3 novembre 2020
Sofia – il nome è di fantasia – è un fiume in piena. Parla veloce, sciorina dettagli, si commuove e si arrabbia mentre racconta le vicissitudini della sua vita e di quella dei suoi figli. La sua storia è legata a filo doppio con il progetto Liberi di scegliere, che consente a minori e donne legate a famiglie di ‘ndrangheta di allontanarsi dal loro luogo di origine. Il programma è stato avviato dal Tribunale minorile di Reggio Calabria nel 2012 e, ad oggi, ha radicalmente cambiato la vita di quasi 80 minori e di molte delle loro mamme. Lei è una di loro.
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Sofia ha una grossa rosa tatuata sulla spalla. L’ha fatta qualche tempo fa, per coprire un altro tatuaggio, una tigre, scelto quando aveva 17 anni: "Ero diventata quella della tigre e non mi andava. Avevo voglia di cambiare", racconta. Potrebbe stare tutto in quel gesto il senso delle sue scelte, nel fiore che sovrasta la tigre, cancellandola per sempre. Un gesto doloroso, tuttavia l’unico possibile.
"Ci siamo sposati dopo tre anni di convivenza, trascorsi nell’infelicità totale. Usciva al mattino e tornava con il buio, non trovava mai l'occasione per cenare insieme, fare due chiacchiere, stare con i bambini. Consumava molta cocaina"
È nata in Polonia ed è arrivata in Italia nel 2000, da sola. Nel suo paese lavorava come sarta in una grande azienda che, come altre a quei tempi, in estate concedeva un’aspettativa di due mesi ai lavoratori perché venissero in Italia come stagionali. Ha racimolato i soldi per il biglietto vendendo i suoi macchinari da cucito. Così, senza altri fondi, con la promessa di un impiego da badante, è arrivata a Reggio Calabria nell’estate del 2000. Non conosceva l’italiano, ma con il tempo lo ha imparato guardando la tv. Nel 2006 lavorava in un bar ed è lì che ha conosciuto il futuro marito.
Cosa le è piaciuto di lui?
Non era bello: tozzo, piccolino, rotondo. Però si preoccupava per me. I fiori, il corteggiamento, tutte attenzioni che non avevo mai ricevuto. Sapevo che era stato in carcere ma ero una ragazzina e non mi facevo troppe domande. Sono rimasta incinta quasi subito.
Com'è stato il vostro matrimonio?
Ci siamo sposati dopo tre anni di convivenza, trascorsi nell’infelicità totale. Usciva al mattino e tornava con il buio, non trovava mai l'occasione per cenare insieme, fare due chiacchiere, stare con i bambini. Consumava molta cocaina. Alla sera arrivavano i suoi amici, si mettevano in salone a chiacchierare. Quando loro andavano via, lui si chiudeva in bagno. Ne usciva con certi occhi. Chiudeva tutte le finestre, reagiva al minimo rumore, si metteva a giocare a carte, da solo, in cucina. Una volta, dopo anni di umiliazioni, gli ho urlato "vai, drogato". Mi ha dato un calcio che mi ha lasciato a terra per un po’.
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Cosa sapeva del suo lavoro, dei soldi che portava a casa?
Capivo che non erano lavorati, perché erano troppi. Lui diceva che provenivano dal lavoro da imbianchino, ma quando erano davvero tanti mi diceva "Stai zitta e conta". Comunque era tirchio, a volte dovevo chiedere a mia suocera i soldi per la spesa. Lui invece ne spendeva a palate per vestirsi con abiti di marca. Sua madre lo riprendeva sempre, gli diceva “metti questi soldi da parte per i tuoi figli, smettila di fare lo spaccone”. Ho imparato da lei il termine "spaccone". Con il tempo ho iniziato a capire di più. Anche perché il fratello è stato arrestato per mafia, come suo padre, che era in carcere per tentato omicidio.
“Il dolore della detenzione mi ha aperto gli occhi. Quando sei in carcere capisci il senso della vita, che però sta fuori”
Che rapporti aveva con la sua famiglia?
Con suo padre non ho mai avuto rapporti, anche perché era in carcere. L’ho incontrato un paio di volte durante i colloqui. Con la mamma invece ho avuto un buon rapporto, perché mi dava una mano ed è stata sempre molto affettuosa con i miei figli. È venuta a vivere da noi quando hanno arrestato mio marito. Eravamo in confidenza, anche se era e resta una donna imbevuta di mafia. È cresciuta in quell’ambiente, mentre io ci sono finita per amore.
Nel novembre del 2010, quando i bambini hanno 4 anni, hanno arrestato suo marito. Cosa è successo?
Una sera mi ha detto: guarda che questa sera vengo arrestato. Ha lasciato tutti i documenti, ha preparato la valigia e se ne è andato. Era già successo diverse volte perciò non gli avevo dato peso: quella notte invece la polizia ha suonato davvero al campanello. In quell’occasione è successa una cosa di cui mi pento ancora oggi. Mentre i poliziotti chiedevano di mio marito e insistevano “ci deve dire dov'è, lo cerca il maresciallo”, io mi sono stizzita e ho risposto “e io che ci posso fare? Si arrangia, non lo so dov'è mio marito”. Mi vergogno ancora di quella risposta.
C’è qualcos’altro di cui si è pentita?
La manifestazione contro i processi e i giudici di Reggio Calabria. Si manifestava per dire che stavano arrestando tutti senza prove, solo per il cognome che avevano. Non ci credevo, ma ho tenuto lo striscione come le altre. Potevo risparmiarmela.
Com'è cambiata la sua vita dopo l'arresto?
Sono rinata. Avevo trovato il lavoro ed ero contenta, non tanto perché avevo bisogno di soldi, ma perché desideravo lavorare e lui non mi permetteva di farlo. Poi nel 2013 hanno arrestato anche me: una notte mi hanno presa e portata in questura fino alla mattina successiva. Ricordo la vergogna di stare seduta lì, con quelli che passavano perché iniziavano a fare il turno della mattina. Piangevo disperata, anche perché ho visto sul fascicolo la scritta “416 bis” e mi sono resa conto di aver fatto qualcosa di sbagliato: nelle intercettazioni c’era la mia voce. Quando ci hanno fatti uscire, ho pregato gli agenti di nascondermi le manette di fronte ai giornalisti che ci aspettavano. Non volevo le vedessero i miei figli. Loro hanno provato ai aiutarmi, sono stati molto gentili, ma non potevano: è stato terribile. Le persone non andrebbero riprese in queste condizioni. Le immagini sono ancora su YouTube: rivederle è una pena.
Perché l’hanno arrestata?
Mi hanno accusato di associazione mafiosa, due estorsioni e una tentata estorsione. Ho fatto tutto ciò che mio marito mi chiedeva di fare durante i colloqui, mi parlava di persone che gli dovevano dei soldi per dei lavori. Mi diceva “vai da questo e fatti dare i miei soldi”. Non andavo di persona, riferivo il compito alla persona che doveva farlo. La custodia cautelare è durata qualche settimana. Ho passato quei giorni piangendo, pregando e lavorando all'uncinetto. La notte non riuscivo a dormire. Ho permesso ai miei figli di venire dopo tre settimane, solo perché temevo che mi carcerassero definitivamente. Il dolore di quell’esperienza mi ha aperto gli occhi. Non riesco a descrivere il carcere, è veramente un mondo diverso, che non ti appartiene. Non dimenticherò mai il rumore della "battitura" mattutina: passavano per ogni cella a battere tutte le sbarre per verificare che nessuna fosse stata danneggiata. In quel momento capisci il senso della vita, che però sta fuori.
“Hanno chiesto alla nonna perché non ha fatto la scelta che ho fatto io. Se l’avesse fatta, loro avrebbero ancora un papà”
Quando è uscita dal carcere cosa è successo?
Dopo 25 giorni sono tornata a casa, ai domiciliari. Mia suocera e gli amici di mio marito hanno organizzato una festa per il mio ritorno, con i fuochi d'artificio, champagne. Quando sono arrivata ho detto loro, "accomodatevi, mangiate, bevete, io devo andare con i miei figli". Ci siamo messi in una stanza a parte, a guardare i quaderni di scuola. Avevano iniziato la prima elementare e noi avevamo l’abitudine di guardare insieme i quaderni, ogni giorno: quella notte mi hanno fatto vedere tutto quello che mi ero persa. Ci siamo abbracciati, baciati a più non posso. Poi abbiamo di nuovo dormito insieme. Adesso che sono adolescenti continuo a dormire una sera con uno e una sera con l'altro una volta a settimana.
In che modo ha conosciuto il progetto Liberi di scegliere?
Ho incontrato il presidente del Tribunale dei minorenni Roberto Di Bella nel 2016. Un incontro che porto nel cuore e non dimenticherò mai. Ero seguita dei servizi sociali perché dopo il mio arresto e l’inizio dei domiciliari è stata arrestata anche mia suocera, nel 2014, cui nel frattempo era stata data la potestà genitoriale dei bambini. Con il suo arresto i bambini sono stati formalmente assegnati ai servizi sociali, che venivano regolarmente per i colloqui. In quel contesto il presidente del Tribunale Di Bella mi ha parlato di questo progetto. Il rischio era che io finissi in carcere, dopo la sentenza definitiva, e i bambini andassero in una comunità. Il progetto invece ci permetteva di allontanarci, trovare una famiglia affidataria, provare a cambiare vita. Comunque ho impiegato due mesi a decidere. Andavo davanti il Tribunale la mattina presto e poi tornavo indietro: avevo paura che qualcuno mi vedesse, perché tutti sapevano chi ero e potevano pensare a una collaborazione.
Così è iniziata la vostra nuova vita.
Abbiamo fatto tutto di nascosto. Quando ci hanno avvertito della partenza, abbiamo avuto poco tempo per prepararci. I bambini sapevano che andavamo al nord perché avevo bisogno di lavorare, hanno preparato i giochi e si sono preoccupati della nostra cagnolina, che è partita con noi. Sono venuti a prenderci la mattina alle 5. Quando siamo arrivati a destinazione, ci attendeva un volontario di Libera che ci ha accompagnati in un appartamento provvisorio. Abbiamo vissuto lì per un mese, faceva un caldo terribile. Non avevamo nulla. Uno dei miei figli piangeva perché voleva tornare a Reggio Calabria. Non potevamo sentire nessuno, a parte i servizi sociali e il supporto psicologico. Le difficoltà sono state molte, ma ce l'abbiamo fatta.
Le difficoltà però non erano ancora finite, perché è arrivata la sentenza definitiva sul suo processo che l’ha condannata a 4 anni di reclusione.
Il mondo ci è cascato addosso anche se i miei figli ormai sapevano tutto e ci eravamo preparati a quel momento. Abbiamo dovuto trovare una famiglia affidataria, che abbiamo conosciuto prima, con cui al momento dell’arresto bisognava organizzare tutto: non è stato facile neanche per loro. Per fortuna dopo la condanna non mi hanno arrestata subito e hanno dato il tempo all’avvocato Enza Rando, di Libera, di trovare una sistemazione.
Non potevo andare in un qualunque carcere, perché la mia scelta poteva non piacere a qualcuno e poi bisognava trovare un penitenziario vicino a dove vivevamo, in modo che i miei figli potessero venire a trovarmi. Vivere in mezzo alle mafiose in carcere è stato pesante. Non accettavano il mio modo di fare, educato con gli agenti del penitenziario. Alla fine ci sono stata solo 10 mesi (l'avvocato Rando per il caso di Sofia si è appellata alla norma che consente di accedere alle misure alternative anche a chi ha reati ostativi, come quelli di mafia. La norma si appella alla “collaborazione impossibile” per assenza di informazioni da riferire alla giustizia, ndr).
Non ha provato rabbia o fastidio per l’arresto, viste le scelte che intanto aveva fatto?
Non mi sento una vittima. So bene con quale spirito ho fatto ciò che mi ha portato alla condanna, però sono cose successe realmente, non posso negarlo.
I suoi figli hanno mantenuto un rapporto con il padre?
Sì, ho sempre spinto in questa direzione. Non voglio essere io ad allontanarli dal padre. Inizialmente lui non è stato contrario, ma da poco ha cambiato versione. Sia nell'ultima telefonata sia in una lettera li ha accusati di averlo abbandonato. Ha detto che ci considera morti, come se avessimo avuto un incidente. Adesso i ragazzi sono molto arrabbiati con lui.
Perché secondo lei ha cambiato atteggiamento?
Penso due cose. O non è mai cambiato, faceva finta per interesse, e quindi adesso è semplicemente uscita fuori la verità e la rabbia. Oppure sta reagendo alla richiesta di divorzio, perché sente di perdere tutto. In quelle famiglie sono abituati che il figlio è costretto a prendere carta e penna e scrivere "papino, ti voglio bene": i suoi figli invece non sono abituati a fare queste cose, né con lui né con nessun altro.
Ha mai più rivisto sua suocera?
Sì. Ha chiesto di rivederci quando è uscita dal carcere. Anch’io volevo che si incontrasse con i ragazzi, adesso che sanno. È stato un incontro positivo, anche per come hanno reagito i miei figli, che a lei sono molto affezionati. L’hanno riempita di domande: sul padre, sul perché lo zio sia stato ucciso e il nonno sia in carcere. Le hanno pure chiesto perché non ha fatto la scelta che ho fatto io. Se l’avesse fatta, loro avrebbero avuto ancora il papà. Lei ha risposto a tutto. In alcuni casi bene, in altri ha prevalso il vittimismo: loro si considerano sempre vittime dello Stato. Lei prova un affetto profondo per questi bambini, ma difenderà sempre i suoi figli, anche se hanno sbagliato.
Ha paura?
Sì, ancora oggi. Per me, ma soprattutto per i miei figli. Ho paura che possa succedere qualcosa e che tutto questo sforzo possa essere vano. Che un giorno, quando loro saranno grandi e potranno decidere liberamente, siano attratti da quel mondo, anche se hanno conosciuto persone e valori diversi. Però valeva la pena provare, lo rifarei mille volte.
Da lavialibera n°5 settembre/ottobre 2020
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