Migranti percorrono la rotta balcanica (foto di Barbara Beltramello)
Migranti percorrono la rotta balcanica (foto di Barbara Beltramello)

Migrazioni: il viaggio di Ullah è finito sulle Alpi

Sei mesi per arrivare a Trieste, altri due per giungere in Valsusa, il 15enne afgano morto il 26 gennaio a Salbertrand (Torino), aveva in tasca un indirizzo di Parigi. Storia di un ragazzo in fuga dal conflitto

Alberto Gaino

Alberto GainoGiornalista

31 marzo 2022

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Le cronache dicono che è morto travolto da un treno: Ullah aveva 15 anni ed era afgano. Camminava sulla linea ferroviaria Torino-Modane, seguiva la direzione per la Francia e i binari dovevano essere per lui la via per non sbagliarsi, non incorrere in controlli e nuovi stop. Aveva alle spalle seimila chilometri e gliene restavano poche decine fra il paese di Salbertrand, in Valle di Susa, e l’ultimo balzo verso il confine. Alcuni operai, che stavano svolgendo lavori di manutenzione, ne hanno ritrovato il corpo sulla massicciata il 26 gennaio. Il viso era schiacciato sul pietrisco. In tasca aveva un pezzetto di carta con un indirizzo di Parigi. La fine del suo viaggio per trovare lavoro. Non ne conosceremmo nemmeno il nome e l’identità completa (Ullah Rezwan Shejzad) se il ragazzo non fosse stato fermato da una pattuglia dei carabinieri il 3 novembre 2021 in Friuli e accompagnato, dopo la solita trafila del rilevamento delle impronte e dello scatto di una fotografia, in una struttura della cooperativa Aedis a Tolmezzo. In quella foto Ullah guarda con una certa ironia l’obiettivo del fotografo. Un ciuffo gli cade sulla fronte. Assomiglia a Paulo Dybala, il “dieci” della Juventus. Sorride alla stessa maniera dopo un gol. Il suo l’aveva segnato pochi minuti prima, quando gli avevano detto che non l’avrebbero riportato alla frontiera con la Slovenia, per essere riconsegnato ai poliziotti di quel paese, come è avvenuto per tanti ragazzi, secondo la denuncia delle organizzazioni umanitarie, in questi anni, in barba alla legge Zampa del 2017, che assicura protezione ai minori stranieri.

Migranti come criminali

Da Tolmezzo

Nella foto segnaletica scattata dai carabinieri a novembre, aveva un ciuffo come Dybala e sorrideva come dopo un gol

Michele Lisco, presidente di Aedis, non ricorda il suo passaggio: “Da noi si fermano i dieci giorni canonici della quarantena per il Covid. I loro problemi sanitari sono di tutt’altra specie e vanno dalla scabbia alla tubercolosi”. Non accenna ai segni delle violenze che tanti di quei ragazzi subiscono lungo la rotta balcanica nel loro viaggio da Afghanistan, Pakistan, Siria e a volte da più lontano ancora. Ma l’argomento lo affronta comunque: “Ci si fa l’abitudine talmente è diventata la normalità che gentaglia di ogni risma li sfrutti costringendoli all’accattonaggio o a prostituirsi non solo durante il viaggio, soprattutto al termine, quando hanno raggiunto la loro meta: le famiglie si indebitano con i trafficanti e questi pretendono che i ragazzi li ripaghino con gli interessi. Perché sono pochi i padri e le madri a poter anticipare 10/12 mila euro per il viaggio di un loro figlio sin da noi”. Agli operatori dell’agricomunità Bosco di Museis, dove Ullah è stato trasferito dopo la quarantena, qualcosa del suo viaggio il ragazzo ha raccontato: “Sono l’unico dei miei fratelli a parlare un po’ di inglese. Per questo sono stato scelto io: devo andare a Parigi a lavorare e mandare i soldi a casa”. Aveva mostrato la sua determinazione. Del viaggio lasciatosi alle spalle aveva appena aggiunto due parti- colari: la partenza a giugno dall’Afghanistan e il costo di seimila euro. Finiti. Nello zainetto trovato allacciato alle sue spalle un berretto di lana, un felpa e il caricatore del cellulare con cui tenersi in contatto con casa. Quella linea ferroviaria alterna terrapieni a cielo aperto a lunghe gallerie buie e strette. Non ci sono testimonianze sulla morte di Ullah: probabilmente è stato colto di sorpresa alle spalle e, provato dalla stanchezza, è riuscito appena a spostarsi di lato ma non ad evitare l’urto che l’ha sbalzato lontano. Un’operatrice di Bosco di Museis, gentile e dalla voce rassegnata, ripete che gli erano state rammentate sino allo sfinimento le insidie di dover viaggiare senza documenti durante la pandemia: non avrebbe potuto salire su treni e autobus, il suo cammino sarebbe stato due volte clandestino. Ma, superate le città, per quel ragazzino dallo sguardo fiero, il viaggio doveva sembrare in discesa anche nella salita verso il confine con la Francia. La notte l’avrebbe aiutato a non farsi individuare. 

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A Torino

La storia di Ullah fa ripensare ad altre di giovanissimi migranti afgani passati per Torino dove già vent’anni fa l’Asai fondata da Sergio Durando dava loro riparo e sostegno. Chi ripartiva e chi invece si è fermato in città. Come Enaiatollah Akbari, la cui storia è stata raccontata dallo scrittore Fabio Geda in un libro – Nel mare ci sono i coccodrilli – che in Italia ha commosso e smosso opinione pubblica per il lungo e pericoloso viaggio di un giovanissimo. Il libro è stato pubblicato nel 2010. Sembra una vita fa: Enaiatollah non fu sempre solo e una volta in Italia poté contare sui punti di riferimento dei ragazzi afgani da Roma a Torino. La storia di Ullah, invece, stringe il cuore non solo per la sua drammatica fine. Quel ragazzino non aveva nessuno cui rivolgersi. Nei due mesi in cui ha camminato da Tolmezzo alla Valle di Susa ha sicuramente incontrato sguardi gentili e mani che gli hanno sporto cibo, aperto porte per offrirgli un riparo notturno. Ma una volta a Torino non ha cercato l’indirizzo dell’Asai: non ne era a conoscenza. Né sapeva dell’esistenza in città di una piccola ma vivace comunità di giovani connazionali riuniti nell’associazione presieduta da Mustafa Ahmadi, 29 anni, che appena arrivato a Torino dormiva sulle panchine di un parco, poi ha conosciuto ragazzi afgani, è stato ospitato a casa loro, ha lavorato facendo di tutto e adesso è mediatore culturale – si occupa dei nuovi migranti, fra cui gli ultimi arrivati dall’Afghanistan, sostenuti dalla Chiesa valdese. Una catena di solidarietà di cui Ullah ignorava l’esistenza. Sin dalla partenza. Come se il suo contesto sociale non potesse fornire alcun altro contatto al di fuori del tam tam, sui social media, delle reti criminali dei trafficanti di esseri umani. Ullah è stato ucciso da un treno e dalla solitudine che lo scortava. La differenza fra la sua storia e quella di Enaiatollah non sta soltanto nel diverso finale dei loro viaggi. Sta soprattutto nella più profonda disgregazione sociale che oggi marca la vita degli afgani nel loro paese. Ullah l’ha riassunta in queste parole per gli operatori della comunità di Bosco di Museis: “Nella mia città non sai mai se arriverai vivo a sera”.

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Il game sulla rotta balcanica coi trafficanti

“Sono l’unico dei miei fratelli a parlare un po’ di inglese. Per questo devo andare a Parigi e mandare i soldi a casa”, ha raccontato in comunità

Il Centro studi di politica internazionale (Cespi) e altri centri di ricerca hanno pubblicato nel 2021 un dettagliato dossier, Rotta balcanica cinque anni dopo: riferimento alla scelta, nel 2016, dell’Unione europea di arrestare il fiume ininterrotto di vite rifugiatesi da Siria, Pakistan, Iraq, Afghanistan in Turchia, dalle cui coste cercava di riversarsi in Grecia per proseguire attraverso i Balcani sin nel cuore della ricca Europa. Ottocentomila uomini donne e bambini avevano percorso quella rotta solo nel 2015. Altri 130 mila li avevano seguiti nei primi tre mesi dell’anno successivo. Le reazioni erano state forti e spesso violente: costruzioni per decine e poi centinaia di chilometri di “barriere tecniche”, reticolati sor- montati da filo spinato e telecamere, poliziotti armati ai confini, cui si aggiunsero in Grecia e in Bulgaria organizzazioni paramilitari di estrema destra a caccia di migranti per strade e boschi. L’Ue faceva il suo “esternalizzando” i propri confini con un accordo che consegnava alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan tre miliardi di euro e ne prometteva altri tre per bloccare i migranti al di là del Bosforo. La reazione contraria è stato lo sviluppo delle reti criminali organizzate dai trafficanti di esseri umani nei luoghi di partenza delle persone. I vecchi contrabbandieri sono diventati le risorse locali per chi era ed è a corto di denaro, ma con 800/1000 euro per superare un confine critico come quello fra Bosnia e Croazia: piccoli gruppi che si mettono in marcia per i boschi, sfiorano radure disseminate di mine risalenti alla guerra degli anni Novanta, seguono la scia di immondizia lasciata dai precedenti fuggiaschi e tentano il game (il gioco, ndr), l’attraversamento che li porti al di là della prima terra di confine della Ue. La definizione di game è feroce per quel viaggio che finisce spesso nel respingimento a piedi scalzi dei migranti, derubati di tutto, dei diritti e della dignità di persone. Giovani volontari dell’Agenzia scalabriniana per la collaborazione allo sviluppo hanno affrontato nel 2019 la rotta balcanica che passa per Sarajevo e raggiunge il suo punto critico a Bihac, confine fra Bosnia e Croazia: l’imbuto dove si arresta il cammino dei più, bloccati estate e inverno fra quei monti per anni, costretti a vivere di stenti e di ostinazione per non tornare indietro. Le testimonianze raccolte lungo quelle strade sono state riportate in un prezioso libro – Umanità ininterrotta – che rappresenta una dura denuncia per il trattamento delle persone in campi di emergenza ricavati persino in discariche di rifiuti.

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Il tratto italiano

Il viaggio in auto da Kabul a Milano può durare appena una settimana se non ci si ferma mai e se si è cittadini europei con i documenti in ordine. Pure se si è siriani o afgani con disponibilità economiche si viaggia sicuri per mare, dall’Egeo all’Adriatrico. Se di soldi se ne hanno di meno c’è il percorso di terra, più contorto e pericoloso, su tir: si viene nascosti dietro la merce trasportata o in doppifondi. Ma alle frontiere si passa e si arriva a Trieste e oltre, quasi sempre. Ullah ha impiegato sei mesi per arrivare in Friuli dall’Afghanistan. È un indizio che sino a un certo punto è andato veloce. Poi sono finiti i soldi. Forse i suoi non sono riusciti ad assicurare ai broker della rete criminale il denaro necessario per farlo proseguire. Forse Ullah è rimasto ad aspettare che il suo contratto di viaggio venisse rinnovato a debito dall’Afghanistan. Forse, ed è l’ennesimo dubbio, si è messo fretta lui stesso per giungere a destinazione prima possibile, cominciare a lavorare, come?, per chi?, altri interrogativi, e ripagare i trafficanti al posto della sua famiglia.

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Ullah non aveva nessuno a cui rivolgersi. Non sapeva che a Torino poteva contare su una rete solidale di connazionali sostenuta dalla Chiesa valdese

La politica securitaria dell’Unione europea non tiene in gran conto la vita di tanti ragazzini come Ullah e investe semmai sempre di più in tecnologie sofisticate (droni, visori termici, telecamere in grado di visualizzare persone nel raggio di 1,5 km, sensori che di notte rilevano il battito cardiaco a distanza) per fermare i migranti ai confini. È un’autentica guerra contro i più poveri. Ai fautori delle frontiere sbarrate basta l’argomento che fra i migranti quelli in cammino sono i più. Anche qualche trafficante viene arrestato – per la verità centinaia ogni anno – ma sono solo esecutori. Niente broker, quelli che tirano le file e gestiscono il game. Solo via terra può valere sino a 50 milioni di euro l’anno superare l’area più “calda” della rotta balcanica, fra la Grecia e la Croazia. È una stima che non è scesa nel tempo del Covid-19, la pandemia ha frenato le partenze ma non le “tariffe” del lungo viaggio per l’Europa. E il game continua, con nuove vittime ogni giorno.

Da lavialibera n°13 

 

 
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