16 gennaio 2023
“Dopo l’incontro sono stata malissimo, mi sentivo in colpa nei confronti di mia madre e dei miei fratelli. Poi ho capito che quel momento rappresentava una parte fondamentale nella costruzione di una giustizia sociale”. Così Margherita Asta, figlia di Barbara Rizzo e sorella di Giuseppe e Salvatore, gemelli di sei anni uccisi dalla mafia insieme alla loro mamma il 2 aprile del 1985 a Pizzolungo, in provincia di Trapani. Margherita, parente di vittima di mafia, ha partecipato a Milano a un incontro organizzato da Libera dal titolo Per una giustizia che accoglie e ascolta, raccontando l'incontro in carcere con uno degli assassini.
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Quella mattina del 1985 nei piani di Cosa nostra a morire doveva essere il sostituto procuratore Carlo Palermo, ma quando l’autobomba parcheggiata sul ciglio della strada provinciale esplose, la Volkswagen Scirocco con a bordo la famiglia fece da scudo e il magistrato si salvò. A distanza di trentasette anni, Margherita ha scelto di incontrare uno dei colpevoli. “Mi ha accompagnata Enza Rando (già vicepresidente di Libera, oggi senatrice della Repubblica, ndr), che era più emozionata di me. Non volevo essere inquisitrice, ma soltanto guardare quell’uomo negli occhi e chiedergli 'perché?'".
"Non volevo essere inquisitrice, ma soltanto guardare quell’uomo negli occhi e chiedergli 'perché?'
"Quando ci siamo ritrovati a pochi centimetri di distanza – continua Margherita – lui mi ha preso la mano, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto ‘Mi scuso per il dolore che ho provocato’. Quella frase è valsa quasi più di una sentenza”. Terminato il colloquio, durato tre ore, Margherita ha fatto ritorno a casa. “I giorni dopo sono stati faticosi, c'è voluto del tempo per elaborare l'esperienza. Non è mia intenzione urtare la sensibilità degli altri familiari, ma affinché i diritti di tutti vengano rispettati è necessario trovare un equilibrio che punti alla giustizia sociale”.
Marisa Fiorani è la madre di Marcella Di Levrano, una ragazza di 26 anni uccisa il 5 aprile nel 1990 dalla Sacra corona unita, non troppo distante da Brindisi. Negli anni Ottanta Marcella aveva cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti, frequentando personaggi pericolosi e senza scrupoli vicini alla malavita locale. Poi partorirà Sara, ma i servizi sociali le toglieranno l'affidamento della bimba. A quel punto Marcella cercherà di reagire e inizia a collaborare con le forze dell’ordine, denunciando le persone che gestivano lo spaccio e il traffico di droga. Prima del maxiprocesso che si sarebbe tenuto contro la Sacra corona unita – dove Marcella avrebbe dovuto testimoniare – i sicari la uccidono. Il suo corpo verrà ritrovato nel bosco dei Lucci, tra Brindisi e Mesagne, con il volto sfigurato. La morte riservata ai traditori.
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Da quel giorno sua madre si batte per la ricerca della verità. Numerosi pentiti hanno confermato che Marcella fu uccisa per paura che testimoniasse al processo. Nel 2019 il procedimento penale è stato archiviato e l'unico degli esecutori materiali con un nome e un cognome è morto nel 2000.
"Conosco il mio dolore e ho voluto incontrare anche il dolore che c’era dall’altra parte. Non ho provato alcun rancore, solo un forte senso di accoglienza. Sentivo che quelle persone, chi ha fatto del male a Marcella, facevano parte della mia vita e della mia storia. Ricordo che un ragazzo mentre mi parlava si torturava le mani, quasi volesse staccarsele. Allora le ho strette e le ho baciate: 'Hai detto che hai fatto tanto male, adesso usa le tue mani per operare bene'".
"Chi ha fatto del male a Marcella, fa parte della mia vita e della mia storia. Per loro non provo alcun rancore, solo un forte senso di accoglienza"
Come Margherita, anche Marisa dopo e durante questi incontri si è fatta molte domande. "Ho pensato che Marcella potesse sentirsi offesa, ma quando stavo uscendo dalla cella e quel giovane mi ha detto 'Grazie mamma', ho capito che stavo facendo la cosa giusta. Ho anche aperto loro le porte di casa mia ed è stato un evento straordinario". Marisa avrebbe voluto incontrare anche l'assassino di Marcella, ma non c'è più. "Mi sono ritrovata al cimitero davanti alla sua tomba. Avevo sempre immaginato un mostro e invece in quella fotografia ho visto soltanto un ragazzo che mi ha fatto tanta compassione".
All'incontro di Milano ha partecipato anche Grazia Mannozzi, docente di diritto all'Università dell'Insubria, dove insegna anche Giustizia riparativa e mediazione penale. "Quello della giustizia riparativa è un modello diverso rispetto all’impostazione penale che appartiene alla nostra cultura. Da noi giustizia è soccombenza del nemico, "io vinco e tu perdi", con il colpevole che è destinato a essere espulso dalla società".
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"L’Italia – aggiunge Mannozzi – è il primo paese in Europa con una normativa organica sulla giustizia riparativa, prevista dalla riforma Cartabia, ma serve fare attenzione affinché questo modello non venga nuovamente pensato per gli autori dei reati, mentre deve essere invece rivolto alla vittima e ai suoi bisogni. E attenzione anche all’uso del termine 'vittima', che non dice nulla della forza, della personalità e delle differenze tra le persone che hanno subito un'offesa".
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