31 marzo 2022
Dieci anni fa Paolo Setti Carraro ha deciso di uscire da quella che definisce una situazione di "congelamento emotivo". Erano passati trent’anni dalla morte di sua sorella Emanuela, uccisa dalla mafia nella strage di via Carini insieme al neosposo, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Sono stati gli anni della rabbia che – dice Setti Carraro – è "giusta, legittima, e umanamente comprensibile". A un certo punto però non ce l’ha più fatta a "rimanere immobile". Con altri familiari di vittime della criminalità organizzata, ha partecipato a un percorso del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del comune di Milano e del Gruppo della trasgressione: progetto diretto a stimolare la riflessione sulla rieducazione dei detenuti dentro e fuori dalle carceri. Una scelta che l’ha portato a incontrare molti condannati e a capire che "un cambiamento è possibile, anche nei mafiosi".
Perché ha intrapreso questo percorso?
Ero stanco di restare chiuso nel mio dolore.
“Sono tra i pochi ad avere avuto una verità giudiziaria e sono contento. Ma esiste un'altra verità ed è quella sociale”Paolo Setti Carraro
Cosa ha scoperto incontrando i detenuti?
Che spesso sono persone con alle spalle una realtà limitata e violenta. Il problema è che il penitenziario ripropone modelli molto simili, a cominciare dal rispetto passivo di regole spesso astruse e dall’infantilizzazione del recluso. Invece dovrebbe responsabilizzare e far maturare una coscienza civile.
Un criminale può cambiare?
Sì, se gli vengono fornite adeguate opportunità. Vale anche per i mafiosi. L’ho visto con Roberto Cannavò, un ex killer della mafia catanese che ha ucciso 13 persone. Oggi è in libertà condizionale, lavora e va nelle scuole a parlare con i giovani delle scelte sbagliate che ha fatto da ragazzo. Certo, le conversioni improvvise sono eccezionali. Si tratta di percorsi che durano molti anni, che vanno seguiti e stimolati, ma sono possibili.
Una delle richieste dei familiari delle vittime di mafia è la verità. Quanto è importante?
Molto. Sono tra i pochi ad aver avuto una verità giudiziaria, e quindi giustizia, e ne sono contento. Ero soddisfatto quando ho saputo che gli assassini di mia sorella erano stati individuati, così come quando li hanno condannati. Ma persistere nel desiderio di vendetta è sbagliato. Il fatto che, per esempio, esista la possibilità di rito abbreviato con sconto di pena è una regola che la società civile si è data e non abbiamo alcun diritto di contestarla, di voler far prevalere la volontà individuale su quella collettiva. C’è poi un’altra verità, ancor più importante, ed è quella sociale.
Cioè?
Faccio l’esempio del Sudafrica, dove i parenti di chi ha subito i crimini dell’apartheid hanno avuto l’opportunità di raccontare pubblicamente la propria sofferenza, ricordando il valore della vittima e restituendole la dignità di essere umano, il suo valore per ciò che era e ciò che faceva. Udienze che sono state trasmesse in televisione e viste da milioni di persone. A volte in Italia si ottengono risultati simili grazie alla verità giudiziaria. Penso a Pietro Sauna: per molti anni si è creduto fosse stato ucciso a colpi di lupara per motivi personali. I parenti hanno fatto tante battaglie e solo pian piano è emerso che aveva denunciato un giro di estorsioni e tangenti dietro un mercato ortofrutticolo di Milano, andando a toccare determinati interessi. Esperienze come quella sudafricana però mi sembrano impossibili.
Perché?
La lotta alla mafia è un saliscendi: in alcuni momenti si attenua, in altri si riacutizza. Eppure conoscere, e quindi riconciliarsi, con quella parte della nostra storia sarebbe importante. Un filosofo spagnolo, George Santanaya, ha detto che chi non ricorda il suo passato è condannato a ripeterlo.
L’esperienza sudafricana è un’esperienza di giustizia riparativa. In Italia sono stati avviati percorsi positivi con i parenti delle vittime del terrorismo. L’idea non ha avuto lo stesso successo tra i familiari delle vittime di mafia. Perché?
Non direi che non abbia avuto successo, semplicemente non c’è stato alcun tentativo serio e concreto di avviare un percorso in questa direzione perché tra i familiari delle vittime di mafia esistono opinioni diverse.
Quali?
C’è chi considera possibile un cambiamento dei criminali, anche di quelli mafiosi: in particolare la cosiddetta manovalanza. E chi, a mi avviso, è congelato su dei vecchi schemi: crede che il mafioso sia irrecuperabile e ogni dialogo impossibile. Una visione arroccata sulla difensiva che non fa nulla per modificare lo status quo. Non siamo più sicuri buttando via le chiavi delle celle, ma assumendoci dei rischi, e investendo sulla formazione dei condannati. Non è detto che basti, né che funzioni o che funzioni con tutti, ma se non proviamo la società non evolve. Vorrei anche che ci si fermasse a pensare cosa significa passare 25 o 30 anni in carcere. Anni scanditi da sbarre e privazioni in cui alla pena ufficiale, cioè la sottrazione della libertà, se ne aggiungono altre collaterali e non dichiarate come la negazione del diritto alla sessualità o quello alla genitorialità responsabile. Dopo non sei più lo stesso. E, forse, hai sofferto abbastanza.
Ha mai incontrato gli assassini di sua sorella?
No, penso che dovrebbero essere loro a volerlo, in quel caso sarei disponibile a un incontro.
Li perdonerebbe?
Non mi piace parlare di perdono: presuppone un’asimmetria tra chi riceve e chi dà. Mi auguro un riconoscimento reciproco: da cittadino che ha sofferto a causa del male che gli è stato fatto a cittadino autore di quel male che si è ravveduto e si è assunto le proprie responsabilità, riacquistando dignità.
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