3 maggio 2021
di E. Ciccarello, A. Giambartolomei, R. Rijtano
La collaborazione con la giustizia non può essere l’unico modo per recuperare la libertà, neppure per un condannato all’ergastolo per mafia. Lo ha stabilito la Corte costituzionale (o Consulta) che lo scorso 15 aprile ha concesso un anno di tempo al Parlamento per intervenire e modificare l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, il cosiddetto ergastolo ostativo, con cui si vietano benefici e libertà condizionale ai condannati per reati gravi come mafia e terrorismo che non abbiano collaborato con la giustizia, anche quando, dopo almeno 26 anni di carcere, il "ravvedimento risulti sicuro". La Consulta ha dichiarato la norma incostituzionale, perché in contrasto con gli articoli della Carta e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che stabiliscono pari dignità per tutti i cittadini, la finalità rieducativa della pena e il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Il Parlamento avrà tempo fino a maggio 2022 per adeguare il regime penitenziario ai principi costituzionali, facendo attenzione a non compromettere l’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata.
L’ergastolo ostativo è figlio di un preciso momento storico. Nell’agosto del 1992, all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio, si stabilì che i condannati per mafia, terrorismo ed eversione non avrebbero potuto accedere a benefici penitenziari fino a quando si fossero rifiutati di collaborare con la giustizia. Con il 41 bis – il cosiddetto carcere duro che stabilisce il completo isolamento del detenuto dall’esterno e dalla comunità penitenziaria – l’ergastolo ostativo è stato per anni una delle architravi del regime penitenziario destinato ai mafiosi. Entrambi gli strumenti sono giudicati indispensabili dai magistrati antimafia per un efficace contrasto alla criminalità organizzata.
Critiche e dubbi su queste misure sono sorti soprattutto in anni recenti, perché sono cambiati tempi e contesti, ma anche perché la loro applicazione è stata estesa ben oltre l’eccezionalità iniziale. I reati ostativi oggi comprendono, tra gli altri, delitti contro la pubblica amministrazione, reati di narcotraffico, violenza sessuale di gruppo, tratta di persone. Al primo settembre 2020, su 1.800 ergastolani, 1.271 erano quelli con ergastolo ostativo, mentre nel 2003 i detenuti condannati al fine pena mai erano poco più di mille. Nel 2009 i reclusi al 41 bis erano 525, l’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) riporta invece la cifra di 752 detenuti al carcere duro.
Al primo settembre 2020, su 1.800 condannati al fine pena mai, 1.271 avevano l’ergastolo ostativo. 525 i reclusi al 41 bis nel 2009, 752 nel 2020
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) si è occupata di 41 bis e di 4 bis, chiamata a giudicare la loro compatibilità con l’articolo 3 della Convenzione, per cui "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". "La Corte ha più volte ribadito che, vista la pericolosità del fenomeno mafioso in Italia, le misure previste dal 41 bis sono giustificate e non incompatibili con i diritti tutelati dalla Cedu", spiega a lavialibera Guido Raimondi, magistrato e presidente della Cedu dal 2015 al 2019. In un solo caso si è arrivati a una violazione: il rinnovo del regime di carcere duro al boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano dal 23 marzo 2016 fino alla sua morte il 13 luglio di quell’anno. "Nell’ultimo biennio le condizioni di Provenzano, e in particolar modo le sue capacità cognitive, si erano deteriorate. Un deterioramento di cui il ministro della Giustizia, nel decidere il rinnovo del trattamento, non ha tenuto conto. Nel non considerarlo, ha commesso la violazione".
Diversa la questione del 4 bis. Nel 2016 sul tavolo di Strasburgo arriva il ricorso di Marcello Viola, pluriomicida, considerato uno dei protagonisti della seconda faida di Taurianova, una guerra tra ‘ndrine che causò decine di morti, scoppiata nel Comune in provincia di Reggio Calabria a metà degli anni Ottanta. Condannato all’ergastolo ostativo, Viola ha contestato allo Stato di avergli rifiutato la richiesta di due permessi premio perché non ha mai collaborato con la giustizia. La Corte di Strasburgo, nella sentenza del 13 giugno 2019, ha giudicato l’automatismo tra collaborazione e benefici una misura che limita "eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena", chiedendo all’Italia di adeguare il proprio ordinamento in modo da garantire una valutazione della pericolosità attuale della persona, tenendo conto di rotture con l’ambiente mafioso che possono esprimersi in modo diverso dalla collaborazione. Il diritto preso in considerazione è il cosiddetto diritto alla speranza. "Un diritto coessenziale alla nozione di dignità della persona", precisa Elvio Fassone, ex magistrato, giudice negli anni Ottanta al maxiprocesso di Torino e politico del Partito democratico. Per capirlo bisogna partire dalla "natura polifunzionale della pena, che deve essere in egual modo retributiva, dissuasiva e rieducativa. La rieducazione non può prescindere dal concetto di speranza. Se l’individuo sa di non poter migliorare la propria condizione, non ha alcuna motivazione a lavorare su di sé: un percorso lungo e faticoso".
Secondo la ministra Cartabia “per tutti il carcere deve essere volto a un futuro di reinserimento sociale. Ma le modalità devono considerare le specificità di ogni situazione”
L’ultimo caso trattato dalla Corte costituzionale è stato quello del mafioso Francesco Salvatore Pezzino che il 6 novembre 2018 ha chiesto ma non ottenuto la liberazione condizionale al tribunale di sorveglianza dell’Aquila. La sua difesa è ricorsa in Cassazione e la questione è stata inviata alla Corte costituzionale. Nell’udienza del 24 marzo l’Avvocatura generale dello Stato, che rappresenta il governo, ha chiesto una "sentenza interpretativa di rigetto": non di bocciare la norma, ma di indicare una via per abbandonare gli automatismi (niente collaborazione, niente liberazione) e "consentire al giudice di sorveglianza di verificare in concreto le motivazioni addotte dal detenuto", tenuto conto – ha detto l’avvocato generale Ettore Figliolia in udienza – de "l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare l’ordine del proprio territorio onde evitare che il detenuto, soggetto che si è macchiato di gravi reati, possa tornare a delinquere mettendo in pericolo la collettività".
"Per tutti, il carcere deve essere volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità devono diversificarsi e tenere in considerazione le specificità di ogni situazione", ha detto la Guardasigilli Marta Cartabia commentando l’ordinanza della Consulta e indicando la prospettiva del suo ministero. Al momento esistono due proposte di legge. La prima, del senatore Pietro Grasso (Leu), vorrebbe fornire una griglia di parametri per le valutazioni dei giudici chiamati a decidere sul tema. La seconda, dei deputati Stefania Ascari e Vittorio Ferraresi (M5s), vorrebbe introdurre ulteriori criteri per la concessione di permessi premio perché la collaborazione non sarebbe garanzia di ravvedimento. A dimostrazione di questa tesi viene citato il caso di Antonio Gallea, arrestato il 2 febbraio scorso: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, aveva ottenuto benefici ma era tornato a guidare il suo gruppo criminale.
Rivolte nelle carceri e torture: tutti i fronti aperti
"Va benissimo tutelare i diritti dei detenuti, ma allo stesso tempo dobbiamo salvaguardare gli interessi della collettività, ovvero la sicurezza pubblica – auspica Marzia Sabella, procuratore aggiunto a Palermo –. Occorrono strumenti per uniformare il giudizio della magistratura di sorveglianza, che la valutazione sia frutto di un onere collettivo in modo da acquisire quanti più elementi possibile e che la responsabilità non ricada sul singolo magistrato, con tutte le conseguenze che ne possono derivare in termini di pericolo ed esposizione personale". In concreto, eliminato lo spartiacque della collaborazione con la giustizia, valutare la rottura dei legami con la mafia richiederà di verificare, per esempio, "se durante gli anni di carcere la famiglia dell’ergastolano è stata mantenuta da Cosa nostra, oppure se Cosa nostra ha intanto trovato un lavoro al figlio del detenuto e così via".
Soltanto criteri chiari, l’impiego di nuove risorse e la massima attenzione, caso per caso, potranno tenere assieme due diverse, ma non contrapposte, esigenze. Il diritto alla speranza dei detenuti che hanno fatto un percorso di ravvedimento e il diritto alla speranza per chiunque, soprattutto in alcuni contesti, di essere tutelato dal potere criminale. Diritto, quest’ultimo, che la sola repressione penale non è in grado di garantire.
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