La lettera delle detenute della Giudecca
La lettera delle detenute della Giudecca

Coronavirus, le detenute di Venezia protestano e donano soldi all'ospedale

Le donne del carcere della Giudecca offrono 110 euro al reparto di terapia intensiva di Mestre: "Un grido nella sofferenza, un gesto di speranza", scrivono.

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

18 marzo 2020

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Hanno fatto una “protesta solidale”. Hanno scritto una lettera, inoltrata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, per protestare contro le condizioni di vita in carcere e chiedere un provvedimento di clemenza o anche “qualsiasi misura alternativa”. Nel frattempo hanno raccolto una piccola somma da destinare al reparto di terapia intensiva dell’ospedale. Settantuno donne recluse nella casa di reclusione femminile alla Giudecca di Venezia, uno dei quattro carceri per sole donne in Italia, hanno deciso così di far sentire la loro voce: “Un grido nella sofferenza, un gesto di speranza”, scrivono in fondo alla lettera, prima delle loro firme.

Nei giorni scorsi, mentre in altri istituti di pena avvenivano proteste violente, loro hanno deciso di riunirsi in un’assemblea per discutere. Alla fine hanno scritto una lettera. “Siamo le donne della Casa di reclusione donne della Giudecca di Venezia, donne che hanno sbagliato ma stanno anche pagando per i loro errori, donne che lì fuori, come tutti voi, hanno una famiglia”. Spiegano che vogliono attuare una protesta pacifica per risolvere un problema di tutti i detenuti delle carceri italiane, a cui chiedono la collaborazione. “Oggi, nell’anno 2020, le carceri italiane vivono nel sovraffollamento, questo causa gravi disagi che in situazioni estreme come quelle che il nostro paese sta affrontando, in cui la vostra ma anche la nostra salute è a grave rischio per la pandemia del coronavirus, scoppiano in rivolte ingiustificate”. Le detenute affermano di condividere “i provvedimenti attuati per tutelare la nostra salute, ma la problematica è ben più grave di quanto in realtà le istituzioni fanno credere” e quindi chiedono “umanamente” che si considerino soluzioni come l’indulto, l’amnistia o altro.

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“Per far sentire la nostra voce, che pare non essere udita, in segno di ‘non violenza’ e solidarietà - aggiungono - faremo una donazione all’Ospedale dell’Angelo di Mestre (Ve) raccogliendo un euro a detenuta”. Sono 110 euro, “una piccola parte ma comunque una significativa cifra per donne che in questi giorni hanno visto interrotte, per un periodo non prevedibile, tutte le attività delle cooperative che danno loro lavoro all’interno di vari laboratori e progetti - scrive la direttrice del carcere, Antonella Reale, nel messaggio al ministro e al direttore del Dap allegato alla petizione delle recluse -. Vogliono mostrare la loro solidarietà alle persone che in prima linea stanno combattendo questa durissima battaglia contro il coronavirus”.

Il convento che divenne carcere

Sulla sinistra, l'ingresso del carcere della Giudecca
Sulla sinistra, l'ingresso del carcere della Giudecca

L’isola della Giudecca (o meglio, le isole che compongono la Giudecca) è nella zona meridionale di Venezia, separata dal canale che porta lo stesso nome. Qui, all’interno di un antico monastero, si trova il carcere femminile in cui secoli fa le suore ospitavano le ex prostitute, ragione per la quale si chiamava “convento delle convertite”. Nel 1859 il governo austriaco obbligò le suore ad accogliere le donne condannate che dovevano espiare la loro pena. Per farlo c’erano due strumenti: la preghiera e il lavoro. Quest’ultimo resta ancora oggi molto importante. Fino al 1992 la gestione di questa prigione è stata in mano alle suore e alle vigilatrici. Dopo, invece, nella gestione è subentrata la polizia penitenziaria. A guidarlo per anni è stata la direttrice Gabriella Straffi, seguita poi da Antonella Reale. L’istituto è un penitenziario, ospita cioè donne con condanne definitive sopra i cinque anni, ma funge anche da casa circondariale per chi è momentaneamente sottoposta a misure cautelari in attesa della sentenza.

Il carcere della Giudecca viene visto come un luogo della città. Le detenute si sentono delle cittadine e partecipano alla sua vitaSergio Steffenoni - Garante detenuti Venezia

“È un carcere un po’ particolare. Assomiglia più a una comunità. Le celle sono aperte, si chiudono soltanto la notte”, racconta Giulia Ribaudo, presidente dell’associazione Closer che da tre anni e mezzo organizza incontri con gli scrittori all’interno della struttura. “Abbiamo cercato di offrire alla cittadinanza un posto di aggregazione e cultura in uno spazio chiuso”, spiega lei. Ribaudo non si stupisce dell’iniziativa delle detenute: “Non è un caso che la protesta solidale sia nata da un carcere così”. Il garante del detenuti di Venezia, Sergio Steffenoni, per anni psichiatra in ambito carcerario, va a fondo: “Alla Giudecca hanno questa abitudine, ormai storica: i problemi all’interno del carcere si risolvono con le riunioni nelle singole celle o le assemblee - racconta -. È una pratica che risale agli anni in cui c’erano le detenute ‘politiche’ delle Brigate rosse. Ricordo le assemblee con le ‘politiche’, erano toste. Quando si parlava di diritti erano documentate”. Da allora il confronto, anche serrato, è entrato nell’ex convento: “È una tradizione portata avanti dalla direttrice Strazzi e dall’attuale direttrice, Reale”.

C’è poi da dire che alla Giudecca le detenute vivono in una condizione migliore di altri carcerati: i posti a disposizione sono 115 e al 4 marzo le detenute erano ottantotto. Qui, inoltre, c’è anche uno dei cinque istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) che ospita due donne e i loro due bambini (dati del ministero della Giustizia del 29 febbraio). “Il carcere della Giudecca viene visto come un luogo della città. Le detenute si sentono delle cittadine e partecipano alla sua vita”, continua Steffenoni. Una delle maniere per farlo sono gli eventi culturali: “Quando portiamo gli scrittori a presentare il libro in carcere entrano 50 cittadini da fuori e le detenute conducono l’incontro”, spiega Giulia Ribaudo. Lo strumento principale, però, è il lavoro.

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Tra acqua alta e Covid-19, il lavoro si ferma

A Venezia ci sono due cooperative che danno lavoro ai detenuti. Nascono da un episodio tragico. L’8 settembre 1993 il capo degli operai del porto, Sandro Travagnin, direttore della Compagnia dei lavoratori portuali, uccide a coltellate il provveditore dell’autorità del porto, Alessandro Di Ciò. Travagnin finisce in carcere. I suoi colleghi e molti altri si mobilitano e vogliono aiutarlo: “Non potete aiutare soltanto lui, ma tutti i detenuti”. Da quella vicenda dolorosa, nasce un moto di solidarietà e due cooperative sociali per i detenuti, "Il Cerchio" e "Rio Terà dei Pensieri", che ancora oggi operano nelle due carceri della Serenissima. Nel carcere della Giudecca l’ultima ha un laboratorio di cosmetica, le detenute producono shampoo e saponi bio. Nelle ultime settimane hanno anche prodotto disinfettati simili all’Amuchina. Realizzano borse e lavorano nell’orto del convento, vendendo i prodotti fuori dalle mura una volta a settimana. "Il Cerchio", invece, ha creato una sartoria e una lavanderia: “Dà molto lavoro alle detenute”, spiega Ribaudo. Molti hotel, anche quelli di lusso, della Laguna fanno lavare la biancheria alle detenute: “La città però è bloccata. Alcuni alberghi sono chiusi. Il lavoro è calato molto anche per le detenute”, aggiunge Steffenoni. In questa maniera il Covid-19 ha danneggiato le prospettive di reinserimento delle detenute che, per protestare, hanno preso carta e penna.

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