23 dicembre 2022
Dodici milioni, forse quindici. I morti civili del Congo non si contano quasi più. Nell’area orientale della Repubblica, nella regione del Nord e Sud Kivu, si può restare vittima delle bande armate nell’indifferenza generale. Chi è fortunato trova sepoltura grazie all’intervento della famiglia d’origine, altrimenti finisce gettato nelle fosse comuni. Le Nazioni unite, fino al 2017, hanno documentato il ritrovamento di almeno 80 di queste, per le quali non sono però stati individuati responsabili certi.
Marie-Jeanne Balagizi è nata quarantatré anni fa a Bukavu, una piccola città del Kivu al confine con il Ruanda. Oggi vive a Torino, dove ha fondato il Forum africane italiane e da cui promuove le attività della rete delle donne dell’Africa francofona, ma la sua famiglia vive nell’est della Repubblica democratica del Congo. A giugno suo fratello è stato massacrato mentre si trovava in casa, l’anno prima era toccato al nipote e prima ancora al cognato. Lo scorso ottobre è intervenuta al convegno di Libera, a Palermo, per chiedere che la comunità internazionale presti la dovuta attenzione alla situazione congolese: "Anche il nostro è un Paese invaso, con i suoi milioni di morti civili. Chiediamo la stessa sensibilità dimostrata nei confronti dell’Ucraina, che l’Onu si assuma le sue responsabilità: i diritti umani non distinguono tra bianco e nero, tra Europa e Africa".
Nel Congo in guerra da trent'anni a rimetterci sono i civili
Marie-Jeanne, perché in Congo viene uccisa la popolazione civile?
Per l’incapacità del governo di fare rispettare lo stato di diritto nelle aree orientali del Paese. La popolazione è abbandonata in un vuoto giuridico dove a farla da padrone sono i gruppi armati. Sono loro che uccidono le persone, per scacciarle dai villaggi e per ritorsione verso il nostro governo. In quelle aree, le bande si finanziano con l’estrazione illegale di materie prime come l’oro, il coltan e i diamanti, di cui il paese è ricchissimo. I gruppi collaborano con alcune multinazionali, che si approvvigionano da questi circuiti illegali, e hanno sviluppato alleanze con esponenti degli enti locali e agenti dello stato centrale. I soldati congolesi fanno poco, perché sono demotivati e pagati in modo scarso e irregolare.
Cosa succede dopo i massacri?
Quando è stato ucciso mio fratello, ai miei familiari che chiedevano giustizia la polizia ha risposto: "Non vogliamo saperne di questa storia". Allora hanno provato con il governatore, ottenendo lo stesso risultato: "Non voglio neanche sentirne parlare". Per chi come me ha trascorso parte della sua vita nella quotidianità delle violazioni dei diritti umani, il diritto alla verità è un concetto vuoto di significato. Come si può dire a chi soffre queste atrocità che c'è un diritto alla verità? Come dire ai parenti delle donne che sono state mutilate, bruciate o sepolte vive che hanno diritto alla verità? Alle famiglie delle donne incinte che sono state sventrate, alle madri che sono state stuprate dai figli per ordine dei comandanti, perché bisognava addestrare quei bambini soldato alle atrocità della guerra? Come dire alla gente di Bukavu, di Beni, di Masisi che c'è un diritto alla verità? In Congo non esiste il diritto alla verità perché non esiste il diritto alla giustizia. E non esiste il diritto alla pace perché gli interessi economici hanno priorità sulla vita delle persone.
Contro i massacri nella Repubblica democratica del Congo serve una corte internazionale
Come si è arrivati a questo punto?
La situazione è precipitata nel 1994 con il genocidio in Ruanda, quando l’esercito francese con l’operazione Turquoise ha portato in Congo milioni di hutu, tra cui i soldati e i miliziani responsabili dei massacri. Da allora non abbiamo più avuto pace. Uno dei miei peggiori ricordi è legato all’ottobre 1996, con la ribellione dei banyamulenge, la minoranza tutsi congolese, che ha messo a ferro e fuoco la città di Bukavu. Il 28 di quel mese mi sono trovata a camminare per strada mentre scoppiavano spari e bombe. Sono stata scaraventata tra i cadaveri, ho pensato di essere morta. La mia famiglia, come molte altre, ha dovuto fuggire e nascondersi: eravamo diventati un bersaglio perché siamo alti e magri, con il naso fine, e quindi a rischio di essere confusi con i tutsi ruandesi e uccisi.
Sono passati oltre venticinque anni da allora.
Sì, e la situazione è ulteriormente precipitata. Con la scoperta delle miniere di coltan i gruppi armati fuoriusciti dagli eserciti ruandese, ugandese e burundese si sono moltiplicati seminando terrore ovunque. Quando vivevo ancora a Bukavu non esistevano più di dieci gruppi armati, negli ultimi anni hanno raggiunto quota 130.
Nulla ha potuto la missione di peacekeeping dell’Onu?
“I massacri sono avvenuti anche a poca distanza dalle basi della missione Onu senza che questo o l’esercito congolese facessero nulla per salvare la popolazione inerme”
Le Nazioni unite sono presenti in Congo dal 2010. In questi 22 anni, però, non hanno fatto che osservare i massacri e gli stupri senza muovere un dito. Hanno speso milioni per il progetto Mapping, che aveva l’obiettivo di identificare crimini di guerra e violazioni dei diritti umani commessi dal 1993 al 2003. In oltre seicento pagine il rapporto denuncia 617 casi di violazioni gravi dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, 700 massacri classificati come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e alcuni come crimini di genocidio. Ne sono stati documentati più di 570 di cui si conoscono gli autori. Eppure, dopo la pubblicazione, il rapporto è caduto nel silenzio. Se nonostante la presenza dei caschi blu dell’Onu in Congo (missione Monusco) sono aumentate le uccisioni, gli stupri e le violenze, forse dovremmo chiederci se l'operazione è davvero riuscita nei suoi intenti. Anche perché a volte i massacri sono avvenuti a poca distanza dalle basi della missione: uomini, donne e bambini sono stati uccisi a colpi di machete o bruciati vivi senza che Monusco o l’esercito congolese facessero nulla per salvarli.
Zimbabwe: una crisi senza fine, la popolazione è allo stremo
Sta denunciando un comportamento ipocrita della comunità internazionale?
Basta pensare al premio Nobel per la pace assegnato nel 2018 al dottor Denis Mukwege, impegnato da anni nella cura di donne vittime di stupro, una vera e propria piaga nel Paese, dato che è usato anche come strumento di guerra. Che senso ha premiarlo, invitarlo all’Onu e al parlamento europeo se poi non si sostiene la sua battaglia? Perché noi congolesi dobbiamo assistere a questa farsa?
Marie-Jeanne, lei è molto attiva dall’Italia. Esistono gruppi e movimenti congolesi che, nonostante le difficoltà estreme, organizzano forme di pressione interna, anche verso il vostro governo?
“Non basta lo sforzo delle associazioni che ogni giorno lottano per la verità. Serve una solidarietà internazionale che ponga i diritti umani al di sopra degli interessi economici”
Certo. Esiste una società civile organizzata che si espone in prima linea. Conosco molti giornalisti che sono stati costretti a fuggire e vivono in esilio in Francia o Belgio, altri che sono stati uccisi, altri ancora che sono rimasti nel paese e continuano a denunciare le malefatte dei nostri politici – che intasca i soldi per fini privati anziché proteggere la popolazione (come dimostrato anche dalla recente inchiesta per corruzione Congo Hold up, ndr) – anche a rischio della vita. Ma perché ci sia giustizia non basta lo sforzo della società civile e delle associazioni. Serve una solidarietà internazionale che ponga i diritti umani al di sopra degli interessi economici. Oggi il Congo contribuisce all’economia di molti stati occidentali, che si riforniscono qui di materie prime. Ora che c’è la crisi energetica, si stanno interessando anche al gas del lago Kivu. Però ignorano le persone che continuano a morire.
Cosa chiedete?
Tre cose. Prima, esigere dall’Onu che si assuma le proprie responsabilità. Non può essere presente in un Paese, e non muovere neppure un dito quando spariscono intere popolazioni. Seconda, da consumatori, chiedere conto alle aziende che ci forniscono i prodotti che usiamo. Lo smartphone che usiamo funziona anche grazie al sangue dei congolesi, perché l’industria elettronica prende il coltan a basso costo proprio da qui. Terza, che noi, giovani africani, prendiamo coscienza che nessuno farà al nostro posto il lavoro necessario per ottenere verità, giustizia e pace e restituire finalmente un nome e una dignità ai milioni di persone che sono state uccise.
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