Foto da un'uscita organizzata da Parents Circle Family Forum
Foto da un'uscita organizzata da Parents Circle Family Forum

Israele e Palestina, madri delle vittime insieme per la pace

Robi è israeliana, Layla palestinese. Entrambe hanno perso un figlio nel conflitto. Si sono incontrate nell'associazione Parents Circle - Family Forum, che da trent'anni promuove percorsi di riconciliazione per costruire un'alternativa alla violenza e alla guerra. Per questo è finita nel mirino del governo Netanyahu

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

21 novembre 2023

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3 marzo 2002, Ofra, Cisgiordania.
Nel pieno della seconda Intifada, un cecchino palestinese apre il fuoco contro i soldati israeliani appostati a un checkpoint a nord di Ramallah, uccidendo dieci uomini. Tra loro David Damelin, 28 anni, che prima di essere chiamato alle armi studiava filosofia dell’educazione all’università di Tel Aviv.

3 novembre 2002, Battir, Cisgiordania.
Durante una delle frequenti incursioni nei villaggi palestinesi, l’esercito israeliano lancia lacrimogeni. Il gas raggiunge la casa di Layla Alshekh e i polmoni del suo bambino di sei mesi, Qusay, che inizia a far fatica a respirare. Layla e il marito si precipitano in macchina con Qusay e gli altri cinque figli per raggiungere l’ospedale più vicino, ma vengono fermati a un checkpoint: “Strada chiusa”, dicono i soldati israeliani, che anche di fronte alle spiegazioni disperate impediscono il passaggio. Qusay morirà poche ore dopo. 

“Ero piena di rabbia e odio – dice Layla a distanza di vent’anni  –, ma non ho mai cercato la vendetta, perché non mi riporterà mio figlio”. A lavialibera racconta di aver passato gli anni successivi nel silenzio, elaborando il lutto in solitudine: “Non ne parlavo neanche con mio marito. Se dovevo piangere, mi nascondevo in bagno”. 

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Separate da un muro, unite dal lutto

"Una donna israeliana si è alzata e mi ha abbracciato chiedendomi scusa. Lì ho realizzato che condividiamo lo stesso dolore, piangiamo le stesse lacrime"Layla Alshekh

Ci sono voluti 16 anni perché trovasse qualcuno con cui condividere il proprio dolore: nel 2018 ha conosciuto l’associazione Parents circle – Families forum (Pcff), che dal 1995 riunisce famiglie israeliane e palestinesi che hanno subito lutti a causa del conflitto proponendo percorsi di riconciliazione. “Al primo incontro ho raccontato la mia esperienza – ricorda –. Una donna israeliana si è alzata e mi ha abbracciato chiedendomi scusa. Siamo scoppiate entrambe a piangere. Lì ho realizzato che condividiamo lo stesso dolore, piangiamo le stesse lacrime”.

Nell’associazione, che oggi conta 600 famiglie da entrambe le parti, Layla ha conosciuto anche Robi Damelin, la madre di David, vittima dell’attacco al checkpoint di Ofra. Nata in Sudafrica, dove era impegnata nel movimento anti-apartheid, nel 1967 si è trasferita in Israele, dove si è spostata e ha avuto due figli. Robi si è unita a Pcff cinque mesi dopo la morte del figlio: “Ho partecipato a un weekend a Gerusalemme Est insieme a famiglie palestinesi con storie simili alla mia – racconta a lavialibera –. Allora ho capito che avremmo potuto parlare in una sola voce per chiedere la pace”. Con il tempo, tra i membri dell’associazione separati dalla “linea verde”, ma uniti dall’esperienza comune del lutto sono nati rapporti di amicizia strettissimi: “Prima di entrare nel Parents Circle non avevo mai conosciuto israeliani. Ora con alcuni ho legami più forti che con i miei familiari”, dice Layla. La stessa frase la pronuncia, in una conversazione separata, anche Robi.

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Incontrare chi ha ucciso 

Dall’ingresso nell’associazione, Robi e Layla hanno percorso chilometri, tenuto conferenze, incontrato migliaia di studenti per raccontare la propria esperienza e parlare di pace e riconciliazione. Per entrambe, poi, è arrivato il momento di verificare la consistenza delle proprie convinzioni. “Sette mesi fa – racconta Layla – ho partecipato a un incontro con membri di altre associazioni. Un ex ufficiale dell’esercito israeliano, oggi attivista, ha preso la parola e ha raccontato la sua esperienza. Diceva di essere stato in servizio proprio nella zona del mio villaggio e di aver impedito a una famiglia palestinese in auto con bambini malati di raggiungere l’ospedale. Allora ho capito che era stato lui”. Layla ricorda di essere scoppiata a piangere e che Robi, presente all’incontro, l’ha poi invitata a parlare faccia a faccia con l’uomo. Si chiamava Chen Alon e dopo quell’episodio aveva deciso di disertare il servizio militare, pagandone le conseguenze in carcere. Ha poi fondato l’associazione Combatants for Peace, che riunisce ex soldati israeliani e miliziani palestinesi ed è stata candidata al Premio Nobel per la pace. “È stato molto difficile – continua Layla –, ma ho accettato di parlare con lui e l’ho perdonato".

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Anche Robi ha un’esperienza simile. Più di un anno dopo la morte del figlio David, le autorità israeliane hanno bussato alla sua porta per comunicarle la cattura del cecchino palestinese che l’aveva ucciso. “È stata davvero una prova – ricorda –. Mi ha costretto a chiedermi: ‘Ci credo davvero quando parlo di riconciliazione?’”. Così, dopo quattro mesi di riflessione e “tante notti insonni”, ha deciso di scrivere una lettera alla famiglia del ragazzo, che alcuni membri palestinesi dell’associazione hanno consegnato ai genitori. Nella conclusione si legge: “Spero la mostrerete a vostro figlio (oggi in carcere, ndr), e che magari un giorno potremo incontrarci. Mettiamo fine alle uccisioni e troviamo il modo, attraverso la comprensione reciproca e l’empatia, di vivere una vita normale, senza violenza”.

Remare controcorrente 

Parlare di pace e provare a farla è diventato sempre più difficile in Israele, soprattutto da quando a governare il paese è l’esecutivo più a destra della storia, quello guidato da Benjamin Netanyahu, contrario a qualsiasi tentativo di riconciliazione con i palestinesi. Lo scorso giugno, il deputato della maggioranza Almog Cohen aveva minacciato di “far saltare in aria” la struttura che avrebbe dovuto ospitare il campo estivo del Parents Circle, che ogni anno riunisce una cinquantina di giovani israeliani e palestinesi con l’intento di promuovere la conoscenza e la comprensione reciproca. Ad agosto, poi, il ministero dell’Istruzione aveva bandito l’associazione da tutte le scuole, accusandola di “disonorare le forze armate” e arrecare “gravi danni alla memoria dei soldati caduti e delle vittime del terrorismo”. Pcff ha annunciato il ricorso e attende una decisione, che con tutta probabilità non arriverà prima della fine della guerra in corso.

La gente deve avere il tempo di respirare, di piangere, di elaborare il lutto. Poi verrà il tempo della soluzione politica. Ma bisogna iniziare a costruirla già adessoRobi Damelin

Ma Robi non si dà per vinta, anzi sottolinea quanto il lavoro dell’associazione sia importante proprio adesso: "Spero che finita la guerra capiremo che non possiamo continuare ad ammazzarci e inizieremo a parlare per trovare una soluzione. Che uomo può diventare un bambino palestinese che non conosce altro che Gaza e che vive sotto le bombe e senza cibo? E come può crescere un bambino israeliano di Ashkelon, Sderot o Tel Aviv, che si sveglia la notte con il suono delle sirene anti-missile, oppure se le sogna?". Ma, dice Robi, dev'essere un processo graduale, che parta dal basso: "La gente deve avere il tempo di respirare, di piangere, di elaborare il lutto. Poi verrà il tempo della soluzione politica. Ma bisogna iniziare a costruirla già adesso". 

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