27 novembre 2020
Dal 7 al 9 marzo scorso, proprio mentre il paese entrava nel suo primo lockdown a causa della pandemia da Covid-19, ci furono disordini e rivolte in oltre 180 penitenziari italiani. I fatti fecero molto discutere. All’epoca, commentatori e analisti vari specularono sull’esistenza di una cabina di regia che avrebbe non solo coordinato disordini e rivolte, ma lo avrebbe fatto tracciando una precisa mappatura delle organizzazioni mafiose sulla penisola. Le mafie, si era detto, avevano organizzato le rivolte. Il 25 novembre la polizia penitenziaria, coordinata dalla procura di Roma, ha proceduto all’arresto di nove persone per le rivolte al carcere di Rebibbia e ha allo stesso tempo escluso che ci fosse una regia unica dietro gli eventi di quei giorni. Si sarebbe trattato di spirito di emulazione.
Una particolarità di queste rivolte era poi stata l’assenza di disordini, nelle carceri in Calabria. Ma invece di leggere questa anomalia come un segnale, forse, di diversa reazione all’emulazione, o di diversa coordinazione dei detenuti di particolari istituti penitenziari in periodo di pandemia e lockdown, qualcuno aveva sostenuto che tale anomalia fosse da attribuire ai diversi interessi di ‘ndrangheta sul territorio. Si era detto che nelle carceri calabresi, soprattutto a Reggio Calabria, la ‘ndrangheta che controlla il carcere, non avrebbe voluto, all’epoca, attirare ulteriore attenzione sul territorio su cui molti carcerati continuavano a mantenere i propri interessi.
Quando il 25 agosto 2020 i giornali hanno dato la notizia dell’arresto della dottoressa Maria Carmela Longo, ex direttrice del carcere di Reggio Calabria e poi direttrice di Rebibbia femminile, per un'accusa pesante come un macigno, cioè concorso esterno in associazione mafiosa, lo sgomento e la sorpresa di alcuni hanno fatto da contraltare all’indignazione di molti. Era dunque vero che il carcere di Reggio Calabria fosse sotto il controllo della ‘ndrangheta? Non doveva esserci un’attenzione particolare proprio a Reggio Calabria che permettesse di arginare proprio questo rischio?
Si fa presto a leggere i titoli dei giornali e a condannare si è tutti bravi, soprattutto quando si parla di mafia e si evocano giudizi morali più che legali; molta più fatica costa seguire i complessi e lenti iter giudiziari nel loro avvicendarsi e nel loro descrivere realtà complesse di difficile lettura. Quando il tribunale esprimerà un giudizio sull’imputata, che nel frattempo è tornata libera con il consenso della procura reggina, ci saranno altri titoli e ulteriori condanne o assoluzioni, come sta avvenendo per le rivolte di marzo, e si spera i pregiudizi verranno distinti dai giudizi.
Già nel 1965 il sociologo Thomas Mathiesen usava il termine "patriarcato illegittimo" per definire il modo in cui i detenuti percepiscono il potere
Sembrerebbe ovvio limitarsi a concludere che l’arresto della ex direttrice del carcere di Reggio Calabria mostri, ancora una volta, la forza della ‘ndrangheta, in carcere. In fondo, questo sarebbe in linea con le questioni sollevate soprattutto in tempo di Covid quando sono scoppiate rivolte in carcere, proprio sulle anomalie dei penitenziari calabresi. Le istituzioni, come la Direzione investigativa antimafia, notarono come le mafie possano strumentalizzare diversi episodi di disordine, inclusi quelli nel carcere, trasformandoli in protesta sociale. Ma in entrambi i casi, questa conclusione sarebbe una scorciatoia mentale, che non tiene conto del contesto e dei processi sociali e relazionali che si attivano all'interno degli istituti di pena, anche tra mafiosi detenuti e autorità. Ma andiamo con ordine.
Già nel 1965 il sociologo Thomas Mathiesen scriveva che le relazioni sociali in carcere sono di norma molto più caotiche di quanto comunemente si creda e utilizzava il termine di “patriarcato illegittimo” per definire il modo in cui il potere carcerario è di solito percepito dai detenuti. In carcere, infatti, esistono due problemi primari: la governance, inteso come il mantenimento dell’ordine sociale, e la legittimità.
Nel primo lockdown, alcuni boss sono stati scarcerati e la cosa ha sollevato molte polemiche
Giuristi e sociologi notano che i tumulti possono avvenire soprattutto in carceri dove i reclusi non hanno voce
Il carcere ha bisogno di ordine, come la società che lo ha creato. La governance deve fare i conti appunto con l’innato caos che regna nelle carceri. La ricerca suggerisce quanto sia improbabile che in qualunque carcere del mondo i meccanismi di governance vengano gestiti interamente dalle autorità. L’ordine carcerario, ci dice per esempio il politologo David Skarbek, è pressoché sempre negoziato tra quello che le autorità possono/vogliono/riescono effettivamente a gestire e quello che diventa auto-gestito dai detenuti. Un sistema carcerario considerato efficiente e/o giusto, che rispetta tutte le regole e le procedure, e che non concede al detenuto voce in capitolo in termini di governance, tenderà a fallire. Ci insegnano i giuristi e i sociologi (James "Jim" Jacobs o Richard Sparks), che esplosioni di malcontento e tumulti possono registrarsi soprattutto in carceri apparentemente lige al dovere, ma che peccano in umanità e impersonalità e peccano, quindi, nel dare una voce al detenuto, una fetta di governance. Insomma, nel governo del carcere entrano gioco forza anche i detenuti e la loro collaborazione.
La ricerca ci racconta come i detenuti tendono a organizzarsi in modo più o meno centralizzato, proprio per ottemperare a questa necessità di governance interna del carcere e anche per approfittarne. Governance che riguarda sia gli scambi economici (come ci si procura anche dentro al carcere beni che il detenuto vuole, legalmente o illegalmente?), sia gli scambi sociali (chi decide le norme di comportamento e le eventuali sanzioni?). Le norme e le organizzazioni che governano la vita carceraria sono sempre una negoziazione tra quello che i detenuti desiderano (a volte anche beni e benefici illegali) e quello che le autorità possono fare, nelle loro regolamentazioni, e riescono a fare, con le risorse attribuite.
In un carcere come quello di Reggio Calabria, le carriere criminali (e quindi anche ‘ndranghetiste) pre-carcere sono certo note ai detenuti. Come ricorda ancora Skarbek, quando si viene assegnati a un carcere nella comunità di origine o riferimento, è più immediato per i detenuti organizzarsi all’interno del carcere: la reputazione pre-carcere facilita la creazione di reti sociali. È chiaro, anche nel leggere l’ordinanza del 25 agosto, che parenti, amici e associati di vari clan di ‘ndrangheta si conoscono dentro e fuori dal carcere, e dentro e fuori dal carcere la reputazione mafiosa diventa motivo di rispetto e di autorevolezza per gli altri detenuti. Anche perché, nell’uscire dal carcere, quei contatti e quella reputazione continueranno a contare. In un sistema come quello carcerario, che appunto, viene percepito dal detenuto medio come ‘patriarcato illegittimo’, il potere e il carisma mafioso – soprattutto se i soggetti sono gli stessi dentro e fuori – sono ragione di ordine tanto dentro quanto fuori. Di ordine e legittimità.
Il carcere è il luogo dove regnano la ripetitività della vita quotidiana e l’esecuzione ritualistica – routine – di movimenti, incontri e bisogni. Una condizione perché questa ritualità sia accettata e non diventi oggetto del contendere – a mezzo di risse, rivolte ed esplosioni di violenza fisica o verbale – è che la si consideri parte di uno stato d’ordine fatalistico. Cioè, si accetta lo status quo non necessariamente perché lo si crede legittimo ma perché lo si crede inevitabile. Ma un ordine che si mantiene solo sul fatalismo dell’inevitabile non può durare.
I gruppi mafiosi possono manovrare l’ordine e la routine, creare diversivi e soprattutto ricorrere alla violenza. Il legame col territorio di riferimento non si spezza solo perché rinchiusi
D’altro canto, il carcere non è legittimato all’imposizione di regole a prescindere, non per il mafioso. Quando si parla di mafia, e quindi di un sistema di valori che non riconosce l’autorità statale come unica autorità da rispettare (quando non la rinnega del tutto), è necessario un passaggio in più: affinché si accetti quest’ordine fatalistico, serve una diversa forma di legittimità oltre all’inevitabilità della routine. Serve, cioè, che all’ordine imposto si affianchi un ordine voluto, accettato, rispettato anche dai mafiosi. Perché? Per quanto detto sopra in termini di governance. I gruppi mafiosi in carcere hanno mezzi e competenze per gestire la governance carceraria; possono, volendo, manovrare l’ordine e la routine, creare diversivi e soprattutto ricorrere alla violenza, non solo dentro ma anche fuori dal carcere, pur essendo detenuti. Il legame col territorio di riferimento – soprattutto a Reggio Calabria – non si spezza solo perché si è rinchiusi tra le mura del carcere.
La de-legittimazione dello Stato è, nel carcere, già all’ordine del giorno laddove il detenuto di ‘ndrangheta e mafia è stato condannato proprio per lo spregio che fa dell’ordine pubblico e delle autorità. Non può quindi sorprendere che in un carcere come Reggio Calabria il mantenimento dell’ordine passi dunque da un continuo rinegoziare e sfidare la legittimità dello Stato e che questa rinegoziazione sia necessaria per mantenere la stabilità e lo status quo, non violento, non conflittuale, nel quotidiano.
Immaginare che solo perché si tratta di mafiosi detenuti lo Stato abbia il potere – se non il diritto – di intervenire con formule ancora più punitive per evitare che si formino strutture di potere anche in carcere; ignorare che la governance carceraria sia sempre per forza di cose negoziata; immaginare che esista un’autorità pura e impersonale che possa agire ignorando i codici comportamentali esistenti in un carcere significa non voler vedere cosa accade veramente. In una frase, negare la realtà. Queste affermazioni appartengono a uno Stato cieco, non coraggioso. Uno Stato che solo perché si parla di mafia, si tappa gli occhi e dà il solito giudizio morale, non umano, e non realista.
Le cronache di un paio di decenni fa ci ricordano immagini di istituti carcerari vissuti alla stregua di grand hotel, tra champagne, prostitute e cocaina. Immagini di una governance carceraria totalmente sbilanciata a favore del potere mafioso che tendeva a riaffermare nel carcere quella superiorità, o quel senso di impunità, nei confronti dello Stato. Fino a prova contraria, tale subalternità è stata negli anni ampiamente invertita. Anche se la questione mafiosa è stata affrontata con un mix di repressione e prevenzione, irrobustito di strumenti e conoscenze negli anni, certo non si può dire che la lotta alle mafie sia risolta. Ecco dunque che le problematiche generali della questione penale e carceraria in Italia si interfacciano con le debolezze dell’approccio antimafia. La difficoltà di mantenere bilanciata la governance carceraria non è simbolo della forza delle mafie dentro e fuori dal carcere: semmai, è un’altro simbolo delle debolezze del sistema carcerario in generale, a cui mancano risorse a cui manca spesso progettualità. Il carcere non è la panacea di tutti i mali, è lo specchio della società, in qualunque senso.
Riconoscere che in carcere lo Stato debba limitarsi – come nella libera società – a un bilanciamento o a un contenimento di ordine e disordine; realizzare che ci sono situazioni complesse – familiari, individuali – che nascono fuori dal carcere e che in carcere diventano ancora più complesse, a causa di burocrazie del sistema e giudizi/pregiudizi sui condannati per mafia, e che pertanto bisogna trattare con sensibilità e praticità; ammettere che non è solo perché li si condanna al carcere – elastico, duro o durissimo che sia – che i mafiosi smettono di fare i mafiosi; forse anche contemplare l’idea che, se non spetta al carcere il ruolo di assoluzione, neanche spetta al carcere il ruolo di redenzione del mafioso, se anche fosse possibile. Queste sarebbero forse affermazioni di uno Stato che prova a pensare al suo sistema carcerario come un sistema in crescita, capace di auto-miglioramento. Non uno stagno uguale a se stesso, ma un mare che ha molte onde e pesci – errori, problemi, interazioni disordinate e contraddittorie tra attori diversi – ma, soprattutto, un orizzonte, quello del reinserimento sociale, a prescindere dalla spiaggia di partenza e da chi si era sulla spiaggia di partenza.
Lo Stato non può perdere di vista la natura interattiva del processo di reinserimento sociale, e la necessaria cooperazione da parte del detenuto a questo processo di cambiamento interiore ed esteriore. Come ci insegnano autori di criminologia critica e realista (per esempio Roger Matthews), non si può semplicemente fare una lista di strumenti per la riabilitazione e il reinserimento di un detenuto – educazione, socializzazione, assistenza psicologica per dirne alcuni – e applicarli senza differenziazione di sorta in base a valutazioni fatte a priori. Questo porterebbe al paradosso per cui nessuno di questi strumenti effettivamente funzioni nella pratica. Soprattutto quando si parla di realtà complesse, come quelle mafiose, è necessario togliersi il cappello punitivo e ricordarsi che la riabilitazione forse può passare da ciò che il detenuto considera un suo punto di forza così che il programma riabilitativo non diventi una sterile imposizione. Per capirci, è un po’ l’idea dell’hacker che viene arrestato per cybercrime e poi diventa un consulente per l’Fbi. Reincanalare quelle abilità prima utilizzate a scopi criminali su diversi piani di contributo sociale e forse anche sui territori di appartenenza, se necessario, anche per restituire al territorio ciò che è stato in precedenza preso. Questo processo inizia in carcere, ma è soprattutto, da doversi accettare fuori dal carcere.
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