13 aprile 2022
La chiamano “sezione filtro”. Si trova al piano terra del padiglione A del carcere di Torino, ed è lì che vengono rinchiusi i cosiddetti “detenuti ovulatori”. Si tratta soprattutto di ragazzi africani costretti a defecare “a vista” perché sospettati di avere ingoiato ovuli di droga. Si vuole evitare che nascondano il bottino, magari per venderlo ad altri all’interno del carcere, perciò passano giorni in stanze fetide e senza arredamenti, senza servizi igienici e docce, in compagnia solo di un “wc nautico” da cui la polizia penitenziaria deve poi recuperare gli stupefacenti. Quando poche settimane fa la ministra della Giustizia Marta Cartabia è venuta in visita a Torino è stata accompagnata anche in quelle stanze. Ne è rimasta talmente inorridita da averlo definito “un reparto inguardabile per la sua disumanità, sia per le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, sia per i detenuti”. Ha assunto l’impegno di occuparsene. Il carcere in Italia è anche questo.
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Nel 1996 la casa editrice del Gruppo Abele ha presentato al pubblico italiano una delle opere più importanti del sociologo norvegese Thomas Mathiesen, con il titolo Perché il carcere?. Mathiesen è tra i rappresentanti più autorevoli della cosiddetta scuola abolizionista. Gli abolizionisti ritengono il carcere, invenzione settecentesca, una delle istituzioni più distruttive della società moderna e un grande fallimento: non rende più sicura la società, e non rende i detenuti delle persone migliori. Dal loro punto di vista i penitenziari servono soprattutto a chi detiene il potere per distrarre gli altri dai propri abusi e mostrarsi impegnati sul crimine. I primi a pagarne le spese sono le vittime di reato, che hanno poco vantaggio dell’arresto del criminale se non vengono anche risarcite dal punto di vista simbolico, materiale e sociale. La soluzione proposta è una drastica riduzione del ricorso alle celle e il potenziamento di forme di giustizia riparativa. “Anche se bisogna tenere conto delle reali funzioni del carcere – scrive Mathiesen – dobbiamo concederci il lusso di pensare ad alta voce, utopisticamente”. È una questione difficile, ma importante.
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In occasione dello scorso 21 marzo, giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, Daniela Marcone, responsabile del settore Memoria di Libera, ha parlato di una proposta di “ricucitura” da consegnare alla scelta dei familiari delle vittime. La maggioranza di loro non conosce la verità giudiziaria sull’uccisione dei propri cari, che resta la prima e più importante forma di risarcimento. Ciò nonostante, Libera è al lavoro anche sull’idea di “una possibile riconciliazione individuale e collettiva che farebbe fare un importante passo avanti nel nostro Paese nella direzione dell’affermazione di valori fondanti di democrazia, solidarietà e giustizia”. Chiudere le celle e gettare la chiave non serve, non fa bene a nessuno e troppo spesso è disumano. Il carcere è nudo, non voltiamoci dall’altra parte.
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