Da sinistra verso destra: migranti picchiati dalla polizia croata e detenuti in un centro libico. Credits: Danish refugee council e Giulia Tranchina
Da sinistra verso destra: migranti picchiati dalla polizia croata e detenuti in un centro libico. Credits: Danish refugee council e Giulia Tranchina

I migranti rimandati all'inferno

Nel 2020 sono state novemila le persone riportate nei centri di detenzione in Libia e oltre 1300 quelle respinte al confine italo-sloveno

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

14 dicembre 2020

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Il numero di profughi nel mondo non è mai stato così alto, ma le persone che trovano protezione in Europa e in Italia sono sempre meno. In pochi riescono ad accedere a corridoi e canali umanitari, che l'Unione fatica ad aprire in maniera stabile. Mentre i più sono costretti a rivolgersi alle organizzazioni criminali che stabiliscono prezzi, condizioni e rotte dei viaggi verso il Vecchio continente. Viaggi che, però, nella maggior parte dei casi finiscono davanti a una porta chiusa: nel 2020 sono stati circa novemila i migranti intercettati nel Mediterraneo centrale dalla Guardia costiera di Tripoli, beneficiaria di copiosi finanziamenti italiani, e riportati nell'inferno dei centri di detenzione della Libia. Non va meglio a coloro che arrivano al confine italo-sloveno attraverso i balcani: dall'Italia tornano in Slovenia e da lì inizia una catena di restituzioni che prima li consegna alle violenze della polizia croata e poi li spinge fuori dall'Unione europea, privandoli del diritto di chiedere protezione internazionale.

Secondo l'Associazione italiana per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi), nel 2020 la pratica delle riammissioni – che permette alla polizia di frontiera italiana di restituire a quella slovena parte dei migranti rintracciati al confine – avrebbe interessato circa 1300 individui. Nel 2019 erano stati 58. "I diritti delle persone in movimento vengono violati in modi diversi ai diversi confini dell'Unione, ma dietro c'è una logica comune: respingere in difesa delle frontiere", dice Maria Cristina Molfetta, curatrice del nuovo rapporto sul diritto d'asilo della fondazione Migrantes, l'organismo pastorale della conferenza episcopale italiana. Un report che evidenzia la discrepanza tra l'aumento del numero dei conflitti e delle persone in fuga da guerre, povertà e cambiamenti climatici, da un lato, e la riduzione delle domande di asilo nell'Unione europea, dall'altro. 

I dati

A giugno 2019 i conflitti sono diventati 30 e le situazioni di crisi sono salite a 18. Il numero delle persone morte a causa di conflitti tra ottobre del 2019 e ottobre del 2020 è stato di circa 114mila. Afghanistan, Yemen, Siria, Iraq e alcune regioni dell’Africa sono le aree in cui si è registrato il numero maggiore di morti. In assoluto i due Paesi più pericolosi al mondo nell’ultimo anno sono stati rispettivamente l’Afghanistan con 22.305 decessi e lo Yemen con 18.641 morti.

Nel 2019, a fronte di un numero di profughi che ha raggiunto quota 79,5 milioni – una cifra quasi raddoppiata rispetto al 2010, la più alta di sempre – l'Europa ha garantito protezione a 295.785 persone, con il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di quella umanitaria. Un dato che si spiega in due modi, prosegue Molfetta: "Uno è la concessione di canali umanitari a un numero ristrettissimo di persone: dal 2015 a oggi sono entrate così in Europa solo 3.500 persone, di cui quasi 2.500 in Italia, nel 2019 poco più di 1.100. L'altro sono i respingimenti ai confini, più o meno diretti".

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Il blocco della flotta civile nel Mediterraneo

Una delle situazioni più drammatiche rimane quella del Mediterraneo centrale, nelle cui acque si contano oltre 700 morti o dispersi dall'inizio dell'anno. Qui l'Unione europea e l'Italia operano respingimenti che il report definisce per "procura". L'esecuzione materiale spetta alla Guardia costiera libica che per il suo lavoro si avvale di soldi e mezzi forniti dall'Unione e dai suoi stati membri. In primis l'Italia. Lo scorso luglio il Parlamento del nostro Paese ha approvato il proseguimento della missione in Libia che prevede lo stanziamento di oltre 58 milioni di euro, di cui dieci destinati alla Guardia costiera di Tripoli, tre milioni in più rispetto allo scorso anno.

Un supporto che non tiene conto di quanto emerso negli ultimi anni. Inchieste giornalistiche e delle Nazioni unite hanno documentato come la Guardia costiera libica sia in realtà controllata dalle stesse milizie che guadagnano con il traffico di esseri umani e con la gestione dei centri di detenzione, dove vengono riportati i migranti fermati in mare. Luoghi in cui, come denunciato dal segreterario generale dell'Onu Antonio Guterres, la vita è scandita da stupri, violenze e lavori forzati, le cui responsabilità vanno individuate in “funzionari governativi, membri di gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande di criminali”.

"Hanno deciso di farci la guerra. Questo governo non fa la voce grossa come il precedente, ma con una pratica di ostruzionismo amministrativo è riuscito a bloccare quasi tutte le navi della flotta civile. In mare si continua a morire" Luca Casarini - capomissione di Mediterranea

A peggiorare il quadro c'è lo stop delle navi della cosiddetta flotta civile che fanno ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Al momento sono tutte ferme, nonostante abbiano adottato i protocolli anti-covid necessari per proseguire la loro attività. "Hanno deciso di farci la guerra – commenta Luca Casarini, uno dei capimissione dell'italiana Mediterranea saving humans –. Questo governo non fa la voce grossa come il precedente, ma con una pratica di ostruzionismo amministrativo è riuscito a bloccare ben sei navi e un aereo della flotta civile. In mare si continua a morire".

Tra le motivazioni che hanno costretto Ocean Viking e Sea Watch 4 a rimanere in porto si leggono "la presenza di un numero troppo elevato di giubbotti di salvataggio" e il soccorso di un numero di persone superiore "al numero massimo consentito a quella nave". Mentre Mare Jonio, l'imbarcazione di Mediterranea, vede negarsi la possibilità di far salire a bordo una parte fondamentale del proprio equipaggio: la squadra di salvataggio. Se tutto va bene, la prossima missione battente bandiera italiana sarà in primavera e, stando a un'anticipazione di Repubblica, potrebbe veder debuttare un nuovo mezzo a disposizione della piattaforma civica nata nel 2018 da un nucleo di associazioni: una nave da mille posti battezzata provvisoriamente Mare Jonio 2. Mentre a fine mese a presidiare il Mediterraneo centrale dovrebbe arrivare la basca Aita Mari.

"Chiediamo che i blocchi amministrativi senza senso siano interrotti e il soccorso in mare venga non solo riconosciuto, ma anche sostenuto – prosegue Casarini –. Anche se nel lungo periodo le soluzioni che auspichiamo sono altre: l'evacuazione dei centri di detenzione libici, l'interruzione dei finanziamenti alla Guardia costiera di Tripoli, e l'istituzione di corridoi umanitari che permettano di arrivare in Italia legalmente. Non ci si può lamentare dei trafficanti di esseri umani se non diamo alternative a chi fugge dai conflitti".

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Le violenze della polizia croata e le responsabilità dell'Italia

Altrettanto preoccupante è quanto accade in Friuli-Venezia Giulia, al confine tra Italia e Slovenia, dove i migranti vengono trattati dalle autorità di frontiera come dei pacchi postali. Dall'Italia tornano in Slovenia e da lì inizia una catena di restituzioni che li consegna prima alle violenze della polizia croata e poi li spinge al di fuori dell'Unione europea, in Bosnia, dove vivono in condizioni disumane. Violenze e pratiche che lavialibera ha denunciato già a giugno nel dossier del terzo numero dedicato alle migrazioni. A Trieste avevamo incontrato un testimone diretto degli abusi di nome Umar: un ragazzo di 24 anni con la gamba segnata dalle cicatrici lasciate da una sbarra di ferro incandescente.

Umar, 24 anni, mostra i segni delle violenze subite dalla polizia croata. Credits: Rosita Rijtano
Umar, 24 anni, mostra i segni delle violenze subite dalla polizia croata. Credits: Rosita Rijtano

Ora emergono nuove evidenze. L'ultima prova è un video diffuso da Border violence monitoring, rete di organizzazioni di volontariato, in cui si vedono i soldati croati picchiare i migranti con spranghe e bastoni. Nicola Bay, direttore in Bosnia del Danish refugee council, ha spiegato ad Avvenire che l'organizzazione ha identificato "14.500 casi di respingimenti dalla Croazia alla Bosnia dall’inizio del 2020. Nel solo mese di ottobre, i casi sono stati 1.934, tra cui 189 episodi in cui migranti sono stati soggetti a brutale violenza, e in due episodi anche violenza sessuale, da parte di uomini in uniformi nere, con i volti mascherati". Un fallimento per il governo croato, che si è dimostrato incapace di gestire ai confini la propria polizia ripetutamente accusata di furti e pestaggi, nonché insabbiato dalla Commissione dell'Unione europea. Il giornale britannico The Guardian è venuto in possesso di alcuni scambi di email che dimostrano come i funzionari dell'Ue siano restii a far emergere a pieno la mancanza di impegno su questo tema da parte della Croazia, la quale continua a beneficiare di un contributo europeo di quasi sette milioni di euro per la sicurezza frontaliera.

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Una situazione di cui le autorità italiane possono essere "considerate complici", accusa Gianfranco Schiavone, del direttivo Asgi. All'inizio di questa catena, infatti, c'è la restituzione dei migranti da parte della polizia italiana a quella slovena. Le autorità le definiscono "riammissioni informali" e vengono effettuate in virtù di un accordo bilaterale firmato a Roma il 3 settembre 1996 tra il governo della Repubblica italiana e quello della Slovenia per disciplinare la riammissione di cittadini dei due Stati e di cittadini di Stati terzi transitati dal confine in modo irregolare. Ma "l’accordo non solo ha una legittimità dubbia nell’ordinamento italiano, bensì è anche inapplicabile ai richiedenti asilo, cioè a coloro che, alla frontiera, manifestano la volontà di richiedere protezione internazionale – spiega Schiavone –. Inoltre ciascuna riammissione dovrebbe essere accompagnata da un provvedimento motivato e notificato all’interessato, nonché impugnabile di fronte all’autorità giudiziaria, come avviene per qualunque decisione dell'amministrazione che incide su diritti fondamentali. Altrimenti saremmo fuori dallo Stato di diritto".

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Secondo molte testimonianze raccolte dall’Asgi, invece, le persone riammesse non avrebbero ricevuto alcun provvedimento e ignare di tutto si sarebbero ritrovate  prima in Slovenia, poi in Croazia e infine in Serbia o in Bosnia, anche se avevano intenzione di chiedere asilo nel nostro Paese. Una prassi già denunciata nel 2018, grazie alle testimonianze di alcuni migranti che avevano raccontato di essere stati caricati a forza nei furgoni. Da allora il numero di riammissioni si è mantenuto esiguo, ma a metà maggio del 2020 il ministero dell’Interno ha annunciato di volerlo incrementare, tanto che quest'anno ha riguardato più di mille persone: tra cui afghani, iracheni e siriani.

Oltre 10mila respinti in porti e aeroporti italiani

Una menzione a parte la meritano i respingimenti fatti dall'Italia nei propri porti e aeroporti. Nel 2019 il dossier Migrantes ne conta 9.943: 8.138 alle frontiere aeree e 1.805 alle marittime. Lavialibera ha ottenuto la nazionalità delle persone respinte nella prima metà del 2019. Tra gli altri Egitto, Afghanistan, Turchia e Iran. Paesi segnati da instabilità e violenza. Situazioni molto difficili, a tal punto da lasciare aperti due interrogativi, suggerisce Schiavone: "Le autorità di frontiera hanno valutato accuratamente il rischio cui la persona può andare incontro una volta rimandata indietro, come prevede la legge? I migranti sono stati messi nelle condizioni di presentare domanda di protezione internazionale o abbiamo semplicemente ignorato la loro volontà impedendo di fatto il diritto di chiedere asilo?".

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