L'ex ministra della Giustizia Marta Cartabia interviene a un incontro sulla giustizia riparativa al palagiustizia di Brescia. Filippo Venezia/Ansa
L'ex ministra della Giustizia Marta Cartabia interviene a un incontro sulla giustizia riparativa al palagiustizia di Brescia. Filippo Venezia/Ansa

Accogliente e in ascolto: la giustizia riparativa

La giustizia penale tende a escludere il reo e a non ascoltare la vittima. Quella riparativa può essere un modello complementare. L'intervento di Grazia Mannozzi dal convegno organizzato da Libera, "Per una giustizia che accoglie e ascolta"

Grazia Mannozzi

Grazia MannozziProfessore ordinario di Diritto penale

5 febbraio 2023

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Il 14 gennaio scorso a Milano, Libera ha organizzato il convegno "Per una giustizia che accoglie e ascolta", una giornata di approfondimento e confronto sulla giustizia riparativa, con una particolare attenzione alla posizione della vittima e al ruolo della comunità nel percorso riparativo. In quell'occasione Grazia Mannozzi, ordinaria di diritto penale, ha tenuto una relazione che pubblichiamo qui.


Non è facile parlare di un tema come la giustizia riparativa con l'adeguata delicatezza nei confronti delle vittime dirette o indirette di un reato, dei familiari che hanno sofferto. Il mondo del diritto è un mondo austero, rituale, togato e distante che finisce con il tradire le aspettative di giustizia o con il deludere le persone che alla giustizia si rivolgono. Quando parliamo di giustizia riparativa e di giustizia penale parliamo di due identità che sono nei presupposti alternative ma che ora, grazie alla riforma Cartabia, possono lavorare insieme in un rapporto sinergico, di complementarità.

L’accoglienza

La vittima è la grande assente nella scena del processo. Non può “parlare” o “narrare” la sua storia. Il sistema penale riesce a gestire solo in parte i rischi per le vittime, che scontano una situazione di solitudine

Forse la giustizia penale non è riuscita ad accogliere nessuno. Per l'autore del reato ci sono le indagini, il processo, quando è conveniente c'è la messa alla prova. In molti casi c’è il “patteggiamento”. In altri casi, c'è il processo che, qualora non si azzeri per intervenuta prescrizione, si conclude con una pronuncia accertativa. Se di condanna, vi è l’inflizione di una pena. La pena non è una dinamica “accogliente”, perché veicola stigmatizzazione, esclusione, etichettamento sociale. Stando alle statistiche carcerarie, le sanzioni detentive producono recidiva nel 68 per cento dei casi, e quindi neanche pacificazione e sicurezza.

Eppure, la giustizia penale è irrinunciabile: è a presidio di beni fondamentali, che tutelano le vittime da vittimizzazione ripetuta; è strumento coercitivo capace di reazione immediata per fermare l'autore di un reato. Ma questa stessa giustizia è messa in crisi da una cifra nera della criminalità altissima, da una massa di reati non scoperti che non affiora neppure alla conoscenza dell’autorità, non viene inserita nelle statistiche criminali e crea una categoria di vittime che non hanno niente.

La vittima è la grande assente nella scena del processo. Può avere un ruolo come testimone: può essere interrogata e viene esposta a controesame, con rischio di vittimizzazione secondaria, ma non può “parlare” o “narrare” la sua storia. È destinataria di un risarcimento solo quando, individuato l’autore, è provato l'illecito. Il sistema penale riesce a gestire solo in parte i rischi per le vittime, che scontano una situazione di solitudine anche morale, dato ci sono pochi servizi di supporto.

La Francia è, da anni, molto più avanti di noi, prima con “Inavem” e poi con “France Victimes”, rete di servizi capace di dare risposte alle vittime entro le 24 ore dalla commissione del reato, sui loro bisogni (indirizzandole ad assistenza giuridica, medica, psicologica). In Italia vi è un lavoro notevole portato avanti da Rete Dafne, ma non c’è ancora una copertura nazionale di servizi di supporto alle vittime. In prospettiva, sarà indispensabile tessere un dialogo tra centri di supporto alle vittime e centri per la giustizia riparativa.

Sembra di tutta evidenza che la giustizia penale, ad oggi, sia stata poco accogliente nei confronti delle persone che ne hanno più bisogno, ossia le vittime di reato. La vittima è stata oggetto di studio, il che non è poco perché ciò ha aiutato a comprendere molte cose, ma non basta. La strada è ancora lunga.

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L’ascolto e la memoria

Il rischio è che tale memoria collettiva si perda, il che è motivo di sofferenza ulteriore per le persone che, loro malgrado, hanno vissuto vicende che hanno segnato la storia del nostro Paese, e che invece hanno bisogno di ricordare

Si ascolta l'autore del reato essenzialmente perché c’è interesse a capire perché ha commesso il fatto: quali erano il movente, l’obiettivo, l’atteggiamento psichico. È indispensabile, nel processo, provare oltre il ragionevole dubbio il dolo: in caso contrario, non è possibile pronunciare sentenza di condanna. L'autore del reato ha il diritto di tacere, quindi probabilmente non racconta quello che sa o quello che le vittime vorrebbero sapere. Poi c'è il testimone che ha una narrazione, guidata dalle domande del pubblico ministero o del difensore dell’imputato, funzionale all'accertamento dei fatti.

L'ascolto della vittima è ridotto all'osso, ed è funzionale a uno scopo (la vittima viene ascoltata in qualità di testimone, ai fini di accertamento), è intermittente perché dipende dalla cadenza delle udienze – ci sono testimoni ascoltati dopo anni, decenni – ed è anche un ascolto selettivo, perché si ascolta solo quello che interessa, che è necessario alla presa di decisione. Eppure ci sono una serie di situazioni di fatto, che non entrano nel processo, ma che si rivelano interessanti se non essenziali anche per costruire quadri collettivi della memoria.

Il rischio è che tale memoria collettiva si perda, il che è motivo di sofferenza ulteriore per le persone che, loro malgrado, hanno vissuto vicende che hanno segnato la storia del nostro Paese, e che invece hanno bisogno di ricordare. E, soprattutto, di far ricordare. Si può “dimenticare” solo dopo aver fatto la fatica di ricordare, e soprattutto di ricordare in modo costruttivo. Il dimenticare, il poter voltare pagina e ricominciare a vivere è qualcosa completamente diverso dal “dimenticare” sistematico, repressivo o organizzato perché chiede la fatica di attraversare i ricordi, ma anche voce, presenza, dialogo, cultura, divulgazione, sensibilizzazione, testimonianza, narrazione, racconto.

Tutte queste possibilità non sono legate al processo, ma a un modello di giustizia altro, che è quello della giustizia riparativa, quando viene messa nelle condizioni adeguate per poter operare.

Oltre lo schema ritorsivo arcaico

Alcune culture operano con l'obiettivo non di escludere un componente della collettività, isolandolo e punendolo, ma di riaccoglierlo

E allora una giustizia accogliente è quella che supera lo schema ritorsivo arcaico e implica qualcosa di più e di diverso della pena, dell'archivio, della prescrizione e dell'oblio. La giustizia penale è una giustizia semplice: sembra complicata perché le norme sono tante, ma da più di duemila anni ripropone uno schema ritorsivo-vendicatorio legato al fatto che le culture occidentali si fondano sul modello epico della sfida mortale tra individui.

Ci sono culture che operano, invece, con meccanismi completamente diversi, dove ragione e torto non sono l’esito di un gioco “a somma zero”, ma sono una questione dialogica, sociale, dove l'obiettivo non è escludere un componente della collettività, isolandolo e punendolo, ma riaccoglierlo in modo che rientri nelle regole del gruppo e che il gruppo non perda nessuno dei suoi componenti.

Ciò appare difficilmente realizzabile nelle società iper-complesse occidentali, che sembrano non riuscire a fare a meno della pena e del carcere. Tale affermazione non implica adottare una posizione abolizionista, sia essa radicale o moderata. La pena serve ancora, il carcere è indispensabile per reati molto gravi e dove c'è una pericolosità sociale da contenere. Ma ciò non vuol dire che carceri sovraffollate, con scarse possibilità rieducative e con un alto tasso di suicidi siano accettabili. Occorre migliorare su quel fronte, senza illuderci che una rinuncia tout court della penalità come sostenevano negli anni 70 gli abolizionisti possa funzionare. Occorre equilibrio.

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Non dev’essere un brand di moda

Una riparazione offerta senza ascolto dei bisogni è inutile, anzi, non è neppure una riparazione ma un gesto unilaterale che può risultare ancora più irritante per le vittime di reato

L’ipotesi di una giustizia che accoglie, che ascolta, ha un nome: giustizia riparativa. Sembra essere già di moda, la giustizia riparativa, talvolta mal compresa nei suoi fondamenti e nei suoi metodi. Rischia di diventare un brand. La riparazione è una cosa difficilissima, perché presuppone la comprensione piena di che cosa andiamo a riparare. Una riparazione offerta senza ascolto dei bisogni è inutile, anzi, non è neppure una riparazione ma un gesto unilaterale che può risultare ancora più irritante per le vittime di reato. La giustizia riparativa, normativamente, di una disciplina organica, complessa, articolata.

È una normativa perfettibile. Lo sforzo collettivo è capire cosa non funziona e cosa migliorare, ma intanto siamo partiti con una svolta epocale: l'Italia è il primo Paese in Europa ad avere una normativa organica in materia di giustizia riparativa, che tiene conto della migliore letteratura scientifica internazionale, delle fonti sovranazionali e delle buone prassi.

È nata essenzialmente da un rifiuto. Esattamente come nel mito di Antigone, vi è stato un rifiutodelle regole e una contestuale richiesta di giustizia.  Quando la giustizia delle società occidentali (di civil law e common law) ha mostrato molteplici e profondi elementi di crisi, alcune comunità hanno chiesto di optare, o meglio di tornare, a modelli di giustizia ancestrali, a base dialogico-riparativa. Ad esempio, i nativi americani hanno promosso il loro atavico modello di giustizia, basato sul circle, sull'incontro e il dialogo comunitario.

Gli enti sovranazionali risconoscono la giustizia riparativa

Secondo un procedimento di tipo bottom up (dal basso verso l'alto), le prassi di giustizia riparativa si sono evolute in modelli teorici, sono state oggetto di studi empirici, hanno generato un “universale” della giustizia riparativa che ha trovato riconoscimento, prima ancora che nelle legislazioni, nazionali, a livello sovranazionale.

Il Consiglio d'Europa, nel 1999, ha emanato la prima raccomandazione sulla mediazione in materia penale, dove mediazione è il termine di riferimento per indicare la modalità dell’incontro tra autore e vittima volto ad affrontare le conseguenze di un reato. Nel 2002 le Nazioni Unite si sono espresse in materia con i Basic Principles on restorative justice”: giustizia riparativa e mediazione si sono posti in un rapporto di genere a specie. “Giustizia riparativa” è locuzione ampia; con “mediazione” si indica uno dei metodi della restorative justice. Dieci anni dopo i principi delle Nazioni Unite viene emanata la Direttiva 2012/29/Ue sui diritti minimi delle vittime: testo fondamentale, con carattere vincolante, vera porta d’ingresso per questa esperienza in Italia. Nell’ambito della direttiva sopra ricordata, tra i diritti delle vittime compare quello ad essere informate circa i servizi di giustizia riparativa disponibili. Nel 2018, una nuova Raccomandazione del Consiglio d’Europa si occupa di giustizia riparativa in materia penale. In itinere vi è una nuova Raccomandazione del Consiglio d'Europa, sui diritti delle vittime di reato, che recepisce quella del 2018 sulla restorative justice.

In sostanza, la giustizia riparativa, è un insieme di metodi attraverso i quali si offre alle parti interessate da un conflitto la possibilità di affrontare insieme, liberamente e volontariamente, le conseguenze di un reato.

La definizione, che ricalca quella contenuta nelle fonti sovranazionali sopra citate, non chiede esegesi ma uno sforzo di comprensione profonda.

Capire la giustizia riparativa coi fratelli Gatensby

È molto più difficile parlare di giustizia riparativa quando una comunità è “allevata” nel meccanismo della vendetta, della ritorsione, del premio, della punizione

Pur occupandomi di giustizia riparativa da anni, posso dire di averne compreso il valore solo quando ho fatto un percorso di formazione con i fratelli Phil e Harold Gatensby, canadesi sopravvissuti alle cosiddette “scuole residenziali”. Consapevoli del fatto che molti nativi canadesi, passati per le scuole residenziali, spogliati della loro identità, sottoposti a vessazioni psicologiche, ad abusi, finiva facilmente in carcere, i fratelli Gatensby hanno contattato il giudice Barry Stuart per proporre il loro modello di giustizia nei confronti dei minorenni nativi che, usciti dalle scuole residenziali, commettevano reati. Era indispensabile gestire con modalità non punitive ma riparative ed inclusive la school-prison pipeline, cioè quella tendenza sproporzionata per cui molti giovani da contesti svantaggiati finivano in carcere a causa delle politiche (anche scolastiche) molto severe.

Ascoltando i fratelli Gatensby, ho preso consapevolezza del rischio che la giustizia riparativa, nelle società occidentali, possa essere declamata come un imparaticcio, rappresentare una operazione di maquillage del sistema penale o, peggio, essere vista come un promettente business. Invece questo paradigma ha una profondità, ha una solidità, una matrice antropologica ancestrale che devono essere comprese e possono essere comprese solo con la giusta pratica.

Questi metodi sono naturali e chiari per coloro che provengono dalle comunità che li hanno nel tempo vissuti ed elaborati, ma lo sono molto meno per chi è erede della sfida epica: è molto più difficile parlare di giustizia riparativa quando una comunità è “allevata” nel meccanismo della vendetta, della ritorsione, del premio, della punizione. È tanto più difficile quando le persone di avvicinano al dialogo intrise di precomprensioni, se non di pregiudizi, non sanno ascoltare e riconoscere i desideri dell’altro, e si rivelano comunque inclini a valutazioni affrettate e senza appello.

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Le prospettive della giustizia riparativa

La sfida della giustizia riparativa è una partita che si gioca sul campo della comprensione e, di conseguenza, su quello della formazione. Mi riferisco anzitutto alla formazione dei mediatori e dei facilitatori, opportunamente prevista dalla legge secondo uno standard alto. Apre a un orizzonte di riflessione sulle norme, sulla disposizione favorevole alle norme, e spinge ad applicare le norme con spirito di giustizia, con un'attenzione doverosa alle persone e alla loro inalienabile dignità. Inoltre offre uno sguardo diverso sul conflitto e sulle sue conseguenze. L’incontro di sguardi, seppur difficile, può creare la svolta nel responsabile dell'offesa, e anche nella vittima. Viceversa, nel processo ognuno è attore e maschera del proprio ruolo, assegnato dalle norme. Ciò vale anche per le vittime di autore ignoto: lo storytelling può avere un valore terapeutico, come lo riconosce la therapeutic jurisprudence.

È una significativa opportunità: è alternativa nei presupposti teorici a quella penale, ma può lavorare in complementarità con essa, dispone di metodi dialogici, è orientata a risultati che non sono distruttivi (come la pena) e neppure pseudo-costruttivi come il risarcimento del danno, che offre una riparazione materiale ma finisce con il dare un prezzo a qualcosa che non ha un prezzo, ma una dignità. Ci sono, infatti, vittime che rifiutano il risarcimento perché non pare mai adeguato rispetto al bisogno di riparazione della dignità, un desierio destinato a rimanere insoddisfatto con il mero pagamento di un indennizzo.

La riforma Cartabia e la giustizia riparativa

La riforma Cartabia ha adottato un approccio generalista alla giustizia riparativa, che ne consente il ricorso tutti i tipi di illecito, senza preclusioni. Guardando al futuro della riforma, sorgono però alcuni timori: la giustizia riparativa potrebbe essere strumentalizzata – perché la si interpreta riduttivamente in ottica rieducativa, ponendo ancora una volta la centro l’autore del reato – oppure svilita a giustizia debole e buonista. Per questo occorre impegnarsi, prima di tutto culturalmente, per fare in modo che la giustizia riparativa serva innanzitutto alle vittime, per ribilanciare una situazione che è rimasta squilibrata per troppo tempo, e incoraggiando la ricerca di un tempo adeguato per la sua applicazione, cioè rispettoso dei tempi anche interiori delle vittime.

Non sarà semplice superare la diffidenza derivante dal fatto che alla giustizia riparativa si può accedere per ogni tipo di illecito e in ogni stato e grado del procedimento. Vi è stata una levata di scudi dell'avvocatura in relazione alla possibile violazione del principio di presunzione di innocenza, ancorché altri istituti, come la sospensione del processo con messa alla prova, entrino in frizione con il medesimo principio. Su quest’ultimo l’avvocatura tace, forse perché è strategicamente efficiente in termini difensivi. Ma anche un percorso di giustizia riparativa può esserlo, soprattutto nel lungo periodo: il percorso di autoresponsabilizzazione che un programma di giustizia riparativa può indurre nell’autore del reato potrebbe diminuire il rischio recidiva ed evitare il fenomeno delle sliding doors rispetto all’ingresso in carcere.

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Un’ultima storia esemplare

Concludo con una storia di giustizia riparativa che arriva dagli Stati Uniti e restituisce il senso di tale paradigma. Sister Donna Liette è una suora, lavora nel quartiere più violento di Chicago, città degli Stati Uniti col più alto tasso di omicidi. Il quartiere si chiama Back of the Yards, dove si combattono gang di ispanici e afroamericani e dove molte madri hanno perso dei figli in regolamenti di conti tra bande. Sia le madri di vittime, sia quelle degli autori del reato, vivono chiuse in casa. Sister Donna Liette cerca di affrontare una situazione di per sé stessa difficilissima, con un piccolo centro che all'inizio si occupa di donne maltrattate. Lì inizia l'esperienza dei “Mothers’ circle”.

Comincia ad avvicinare le madri delle vittime e le invita ad incontrarsi, a sedersi in cerchio e a raccontare la loro storia. All'inizio sono poche, poi diventano sempre più numerose, perché la condivisione del dolore è un modo per sganciarsi da un'esperienza traumatica che non cicatrizza mai del tutto. La qualità della relazione che si instaura nei circles comincia a fare la differenza. I circle si allargano, serve una stanza più grande. A un certo punto accade qualcosa di inaspettato. Una donna riveste due ruoli: è madre di una vittima e di un autore di reato. Piange un figlio al cimitero e uno in carcere. Questo fa saltare le regole, anche quelle dell'ingaggio rispetto al circle. A questo punto, Sister Donna prova la svolta e cerca di mettere insieme le madri delle vittime e le madri degli autori di reato. Il circle comincia ad avere sessanta donne, unite dalla sofferenza, dal dolore abissale di aver perso un figlio, sessanta donne che in un solo quartiere sono un numero enorme. Dall’esperienza dei circles nasce un pannello dove vengono poste le foto di chi non c’è più e di chi è vivo, in carcere. La memoria. Il passo successivo è la costruzione di un campo da football dove giocano insieme ragazzi ispanici e afroamericani.

Credo che questa sia un'esperienza di giustizia riparativa straordinaria, che comunica la forza umile e salda dell’incontro e del dialogo, e che lavora su due fattori: il potere terapeutico della narrazione e quello sociale della memoria. Oltre i binari stretti della legge penale si possono fare molte cose.

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