa di una guerra che continua dal 2011. Nel mese di marzo del 2016 Turchia e Unione europea hanno firmato un accordo che – oltre a obbligare Ankara a gestire dignitosamente il flusso dei migranti in cambio di circa tre miliardi di euro – alla fine di una fase sperimentale avrebbe permesso ai cittadini turchi di ottenere la libertà di circolazione sul territorio dell’Unione a tempo determinato. Da quel momento in poi la prima si è sempre lamentata del fatto che non siano arrivati questi soldi promessi e la seconda ha spesso accusato la Turchia di non aver ancora soddisfatto una serie di punti che vanno anche oltre la semplice gestione dei migranti. Mentre il tira e molla continuava tra le parti, i rifugiati restavano in Turchia aumentando così il numero, oppure cercavano di recarsi in Grecia con mille difficoltà e rischi.

I rifugiati presenti in Turchia vivono in una condizione legale molto precaria. La Turchia ha firmato la convenzione di Ginevra del 1951 (un trattato multilaterale delle Nazioni unite, ndr) avvalendosi di una riserva geografica, cioè non concede lo status di rifugiato ai richiedenti asilo provenienti da Paesi al di fuori del Consiglio d’Europa. Inoltre, dal 2016, l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) ha rallentato la valutazione delle richieste di asilo politico.

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La pandemia scoperchia il vaso di Pandora

Secondo Metin Çorabatir, presidente del Centro degli studi sull’immigrazione (Igam), i rifugiati già vivevano in condizioni economiche estremamente precarie e con la pandemia sono rimasti al di fuori del mondo del lavoro. “Parliamo di persone che hanno famiglie estese, guadagnano poco, fanno lavori di grande rischio e senza contratto. Ogni giorno riceviamo numerose chiamate. Alcune persone non hanno neppure i prodotti per l’igiene di base. Circa 700 mila bambini sono in età scolastica e la didattica a distanza non è applicabile per la maggior parte di loro perché sono privi di una connessione internet.” Secondo l’Albo dei legali d'Istanbul la condizione legale precaria dei rifugiati creava una notevole paura nella loro quotidianità. Nella dichiarazione ufficiale rilasciata al portale di notizie Deutsche Welle, l’Albo sottolinea un aspetto importante: “Le persone che temono di essere espulse ora, anche se sentono i sintomi del virus, non si recano all’ospedale perché non voglio essere rimpatriate”. “Dobbiamo costruire un sistema economico e sanitario che non ignori l’esistenza dei rifugiati – sostiene Çorabatir –. Ovviamente nel mentre è fondamentale creare la condizione di pace in Siria perché queste persone possano tornare nel loro Paese in modo sereno”.

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