17 marzo 2023
“A Milano leggeremo anche i nomi degli ultimi migranti morti a Cutro, perché riteniamo che dietro a quelle morti ci siano giochi di interessi e poteri forti, in una dimensione criminale che è sempre più ampia”. Così Luigi Ciotti, in vista della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia, che il 21 marzo si terrà a Milano.
Scandire ad alta voce i nomi dei migranti annegati nel mare della Calabria significa provare a salvarli quantomeno dall’oblio, senza cadere nella trappola della retorica tipica di molte celebrazioni. In effetti, fin dalla sua nascita nel 1995, l’elenco delle vittime innocenti delle mafie non è mai stato solo una raccolta di nomi. L’iniziativa è nata grazie alla determinazione di Luigi Ciotti e di due madri, Saveria Antiochia e Carmela Montinaro, alle quali la mafia aveva strappato i figli: Roberto, il poliziotto assassinato da Cosa nostra nel 1985 insieme al vice questore di Palermo Ninni Cassarà, e Antonio, il caposcorta di Giovanni Falcone morto nel 1992 nella strage di Capaci.
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L’elenco serve quindi a tenere viva la memoria e in questo senso la Giornata del 21 marzo - organizzata dal 1996, ma riconosciuta con legge dello Stato soltanto nel 2017 - va vista come un grande momento di condivisione collettiva. Quest’anno in piazza Duomo saranno letti 1.069 nomi, vittime del potere criminale in tutte le sue sfaccettature. Ci sono anche quelli di 115 bambini - Caterina Nencioni aveva solo 50 giorni quando morì nel 1993 a Firenze, insieme alla sua famiglia, nell’attentato di via dei Georgofili - e di 133 donne, molte innocenti, altre provenienti da contesti mafiosi, che hanno trovato la forza di ribellarsi pagando con la vita. “È una sorta di mappa delle mafie che serve a difendere il diritto fondamentale di alcune storie a non essere dimenticate – spiega Daniela Marcone, responsabile dell’area Memoria di Libera –. Il ricordo restituisce la narrazione della vita realmente vissuta dalla vittima nella sua pienezza”.
Ciascun nome è studiato con attenzione attraverso l’analisi delle fonti e degli atti giudiziari; i fascicoli passano quindi nelle mani di un gruppo di sei persone con competenze differenti, a cui spetta il difficile compito di approfondire le storie e decidere se inserire o meno i nomi nell’elenco, sottoponendo poi la valutazione alla presidenza di Libera. Del gruppo fa parte anche Marcone, figlia di Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del registro di Foggia ucciso il 31 marzo 1995. È lei insieme a Iolanda Napolitano – punti di riferimento nell’area Memoria dell’associazione – a curare l’elenco e a setacciare il territorio, italiano e internazionale, alla ricerca di storie dimenticate.
Ogni nome è studiato con attenzione, quindi un gruppo di sei persone decide se inserire o meno i nomi nell’elenco
Nel primo elenco stilato da Libera nel 1995 erano presenti 400 nomi, oggi sono più di mille, con una media di circa venti inserimenti all’anno. Nel 2023 sono stati aggiunti 16 nomi, fra cui quello di Giuseppe Montalbano, medico, politico e patriota garibaldino ucciso il 3 marzo 1861 a Santa Margherita Belice, in provincia di Agrigento. Montalbano è considerato la prima vittima innocente di mafia in Italia, dopo che per anni il “primato” è appartenuto a Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo accoltellato a morte durante un viaggio in treno nel 1893. Ciò testimonia la natura fluida dell’elenco, che si arricchisce continuamente di nuove storie, così come può capitare ne vengano eliminate altre, che non è coerente mantenere nell'elenco perché non aderenti al suo spirito.
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Nel 2023 entrano a far parte dell’elenco anche due vittime olandesi, l’avvocato Derk Wiersum e il giornalista Peter R. De Vries, entrambi uccisi ad Amsterdam – rispettivamente il 18 settembre 2019 e il 15 luglio 2021 – dalla criminalità olandese-marocchina. I loro non sono gli unici nomi “internazionali” presenti in elenco dove, fra gli altri, figurano le giornaliste Anna Politkovskaja (uccisa a Mosca nel 2006) e Daphne Caruana Galizia (assassinata a Malta nel 2017), ma anche il magistrato francese Pierre Michel, ucciso nel 1981 a Marsiglia dopo avere indagato a lungo sul narcotraffico, in una vicenda in cui il ruolo di Cosa nostra non è mai stato chiarito a fondo.
Proprio l’inserimento delle vittime uccise fuori dai confini nazionali risulta da sempre molto complesso. “La riflessione è delicata – spiega Marcone – a guidarci è l'analisi del contesto, cerchiamo di capire se è possibile ravvisare fenomeni criminali accostabili alle dinamiche mafiose che conosciamo. In determinati casi, penso a Daphne Caruana Galizia, questo aspetto è estremamente evidente”.
Un aspetto fondamentale da chiarire è che il riconoscimento di Libera non coincide con quello istituzionale. Di conseguenza, le persone che l’associazione considera vittime di mafia non per forza lo sono per lo Stato italiano. Per Libera affinché una persona rientri nell’elenco, devono sussistere due condizioni: l’innocenza presunta (fino a prova contraria) della vittima e la causa di morte, da imputare a un fenomeno mafioso.
“Il nostro tentativo – spiega Napolitano – è ricostruire una verità storica dei fatti, nel rispetto delle storie e del dolore delle famiglie. Dal 2015 è cresciuta l’attenzione nel processo di ricostruzione e nella raccolta dei documenti e ancor più nel 2017, quando la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie è stata riconosciuta da una legge italiana". Iolanda si è avvicinata a Libera negli anni della faida di Scampia. “A Napoli le storie delle vittime sono molto sentite – dice – direi che fanno parte della memoria collettiva della città”.
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“Capita di incontrare maggiori difficoltà quando dobbiamo risalire agli atti di storie avvenute nel Nord Italia – aggiunge Marcone – dove in molti casi è assente il riferimento alla violenza di stampo mafioso. Penso alle morti di Piero Carpita e Luigi Recalcati, due innocenti uccisi nel 1990 a Bresso, nella periferia nord di Milano, durante una sparatoria tra clan ‘ndranghetisti”. In effetti fino a qualche decennio fa in Lombardia si pensava che le questioni mafiose riguardassero soltanto il meridione, quando in realtà già da anni le famiglie calabresi controllavano il mercato della droga.
A differenza di Libera, lo Stato si muove su binari prettamente burocratici, anche perché il riconoscimento dello status di vittima può determinare un beneficio economico o l’assunzione negli enti pubblici. La parte controversa, e spesso oggetto di polemica, è che lo status di vittima è riconosciuto dallo Stato solo ai parenti delle persone uccise dopo il 1° gennaio 1961, che non hanno familiari appartenenti alla criminalità organizzata, fino al quarto grado di parentela. Libera, anche attraverso la campagna informativa Diritti Vivi, ha chiesto a più riprese alle istituzioni di eliminare questo criterio della data e del vincolo della parentela, ma gli appelli sono sempre caduti nel vuoto.
Lo Stato si muove su binari burocratici: il riconoscimento dello status di vittima può determinare un beneficio economico o l’assunzione negli enti pubblici
“È urgente che quella linea di demarcazione tirata con un righello impietoso sia cancellata – si legge in un documento condiviso dall’associazione – permettendo così a tante storie di acquisire la dignità di un riconoscimento fondamentale per far ricongiungere la lettura storica a quella istituzionale, perché la lotta alle mafie non conosce limiti di tempo e di spazio”.
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Sulla questione parentela, in particolare, Libera spinge per “una modifica della norma che preveda una valutazione caso per caso che guardi alle frequentazioni del superstite e dei familiari della vittima e non al grado di parentela, al fine di contemperare l’esigenza di fondo a cui il legislatore ha voluto dare voce, prevedendo le misure di sostegno alle vittime e l’interesse pubblico che tali diritti non siano in nessun caso riconosciuti a coloro che intrattengono relazioni con soggetti mafiosi”. “La cosa che fa più male – osserva Marcone – è che il riconoscimento di vittima di mafia da parte dello Stato non passi dall’analisi del contesto, ma da una mera ricostruzione amministrativa”.
Che Libera percorra un’altra strada è chiaro fin dall’inizio, come dimostra la presenza nell’elenco di Giuseppe Di Matteo, il figlio del boss e collaboratore di giustizia Santino Di Matteo. Il ragazzino fu rapito nel 1993 e ucciso dopo tre anni di prigionia a San Giuseppe Jato, prima strangolato e poi sciolto nell’acido. La scelta a suo tempo fece discutere ma il principio di fondo è che un innocente, per quanto parente di un mafioso, non può essere considerato a prescindere un criminale.
Un innocente, per quanto parente di un mafioso, non può essere considerato a prescindere un criminale
Fin dal 1995 Libera promuove il diritto al nome – che non ha natura civilistica ma un forte significato etico – e il diritto alla verità. In molte storie gli omicidi sono rimasti impuniti e non si è mai svolto un processo; in altri circostanze le indagini sono state archiviate quando forse era necessario compiere ulteriori approfondimenti. In questi casi le famiglie subiscono un ulteriore strappo, si ritrovano da sole a invocare una giustizia che non arriva. Secondo i dati raccolti dall’associazione, le vittime innocenti delle mafie che non hanno ottenuto verità e giustizia attraverso un regolare percorso processuale vanno oltre l’80 per cento.
Nell’elenco delle vittime che il 21 marzo verrà letto in piazza Duomo vi sono anche delle persone scomparse, il cui corpo non è mai stato ritrovato. Ad esempio Luigi Fanelli di Bari, la cui storia è stata inserita per farne memoria e sostenere la famiglia, in particolare la madre. C'è anche la storia di Maria Chindamo, quella di Barbara Corvi e molte altre, che attendono una risposta.
Ci sono vicende riemerse dopo anni, durante i quali famiglie provate dal dolore sono rimaste in silenzio, fino a quando qualcuno ha trovato la forza di tornare a parlarne. Come nel caso di Matteo Toffanin, ucciso a Padova il 3 maggio 1992, forse per uno scambio di persona. Quel giorno il 22enne , era rientrato dal mare insieme alla fidanzata Cristina Marcadella, rimasta ferita al ginocchio. È grazie a lei che la storia di Matteo è tornata alla luce, tanto che la procura di Padova ha deciso di riaprire l’indagine.
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Il sostituto procuratore Roberto d’Angelo ha iscritto nel registro degli indagati due ex esponenti della Mala del Brenta – l’organizzazione criminale attiva in Veneto tra gli anni Settanta e Novanta – sospettati di avere ucciso il ragazzo: Andrea Battacchi e Sergio Favaretto, entrambi uomini fidati del boss Felice Maniero. Secondo la ricostruzione del magistrato, quel giorno il vero obiettivo dei sicari era Massimo Bonaldo, un ex della Mala che abitava in zona e, soprattutto, guidava la stessa auto di Toffanin.
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