25 novembre 2021
HAJNÓWKA - Un uomo guida sulla statale che collega Varsavia ai paesi di confine con la Bielorussia, una strada lunga e a tratti così buia da sembrare inghiottita dal bosco. Parla del suo lavoro nel campo finanziario dando di tanto in tanto un'occhiata alla mappa che ci guida, sull’ultimo modello di un iPhone. Le dita tamburellano sul volante, nervose. Poi, solo per un istante, si volta e d’un fiato confessa: “Io ne ho trasportati quattro”. Quattro che? “Migranti. Due giovani iracheni e una donna siriana con una bimba piccola che per il mal d’auto ha vomitato tutto il tempo. Li ho accompagnati nella capitale per evitare che venissero rispediti indietro”.
È una rete clandestina che si fonda sul passaparola. Come la Ferrovia sotterranea, il network di abolizionisti che nell’800 forniva supporto agli schiavi afroamericani
Iwo, nome di fantasia, fa parte di una rete di attivisti e cittadini della Polonia che aiuta chi è riuscito ad attraversare la frontiera ad allontanarsi dalla zona di confine. È una rete clandestina, che si fonda sul passaparola, su itinerari protetti e luoghi sicuri. Come la Ferrovia sotterranea, il network di abolizionisti che nell’Ottocento forniva supporto agli schiavi afroamericani in fuga dal Sud al Nord degli Stati Uniti, a cui è ispirato l'omonimo romanzo dello scrittore Colson Whitehead, vincitore del premio Pulitzer. L’obiettivo lo spiegano alcuni attivisti che hanno deciso di denunciare a lavialibera una "situazione inumana": rendere più difficili i respingimenti in Bielorussia che le autorità di Varsavia stanno conducendo nei confronti dei migranti intercettati in territorio polacco, senza tener conto della volontà di chiedere asilo. Una pratica che in teoria viola la Convenzione di Ginevra e i trattati internazionali, ma di fatto viene adottata in molti Stati alle porte d’Europa. I ribelli sono circa un centinaio, forse anche di più, ma è impossibile saperlo con esattezza perché "per paura" non ne parlano con nessuno, “neanche con i propri parenti”: per comunicare usano app di messaggistica sicura e chat che scompaiono dopo pochi minuti. “Quelli come me – dice Iwo – sono solo l’ultimo anello di una complessa catena organizzativa. Prima di salire in auto, ogni persona è stata nascosta, nutrita, e informata su dove farsi trovare, e a che ora. Serve un grande lavoro di logistica”.
La nostra cronaca dal confine tra Polonia e Bielorussia
C’è chi gestisce le richieste di aiuto dei migranti nascosti nella foresta, chi organizza i dettagli dei viaggi, e poi ci sono gli abitanti dell’area d’emergenza: il lenzuolo di terra che si trova a tre chilometri dal confine e a cui, per volere del governo polacco, da quasi tre mesi non possono accedere né le organizzazioni umanitarie né i giornalisti. Ai residenti spetta il compito di lasciare cibo, acqua e vestiti in determinati punti del bosco. Alcuni fanno di più: in attesa del momento giusto per farli scappare, ospitano i migranti in casa, “preparandogli anche da mangiare”. Il piatto più richiesto, assicura Iwo, è il “minestrone: l’ideale dopo tanti giorni passati al freddo”.
Il trasporto è affidato a gente che arriva dalle città: donne e uomini, spesso giovani, che prendono una settimana di ferie dal lavoro e a volte macinano centinaia di chilometri, rischiando di farsi arrestare dalle forze dell’ordine che presidiano le strade del Paese dall’inizio della crisi. È successo a Pawel e Justyna Wrabec, entrambi attivisti di Obywateli RP, un movimento politico che porta avanti azioni di disobbedienza civile. Seduti sulle panche di legno di una tipica trattoria di Hajnówka, piccolo comune della Polonia nord-orientale, raccontano di aver cominciato a fare avanti e indietro dal confine a casa loro, che si trova a oltre 700 chilometri di distanza, ad agosto. Guardando le immagini dei bambini davanti al filo spinato, Pawel ha pensato ai suoi antenati sterminati durante la guerra e ai racconti degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, ascoltati da ragazzo, che gli hanno fatto capire l’importanza di trovare aiuto. Justyna non ce l’ha fatta ad accettare l'idea di rimanere sul divano tranquilla, mentre le “persone muoiono nella foresta. Nessuno merita di morire in questo modo”.
"Ci hanno ammanettati e portati in prigione. È stata un’esperienza traumatica, ma ancor più traumatico è stato vedere i ragazzi portati via dalla guardia di frontiera"
Si sono messi in auto e hanno offerto un passaggio a chi hanno trovato per strada. Qualcuno sono riusciti a “metterlo in salvo”, dicono, poi li hanno fermati. Si trovavano poco lontano da qui, quando il 28 ottobre scorso sono stati bloccati da una macchina della polizia. A bordo della loro Nissan trasportavano due ragazzi iracheni. “Ci hanno ammanettati e portati in prigione – ricorda Justyna –. Durante la perquisizione, io sono stata anche denudata. Abbiamo subito un interrogatorio lungo quattro ore. Dopo di che, ci hanno sistemato in due celle separate, senza darci la possibilità di parlare, e ci hanno fatto passare la notte in carcere. È stata un’esperienza traumatica, ma ancor più traumatico è stato vedere i ragazzi portati via dalla guardia di frontiera. Ci avevano detto di essere rimasti nella foresta per 40 giorni, erano stremati: uno dei due, che avrà avuto non più di 18 anni, è scoppiato in lacrime”.
Ora Pawel e Justyna rischiano di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la pena può arrivare fino a otto anni di carcere. Hanno un po’ paura, ma lo rifarebbero: “Il governo ha adottato una politica criminale e inumana, rendendo illegale l’unico aiuto possibile. Sappiamo che là fuori ci sono ancora centinaia di donne, uomini e bambini. E non sono attrezzati per l'inverno”, spiegano. Intanto, cade la prima neve.
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