Aggiornato il giorno 6 agosto 2020
Le prime cose che noti sono le scarpe sbrindellate e i piedi piagati da giorni di cammino. I migranti arrivano a Trieste dopo una lunga marcia attraverso i Balcani e quando si sfilano i calzini sfondati, scoprendo lacerazioni profonde, non puoi fare a meno di pensare ai luoghi da cui sono partiti per sfuggire alla fame e alle guerre: Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, ma anche Marocco e Tunisia. Un viaggio che può richiedere anni e ripetuti tentativi, prima dell'ultimo sprint: dieci, quindici giorni a passo svelto nella notte per raggiungere il confine Italo-sloveno. Salvi, finalmente.
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Ahmad Soltane, trentadue anni, ha l’aria di vivere in un tempo sospeso, quello di chi ce l'ha fatta da poco. Ha lasciato Damasco nel 2018 ed è riuscito a superare la frontiera lo scorso febbraio, appena prima che il Paese venisse paralizzato dal blocco imposto contro la pandemia da coronavirus. Da allora è rifugiato in una casa, in attesa di poter tornare su strada. Vorrebbe trasferirsi in Olanda, anche se ha già un fratello in Germania e una sorella in Norvegia, ma "lì è diventato difficile fare domanda d’asilo", spiega mentre prepara una macchinetta del caffè dietro l'altra e sceglie con cura le parole per ripercorre il viaggio: "Tra i miei amici sono stato l'ultimo a partire. Da quando la guerra è iniziata, nel 2011, ho sempre detto che ne avrei aspettato la fine a casa mia. Ma i bombardamenti sono continuati, la mia casa è stata distrutta, e ho deciso di fare lo zaino. Ho vissuto per un po’ a Idlib, poi in Turchia, Grecia, e Bosnia. Per ogni tappa ho avuto bisogno di un trafficante diverso. Nell'ultimo tratto mi hanno chiesto duemila euro, ma in totale ne ho pagati circa dodicimila. Non appena ho visto il cartello con scritto Italia, ho tirato un sospiro di sollievo, anche se non ero felice: impossibile esserlo".
Da quando la guerra è iniziata, nel 2011, ho sempre detto che ne avrei aspettato la fine a casa mia. Ma i bombardamenti sono continuati, la mia casa è stata distrutta, e ho deciso di fare lo zaino. Per ogni tappa ho avuto bisogno di un trafficante diverso. Nell'ultimo tratto mi hanno chiesto duemila euro, ma in totale ne ho pagati circa dodicimila Ahmad Soltane - migrante siriano
Venti minuti di auto dal centro di Trieste imboccando una strada larga, piena di tornanti, ed eccolo il confine. Quando ci sei davanti, però, delude ogni immaginario e non c'è nulla di ciò che ti aspetti. Su quest’altipiano di rocce calcaree prendi un sentiero accanto alla strada che si inoltra nella boscaglia, giri a destra e sei in Slovenia, volti a sinistra e ti trovi in Italia. Cinquantaquattro chilometri tutti così e sotto gli olmi, le querce e gli ippocastani, che oggi abitano quella che agli inizi del Novecento era una radura, scorgi le tracce di un disperato passaggio: una felpa, un sacco a pelo, un giubbotto. Vuoti e abbandonati ai piedi degli alberi, come foglie secche. Oggetti propri di una vita passata di cui i migranti si spogliano prima di uscire dall'ombra delle fronde. Di solito, succede all'alba. Si prova a sfruttare la sonnolenza delle prime ore del mattino per passare inosservati, ma basta un passo falso, o una segnalazione, per finire nelle mani dei poliziotti di frontiera.
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Alle sette del 25 maggio, poco lontano da qui, ne hanno individuati 42 e li hanno caricati a due a due sulle volanti per portarli in una tenda militare messa su vicino al valico di Fernetti. Li hanno spogliati per controllare che non custodissero armi e li hanno fatti sedere a semicerchio sul terriccio, appiccicandogli sul polso una striscia adesiva bianca con un numero scritto a penna. Così, per numero, li chiamano per chiedere nome, cognome, età, e paese d’origine. "Number one, number two, number three". Ajab, 22 anni, pakistano. Mohamed, 28 anni, afgano. Hassan, 19 anni, marocchino. E così, per numero, li chiamano anche quando arriva l'ambulanza per le pratiche imposte dal Covid: controllo della temperatura, una nocciolina di gel igienizzante sul palmo di mano, nessun problema da segnalare? Avanti un altro: "Number four, number five, number six". Tutti zoppicano, reggendosi in piedi a fatica, e c’è chi non ha neanche più le scarpe: perse durante il tragitto e rimpiazzate da un mucchio di stracci appallottolati in un paio di calze, pur di non fermarsi. "Si parla sempre di Lampedusa, ma qui durante la bella stagione l'emergenza peggiora di anno in anno", lamenta Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sindacato autonomo di polizia, mostrando un foglio gualcito. Sopra c’è la tabella con i numeri delle persone che la sola polizia di frontiera di Trieste ha individuato negli ultimi quattro anni: nel maggio 2017 se ne contavano 42, nello stesso mese del 2020 si è saliti a 523, nonostante la pandemia.
"Si parla sempre di Lampedusa, ma qui durante la bella stagione l'emergenza peggiora di anno in anno" Lorenzo Tamaro - Segretario provinciale del Sindacato autonomo di polizia
Aumento confermato anche dall’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera Frontex, secondo cui a maggio scorso gli ingressi illegali nell’Unione attraverso la rotta balcanica sono stati oltre 900 e nei primi cinque mesi del 2020 gli arrivi sono aumentati del 50 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Si stima che la quota dei rintracciati si aggiri intorno al 20 per cento, ma secondo Tamaro "si tratta di un calcolo ottimistico, non si supera il dieci". Un flusso di cui sono testimoni, spesso silenti, gli abitanti delle frazioni arroccate a nord-est di Trieste. Una è Basovizza, dove Sebastian gestisce una vecchia tabaccheria con gli intonaci esterni sbrecciati. Ha ancora delle antiche insegne bilingue, in italiano e sloveno, ed è uno di quei negozi di paese in cui si trova di tutto, come non ne esistono quasi più. "Spesso al mattino presto veniamo presi d'assalto — racconta —. Una volta sono entrati in trenta, tutti insieme. Ho avuto paura, ma poi uno di loro mi ha offerto un pezzo della brioche che aveva appena acquistato. La maggior parte è povera gente: compra cibo, ricariche telefoniche, sigarette. Anche se a volte c'è chi cambia banconote da cinquecento euro e si fa chiamare un taxi". Forse passeurs, termine francese usato per indicare i trafficanti su questa tratta, ma è difficile dirlo.
Chi non viene beccato dagli agenti, prosegue per il centro della città. E nel quadrato verde di fronte alla stazione, dall’evocativo nome di piazza libertà, le lingue si mescolano rammentando il nostro passato d’Europa coloniale: inglese, francese, italiano. Qualcuno urla "sister, sister", e dice "no food" puntando l’indice verso l’ombelico. Un altro è talmente contento da coinvolgere tutti in un selfie di gruppo che spedisce subito a casa per dimostrare di essere vivo e in Italia. Altri ancora, sfiniti, si sono addormentati sull’erba, a braccia larghe, incuranti sia del sole che da queste parti è alto fino a tarda sera, sia del rombare delle auto. Ogni giorno, alle sei, un gruppo di volontari si dà appuntamento qui per offrire una prima assistenza a chi arriva. Sul pavimento sono poggiati borsoni colorati da cui vengono tirate fuori creme per piaghe e dermatiti che, dopo settimane con il sudore appiccicato addosso, senza potersi lavare, sono comuni. I migranti ringraziano con gesti che parlano: mani giunte e occhi devoti.
La prima è stata Lorena Fornasir, dell'associazione Linea d'ombra: una psicologa di 67 anni, figlia di partigiani e con il piglio da generalessa. Si affaccenda da una panchina all’altra tagliando garze con una forbice che indossa come fosse una collana, e si definisce tutto fuorché buonista: "Sono cattivissima, rispondo sempre male", scherza. Ha iniziato due anni fa, quando una foto che la ritraeva inginocchiata ai piedi dei migranti postata sui social l'ha resa famosa, e non ha più smesso. A lei si sono affiancati i giovani medici dell'associazione Strada Si.Cura. "I piedi sostengono l'intera persona, senza di loro non vai da nessuna parte. Ne ho capito la vera importanza durante un viaggio in Bosnia, quando ho conosciuto un ragazzo tunisino di 32 anni che era stato respinto al confine dalla polizia croata. L'hanno rispedito indietro, togliendogli scarpe e vestiti, in pieno inverno. È tornato nel campo profughi bosniaco da cui era partito con i piedi in necrosi, le dita sembravano dipinte. L'ho incontrato diverse volte, avevamo un buon rapporto, ma ha scelto di non lasciarsi curare ed è morto un anno dopo".
Le inchieste sulle violenze commesse alla frontiera dagli agenti della Croazia non si contano più. Le ultime raccontano di cibo spalmato su testa e vestiti dei migranti come ultima umiliazione dopo il pestaggio, in quella che Amnesty International ha definito "un'escalation orribile di violazioni di diritti umani". Una testimonianza diretta degli abusi è Umar, un ragazzo imberbe che dimostra meno dei suoi ventiquattr'anni. In piazza libertà viene spesso, anche se rimane seduto in disparte, senza parlare. Parole non ne usa neanche quando gli si chiede cosa gli hanno fatto. A spiegare sono i compagni di cammino che riportano di sbarre di ferro incandescenti impiegate dai poliziotti come divertissement. Lui tace, solleva il pantalone della tuta e mostra metà gamba destra coperta da cicatrici non ancora rimarginate, poi cerca nello smartphone le foto scattate subito dopo le torture fino a trovarne una in cui si vedono peli bruciati, carne e sangue. Alla domanda "Perché?", replica facendo spallucce.
Le inchieste sulle violenze commesse alla frontiera dagli agenti della Croazia, ormai, non si contano più Amnesty International la definisce "un'escalation orribile di violazioni di diritti umani"
Non va meglio nei campi profughi bosniaci, dove la situazione è peggiorata a causa del coronavirus, spiega Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti Caritas e Ipsia lungo la rotta balcanica, che in questo momento si trova a Bihac (nella Bosnia nordoccidentale): "I campi sono sovraffollati e c'è gente rinchiusa al loro interno da mesi che non ha cibo né acqua".
Come Umar, molti sono giovani e uomini, tanti gli under 18. "Le famiglie investono sui maschi. Alcuni scappano dall’Isis: al papà barbiere di uno dei ragazzi che ho seguito, per esempio, hanno fatto saltare in aria il negozio perché non vogliono si taglino le barbe. Ricorrono i casi di omicidi e abusi tra parenti o vicini. Le storie si somigliano così tanto che spesso gli operatori sociali pensano stiano inventando tutto, non capiscono che questa è la loro realtà", precisa Maria Luisa Paglia, tutrice volontaria di minori non accompagnati.
Per i più Trieste è la fine di un viaggio e l’inizio di un altro, verso il nord-Europa. Invece Alì, 28 anni, è rimasto. Fresco di barba, mescola un latte macchiato al Caffè degli Specchi in piazza dell’Unità. Rammenta con fastidio di quando nel 2016, appena arrivato, è stato costretto a dormire in strada. Grazie all’aiuto della comunità di Sant’Egidio, per cui adesso fa il volontario, è riuscito a studiare e oggi lavora in una residenza sanitaria per anziani, prendendosi cura di chi noi non ci curiamo più. Viveva in un villaggio del Pakistan e a spingerlo in Italia è stata la mamma che per lui, della minoranza religiosa sciita e dal carattere fin troppo schietto, voleva un futuro migliore e senza guai. Di quel viaggio ricorda di quando al confine tra Iran e Turchia ha visto una bimba morire di freddo, o di quella volta al largo della Grecia che la barca si è sbilanciata e hanno perso un uomo in mare: nessuno è più riuscito a ripescarlo. "Allora era un po’ più facile di oggi".
Da lavialibera n° 3 maggio/giugno 2020
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