Cafiero De Raho: "Con la crisi, frange estremiste nuova priorità"

Per il capo della Direzione nazionale antimafia, "in questa fase lo Stato dovrebbe tutelare l'impresa sana ed eliminare dal circuito le attività sostenute dalle mafie". Su Matteo Messina Denaro è fiducioso: "Lo arresteremo a breve"

Elena Ciccarello

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

26 giugno 2020

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Un uomo tutto d’un pezzo. Federico Cafiero de Raho, dal 2017 procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, quando era piccolo sognava di diventare “il Papa o il generale dei carabinieri". Spiega che la scelta era dettata da “due sentimenti che ancora governano la mia persona: da un lato la solidarietà, dall'altra la fermezza e con essa la capacità di aiutare la società a essere migliore”. Il procuratore crede in uno Stato “forte”, che “protegge” i suoi cittadini. Se non denunciano – dice – è perché “temono che le loro parole restino sulla carta senza ricevere la giusta attenzione”. De Raho è deluso dagli strumenti messi in campo dal Governo nella crisi post Covid: se la mafia non è sconfitta è perché molti pensano che “sia strutturale alla nostra società”.    

Procuratore, prima di approdare alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo lei è stato prima in Campania e poi in Calabria. Quali differenze tra le diverse mafie e modi di fare antimafia?

Quando ho iniziato a lavorare a Napoli non c'erano ancora le Direzioni distrettuali antimafia e tutto era lasciato allo spontaneismo dei magistrati. Io ero particolarmente interessato al contrasto alla camorra e in quel settore ho riversato tutto il mio impegno. Così sono arrivato a occuparmi delle organizzazioni criminali più strutturate, quelle che avevano una vocazione economico-imprenditoriale ed esprimevano collegamenti con la politica e altri centri di potere. Però in Campania ci sono nato ed era più facile muovermi. In Calabria mi è sembrato di tornare in collegio, esperienza che ho fatto da bambino. Per quattro anni e mezzo la mia vita si è divisa tra ufficio e scuola carabinieri, dove alloggiavo, per la difficoltà di capire con quali persone potevo incontrarmi. Alla fine non vedevo nessuno a parte i magistrati, gli appartenenti alle forze dell'ordine e le persone che venivano in procura per chiedere protezione. Su quel territorio ho incontrato profili opposti, 'ndranghetisti e persone di cultura, coraggiose, che reagirebbero di più se avessero accanto uno Stato forte.

Scoprire che oggi vengo additato come candidato della politica mi ferisce nell'onore e nel sacrificio che ho sempre profusoFederico Cafiero De Raho

Come vive la crisi di credibilità che ha colpito l’organo di autogoverno della magistratura (il Csm) e Luca Palamara, membro di Unicost, la corrente di cui lei fa parte?

Tanti magistrati hanno vissuto la propria professione a difesa della propria indipendenza, senza avere mai rapporti con la politica. Sono convinto che i due mondi devono rimanere separati, perciò scoprire che oggi vengo additato come candidato della politica mi ferisce nell'onore e nel sacrificio che ho sempre profuso nell'assolvimento della mia funzione e nell'affermazione di uno Stato credibile. Vorrei anche ricordare che la mia nomina a procuratore nazionale è stata votata all'unanimità sia dai laici che dai componenti togati.

Non pensa che la nascita delle correnti in magistratura si sia rivelata un male?

Se le correnti diventano centri di potere, capaci di distribuire progressioni di carriera attraverso accordi, allora certo che non dovrebbero esistere. Ma le correnti non sono questo: sono spazi di cultura, in cui si portano avanti delle idee, non luoghi in cui ci si incontra per scambiarsi favori. Non erano così, almeno in passato. Io cominciai a frequentare un'associazione in cui ci insegnavano a essere magistrati, indicandoci linee e confini da seguire. In cui venivano discussi i problemi che potevano emergere nell'esercizio della propria funzione. Era un luogo di formazione, io ho imparato molto al suo interno. A leggere le intercettazioni di oggi, invece, si accappona la pelle.  

Traffici, droga, usura, corruzione e altro ancora. La pandemia ha dato sei opportunità alla criminalità organizzata. D'altronde la regola d'oro è chiara: il guadagno non si ferma di fronte al dolore

Lei è stato tra i primi a segnalare le opportunità che la crisi Covid avrebbe potuto offrire a gruppi criminali e mafie. Oggi esistono evidenze di quel rischio?

Le prime evidenze sono state le infiltrazioni delle mafie nell'ambito dell’importazione e del commercio di dispositivi di protezione individuale. In periodo di lockdown i gruppi mafiosi sono riusciti a intercettare affari nel settore sanitario, dai trasporti alla gestione dei rifiuti, operando nei settori dove già possedevano rappresentanze imprenditoriali e competenze maturate durante le emergenze passate. Altre evidenze riguardano il settore dell'usura, che proprio nelle ultime settimane ha avuto una grandissima crescita, a differenza di altri reati che sono diminuiti. Mafie e imprese hanno esigenze opposte: le prime hanno bisogno di collocare liquidità, le seconde di riceverne. Ovviamente i gruppi criminali non vogliono acquistare formalmente le attività economiche, ma soltanto gestirle, mantenendo il titolare formale. 

Pensa che gli strumenti preventivi messi in campo in questa fase siano sufficienti?

Da tempo dico che occorrerebbero strumenti di controllo e verifiche che assicurino un'adeguata vigilanza sulla distribuzione di liquidità e l'assegnazione degli appalti. In questa fase lo Stato dovrebbe tutelare l'impresa sana ed eliminare dal circuito imprenditoriale le attività sostenute dalle mafie, per salvaguardare l'economia legale. 

A breve sarà pubblicata la nuova relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Quali sono le nuove questioni in evidenza?

Segnaliamo una ripresa di attività di frange estremiste e anarco-insurrezionaliste che trovano più spazio anche a causa delle fratture sociali generate dalla crisi

Anzitutto, dal punto di vista dell'economia, una maggiore presenza di imprese mafiose nei vari settori economici. Troviamo poi ramificazioni di 'ndrangheta, cosa nostra e camorra al nord, con la replica dei sistemi di inquinamento delle pubbliche amministrazioni che vigono al sud. Mentre dal punto di vista del terrorismo, esclusa la pericolosità legata al rientro dei foreign fighters, segnaliamo una ripresa di attività da parte di frange estremistee anarco-insurrezionaliste che trovano più spazio rispetto al passato, anche a causa delle fratture sociali generate dalla crisi. È questo il dato più nuovo della relazione.  

Di cosa si sta occupando il gruppo che in Dna si occupa delle stragi mafiose?

Tentiamo di riguardare tutto. Da un lato i depistaggi, dall'altro ciò che ha accompagnato le stragi o il periodo di poco precedente: ci sono tante attività in corso. Anche il processo che si sta svolgendo a Reggio Calabria nei confronti di Giuseppe Graviano di per sé fornisce una sintesi di ciò che è avvenuto in altri luoghi. Il primo aspetto da approfondire è perché ci siano stati i depistaggi degli omicidi, alcuni comportamenti che hanno riguardato la strage di Capaci, chi sono i soggetti che vi hanno partecipato, quello stesso giorno e precedentemente, perché è stata sottratta l'agenda rossa sul luogo della strage di via d'Amelio, perché è stato creato quel depistaggio, quale era la finalità, quali soggetti vi hanno partecipato e così via. Anche per le stragi continentali, chi le ha fatte, perché in quei territori, e chi ha guidato la mano di Cosa nostra.

Secondo il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e la fotografa Letizia Battaglia: "Le stragi di mafia ci hanno costretto a essere migliori". Li abbiamo fatti incontrare per raccontarci quarant'anni di storia siciliana

Matteo Messina Denaro
Matteo Messina Denaro

Si riuscirà a catturare Matteo Messina Denaro entro il 2020?

Quando l'ho detto nel 2018 eravamo lì per catturarlo ed è sembrata una banalità, buttata così. Ogni volta che ci sono indagini su Matteo Messina Denaro si riesce a recidere tutto ciò che gli sta intorno ma, stranamente, non si arriva mai a catturarlo. Il che per la verità è inammissibile in una democrazia come la nostra, avere un latitante da 26 anni. Sono convinto che lo arresteremo a breve e sono ancora più convinto che è un dovere procedere alla sua cattura.  

Da quando la Dna è stata chiamata a pronunciarsi sulle scarcerazioni dal 41bis e alta sicurezza vi è successo di esprimere parere negativi?

Stiamo scrivendo pareri quotidianamente, anche se il numero di richieste è molto ridotto. Il problema è stato evidente laddove si è evidenziato il rischio di contagio, soprattutto quando le strutture sanitarie esterne sono state impegnate nella cura del Covid e non hanno potuto accogliere i detenuti. Ma oramai le terapie intensive sono quasi liberate e così anche i centri di cura. I nostri pareri sono sempre negativi in relazione ai soggetti che sono al 41 bis o in regime di sorveglianza speciale, perché non è pensabile che un soggetto che ha ricoperto un ruolo verticistico nell'ambito dell'associazione mafiosa possa essere rimesso nella propria abitazione. Il diritto alla salute deve essere garantito, ma è diverso dal rientro a casa. 

Perché dopo quasi duecento anni siamo ancora qui a parlare di mafie?

Da tempo diciamo che il contrasto al fenomeno è una priorità, ma nei fatti sembra quasi che ci sia rassegnazione sull’idea che sia strutturale alla nostra società. Invece si può, si deve estirparlo. Dare ossequio a chi è morto per colpa della mafia, e alla libertà che molti imprenditori ancora non hanno, significa che quando ci svegliamo la mattina – dopo la preghiera – dobbiamo ricordare cosa è avvenuto e dirci che non deve più avvenire. Farlo prepara a tenere lontane le occasioni ambigue che purtroppo quotidianamente si presentano. Se lo facessero sempre gli imprenditori e la politica probabilmente le mafie verrebbero definitivamente estirpate.

Da lavialibera n° 3 maggio/giugno 2020

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