5 maggio 2023
Ho avuto la fortuna di vedere in questi giorni, mentre mi trovavo in Francia, un bellissimo film di Jeanne Herry che si intitola Je verrai toujours vos visages (Vedrò sempre i vostri volti) e che spero arrivi molto presto anche in Italia. È un film delicatissimo e profondo sulla giustizia riparativa, su una delle possibili modalità di realizzazione della stessa, splendidamente recitato e che beneficia della sensibilità di una donna come regista.
Prime esperienze di giustizia riparativa per i familiari delle vittime di mafia
In questo film i principi della giustizia riparativa sono mirabilmente espressi e illustrati nella pratica, così da permettermi di elencarli e sottolinearli qui di seguito. Innanzitutto si tratta di un’attività totalmente gratuita, che in tal modo sottrae al mercato, mentre restituisce pienamente e universalmente alla società, la composizione di conflitti e il suo benefico effetto.
Secondariamente, la formazione dei mediatori, dei soggetti che si occupano di incontrare e seguire autori e vittime di reati fino a un incontro riparatore, viene effettuata in modo molto professionale, facendo del mediatore un soggetto sicuramente capace di ascoltare, accogliere e sostenere incondizionatamente gli attori senza sbilanciarsi. La mediazione è poi un processo interamente basato sulla volontarietà dei soggetti di aderire al progetto e a questo scopo si propongono e attuano degli incontri preparatori, gestiti dai mediatori-psicologi.
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In questa accezione, la mediazione quale forma di giustizia riparativa non supplisce al processo penale, non è alternativa alla carcerazione, quindi non sostituisce la parte retributiva della pena, ma le si affianca e la integra per il semplice e nobile scopo di comporre nel contesto sociale il conflitto tra autori e vittime di reato, conflitto che genera e mantiene sacche di rancore e desiderio di vendetta in grado di alimentare ogni forma di violenza futura, soprattutto quando viene sfruttato a fini politici.
Il conflitto tra autori e vittime di reato genera e mantiene sacche di rancore e desiderio di vendetta in grado di alimentare ogni forma di violenza futura
Quindi, l’orizzonte più ampio all’interno del quale si muove la mediazione riparativa è quello sociale, facendo proprio un progetto e ideale di società nella quale il benessere individuale si nutre dell’armonia collettiva e con essa si fortifica. In ciò essa si riferisce al modello di società orizzontale composta da soggetti di pari dignità ipotizzato nella nostra Costituzione.
Un altro punto di forza del progetto è che gli attori, aderendo spontaneamente alla mediazione, si responsabilizzano personalmente alla sua realizzazione, ne escono trasformati, arricchiti e più consapevoli della loro funzione, anche sociale, rinunciando a delegare la soluzione del conflitto ad anonime sovrastrutture dello Stato, che hanno dimostrato i propri limiti operativi e di credibilità.
Accogliente e in ascolto: la giustizia riparativa
Il film-mediazione si sviluppa sulla base di un numero definito di incontri, mettendo a confronto autori di reato (rapine violente) che hanno già pagato il loro debito retributivo con la privazione della libertà (carcerazione) e alcune vittime di rapine, nella discreta presenza dei mediatori. In nessun caso l’incontro avviene tra autori e vittime dirette, mentre si privilegia la rappresentanza simbolica dei ruoli.
Dei lunghi primi piani che trasmettono tutta la sofferenza delle vittime nel rievocare personalmente, coralmente e dialogicamente la violenza subita, il loro turbamento, il persistere della ferita patita, immotivata e incompresa, si alternano ai contraddittori, un poco goffi, iniziali tentativi di giustificazione degli autori di reato. Ascoltare gli effetti a lungo termine del trauma, evidenziati dal radicale cambiamento di pratica sociale e di aspettative di vita della vittima più anziana, ma non solo, fa nascere negli autori la comprensione e consapevolezza dell’ampiezza, profondità e gravità della violenza esercitata allorché le loro vittime erano vissute semplicemente come oggetti-ostacolo sul loro cammino criminale, nonché del loro effetto a lungo termine.
Mentre gli incontri si dipanano, la convivenza tra attori si semplifica, si arricchisce di mutua conoscenza e comprensione, le asperità iniziali si appianano, la presa di coscienza del dolore causato si amplia e approfondisce. La revisione critica della propria responsabilità da parte degli autori di reato si allarga, nasce l’empatia e la stessa gestualità reciproca si fa più dolce, complice, accogliente e affratellante.
Mentre gli incontri si dipanano, la convivenza tra attori si semplifica, si arricchisce di mutua conoscenza e comprensione, le asperità iniziali si appianano
C’è da chiedersi se questa occasione di incontro vada offerta durante o solo dopo l’espiazione della pena. Per certo, chi accetta le regole del “gioco dell’incontro” ha già camminato abbastanza verso la redenzione personale e sociale da rendere pleonastica la domanda. Va tuttavia evidenziato che quanto prima si coinvolge il responsabile di reato in un processo di revisione critica del suo operato, tanto più rapida e profonda può essere la stessa.
Al tempo stesso, mi è molto chiaro che ci troviamo di fronte a reati in cui le vittime sono ancora vive e in grado di testimoniare il loro vissuto, diversamente dalle vittime di reati mafiosi, che sono prevalentemente morte a causa degli stessi. Tuttavia, quella evidenziata e così mirabilmente descritta nel film mi pare la strada regina per dare un senso al dolore e un riscatto al vissuto dei familiari di vittime innocenti delle mafie: mettersi in grado di guardare a un futuro di speranza spezzando la catena del rancore e della vendetta, uscendo da un circolo distruttivo e sterile. Pur senza dimenticare, mi pare la strada migliore su cui incamminarci.
Quella descritta nel film mi pare la strada regina per dare un senso al dolore e un riscatto al vissuto dei familiari di vittime innocenti delle mafie
Alcuni familiari hanno già intrapreso questo cammino, il cui scopo finale è lo stesso appena descritto, cioè quello di esporre consapevolmente il proprio dolore e la propria fragilità agli occhi degli autori di reato affinché maturino consapevolezza e assumano piena responsabilità dello strappo causato nel tessuto sociale, a partire dal dolore inesauribile causato ai familiari delle vittime.
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Al tempo stesso questo confronto tra dolori – poiché l’esperienza e il vissuto carcerario sono dolore, per quanto meritato, e benché i dolori siano asimmetrici tra di loro, poiché è difficilmente paragonabile un ergastolo emotivo irreversibile con un vissuto quotidiano per quanto difficile – consente di chiudere il cerchio della vendetta, di recuperare a un progetto socialmente utile gli autori dello strappo, di instillare pace nei nostri animi travagliati.
Sono pienamente consapevole che una vittima deceduta non potrà mai tornare in vita ed essere una ex-vittima, mentre gli autori possono divenire ex-criminali, e penso che in questa consapevolezza stia la grandezza del progetto: trasformare il dolore della perdita e della mancanza in vita e progettualità per tutti noi esseri sociali, e per le future generazioni.
L’obiettivo è trasformare il dolore della perdita e della mancanza in vita e progettualità per tutti noi esseri sociali e per le future generazioni
Nel film si svolge in parallelo la storia di una giovane, che viene invitata a un incontro riparatore con un familiare, all’interno del quale potrebbe realizzarsi un’ipotesi di perdono. Il tema è estremamente delicato e difficile da trattare, poiché attiene alla rinuncia consapevole da parte della vittima a quella parte di retribuzione, soprattutto emozionale, che le spetta di diritto, e che viene ceduta gratuitamente per il sollievo dell’autore di reato, con lo scopo di alleggerire la sua coscienza del peso della responsabilità del dolore causato alla vittima, il macigno del suo senso di colpa.
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Significa restituire al sonno riparatore, a una vita più serena chi si è macchiato di gravi mancanze, restituirlo a una vita possibile. Per la portata e il profondo significato delle emozioni coinvolte, per l’immenso impatto psichico, questa pratica, a mio parere, dovrebbe essere vissuta in totale silenzio mediatico, come fatto personale, privato, circoscritto ai diretti interessati, accompagnati dai mediatori sino alla soglia dell’incontro, possibilmente non oltre, se non necessario.
Per chi ha la fortuna di credere, l’accoglienza cristiana del reo, l’abbraccio consolatore che prescinde dal cambiamento, l’asimmetria tra chi dona e chi riceve, l’implicito merito che riscuote chi concede il perdono, sono elementi di reciproca soddisfazione a conclusione del percorso e dell’incontro. Per chi non ha questa fortuna, è solo attraverso il profondo cambiamento psicologico e affettivo del colpevole, attraverso l’acquisita consapevolezza del danno e del dolore causato, con l’assunzione della propria responsabilità personale.
Un reciproco e fruttifero scambio, foriero di cambiamenti speculari tra vittima e responsabile, che si può realizzare l’incontro tra pari, ciascuno dotato di riconosciuta dignità umana, che può riparare compiutamente lo strappo causato nel vissuto individuale e nel tessuto sociale. Il perdono andrebbe caparbiamente richiesto dal responsabile, una volta concepita tale esigenza, e non obbligatoriamente concesso: occorre, infatti, prevedere come possibile che il familiare della vittima si riservi il comprensibile diritto di non alleviare la sofferenza dell’autore di reato.
È questa la storia ed esperienza personale di un ergastolano di un altro interessante e notevole film che ho visto recentemente nel carcere Dozza di Bologna, assieme ad un centinaio di detenuti, e che ha preceduto una fruttifera discussione. Il film italiano è RIparazioni, di Vito Palmieri, co-prodotto da Chiara Galloni. Il protagonista del primo episodio è un ex omicida, palesemente cambiato da anni di riflessioni e sofferenze, che proprio per questo cerca, senza successo, l’incontro con i familiari della vittima.
Alla fine troverà la sua parte di ristoro nell’incontro con un familiare di una vittima innocente di mafia, una forma indiretta di sollievo che scaturisce dal riconoscimento dell’avvenuta metamorfosi da autore di reato alla sua nuova identità di cittadino pentito, consapevole e responsabile: quel riconoscimento che rappresenta una necessità vitale e un lenimento di cui ha bisogno ogni persona che ha commesso una mancanza verso la società.
Il secondo episodio vede invece come protagonista un ergastolano, anche lui ex omicida, che spende i suoi permessi premio per incontrarsi con giovani affidati in prova a una cooperativa sociale di lavoro, ragionando con loro dei percorsi che lo hanno condotto all’omicidio e in carcere, delle micro e macro scelte che lastricano le strade percorse verso il crimine, con l’immediatezza (e povertà) lessicale che lo rendono facilmente riconoscibile e credibile da giovani poveri di identità e di funzione.
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Questi ultimi possono in tal modo valorizzare i consigli, le riflessioni e le raccomandazioni che il detenuto, arricchito in emotività, affettività e consapevolezza da anni di riflessioni e sofferenza carceraria, elargisce e illustra. Esperienze simili vengono fatte da tempo con profitto da Libera e dal Gruppo della Trasgressione in alcune scuole milanesi e, più recentemente, nel carcere di San Vittore a Milano, con una particolare attenzione rivolta ai giovani adulti.
E ciò avviene nonostante l’avversione di chi pensa che solo moniti professorali abbiano la dignità, il valore e la possibilità di indirizzare e formare la gioventù, per allontanarla dalla devianza, sempre che riescano a raggiungerla e a farsi comprendere, mentre i vissuti sofferti, trasformativi e catartici vengono snobbati e sviliti aprioristicamente. Ecco quindi molteplici esempi in cui è possibile declinare la riparazione, investendo costruttivamente sofferenza ed esperienza per un futuro collettivo migliore.
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