7 luglio 2020
Nella città di Zarzis, sulla costa sud della Tunisia, vive Chamseddine Marzoug, un pescatore che da anni recupera i cadaveri di chi naufraga nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Ha creato un cimitero di senzanome, dove sono sepolti più di 400 corpi. Molti, anzi troppi, eppure solo una goccia tra i più di 20mila che si stima siano annegati nelle stesse acque negli ultimi sei anni, o tra coloro che in diverse parti del mondo muoiono cercando di raggiungere un altro Paese. A Trieste c’è Lorena Fornasir, una psicologa figlia di partigiani, che da due anni soccorre, disinfetta e fascia i piedi di chi arriva in Italia percorrendo la rotta dei Balcani. Questi due minuscoli fotogrammi (che Andrea Giambartolomei e Rosita Rijtano raccontano nel dossier del terzo numero de lavialibera, da oggi online) sono solo il granello di una grande e risalente storia collettiva.
Nel 2019 il numero dei profughi ha raggiunto quota 74,5 milioni: una cifra quasi raddoppiata rispetto al 2010. A differenza del passato, molti di loro non riescono più a rifarsi una vita
Oggi le popolazioni non si spostano più che in passato. Anche se nel 2019 i migranti sono stati 272 milioni e nel 1960 erano 93, la proporzione tra chi parte e il resto della popolazione mondiale si è mantenuta sostanzialmente costante nel tempo, oscillando attorno al 3 per cento. Ciò che è cresciuta è piuttosto la quantità complessiva di persone che vivono il Pianeta, circa 7, 7 miliardi. Possiamo però parlare della nostra come dell’"era delle migrazioni" se, come suggerisce Stephen Castles (intervistato da Francesca Dalrì), intendiamo con ciò il fatto che negli ultimi anni lo spostarsi delle popolazioni è divenuto il campo su cui si giocano alcune tra le più importanti partite per il consenso politico. Guardiamo agli Usa di Donald Trump, all’Europa della cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015 e alla stessa Italia.
Negli ultimi due decenni il tema migrazioni è stato masticato e digerito dalle retoriche pubbliche di mezzo mondo. Stereotipi e pregiudizi sono divenuti strumenti per la criminalizzazione del diritto umano alla mobilità e così, sempre di più, lavoratori e lavoratrici migranti, rifugiate e rifugiati, sono stati eletti a capro espiatorio di un sistema economico fallimentare. Per provare a uscire dalla secca di letture superficiali abbiamo cercato con questo numero di riportare il tema alla sua dimensione naturale: quella globale. L’umanità è nata nomade, e in parte continua ancora a esserlo, per necessità e per desiderio.
"Si è scelto di costruire nuovi muri, limitare i movimenti, restringere la concessione dei visti e criminalizzare le Ong: una strategia fallimentare". Intervista al cofondatore di Alarm Phone
"L’uomo non è un sasso", insegnavano i polinesiani all’antropologo Raymond Firth nei primi anni Venti, per spiegare quale forza li portasse ad affrontare pericoli e paure pur di valicare i confini in cui si sentivano costretti (ce lo ricorda Francesco Remotti). Ancora oggi la stragrande maggioranza dei migranti si muove alla ricerca di qualcosa: un lavoro, un ricongiungimento, la possibilità di studiare. Eppure, sottolinea Monica Massari, è sempre più alto il numero di quelli che, preferendo restare, sono invece costretti a fuggire da guerre, persecuzioni, desertificazioni e condizioni climatiche avverse. Nel 2019 sono stati quasi 80 milioni, dieci in più rispetto all’anno precedente. Solo dalla Siria sono fuggite, in dieci anni di guerra, più di 13 milioni di persone. Antonello Pasini ha calcolato che l’80 per cento della variabilità del flusso di migranti che provengono dal Sahel, la regione africana d’origine della quasi totalità dei migranti diretti all’Italia attraverso la Libia, può essere spiegata da fattori meteo-climatici e in particolare dall’aumento delle temperature medie.
È sempre più difficile distinguere i diversi profili di chi viaggia poiché, prima o poi, quasi tutti si trovano a condividere le medesime modalità irregolari e pericolose di viaggio. Tutti “clandestini”, costretti a rivolgersi a trafficanti e facilitatori di ogni risma. Perché? Perché emigrare in maniera regolare è divenuto pressoché impossibile a causa di politiche sempre più restrittive. È da questa consapevolezza, che possiedono gli esperti ma non il grande pubblico, che sarebbe forse utile partire per riformare, quanto meno, la cornice normativa che regola l’immigrazione in Europa. Per non rispondere solo con divieti, muri, filo spinato e armi ai molti che camminano.
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