4 giugno 2024
All eyes on Rafah, “tutti gli occhi su Rafah”. Su Instagram, questa scritta è stata ricondivisa quasi 50 milioni di volte: invita a tenere alta l’attenzione su quanto sta succedendo nella città all’estremo sud della Striscia di Gaza, al confine con l’Egitto, dove da un mese ai bombardamenti aerei israeliani si è aggiunta l’invasione di terra. Mentre ai giornalisti viene ancora impedito l’accesso, gli occhi su Rafah sono quelli degli operatori umanitari e dei civili che affidano ai social il racconto della loro quotidianità sotto le bombe. Abbiamo parlato con alcuni di loro.
In tutta la Striscia di Gaza:
A Rafah:
"Sognavo di laurearmi e costruire una famiglia. Ora il massimo che posso sognare è un po' di acqua potabile e di cibo"
Mohammed, 19 anni, prima della guerra studiava comunicazione all’università al Aqsa di Khan Younis, 10 chilometri più a nord. L’ateneo è stato distrutto lo scorso gennaio dai bombardamenti israeliani, e oggi tra le sue rovine trovano rifugio decine di sfollati, come documentato dall’agenzia di stampa turca Anadolu. “Sognavo di laurearmi, di sposarmi, costruire una casa e viverci con la mia famiglia”, scrive Mohammed in chat nei rari momenti in cui la connessione funziona. “Oggi il massimo che posso sognare è un po’ di acqua potabile e di cibo”. A inizio maggio, quando l’aviazione israeliana ha lanciato su Rafah i foglietti che avvertivano dell’imminente invasione, ha lasciato casa insieme alla famiglia e si è rifugiato nell’area di Al Mawasi, a ovest della città, da uno zio. “Non so se casa mia è ancora in piedi, tutti i nostri vicini se ne sono andati come noi – racconta –. Oggi Rafah è una città fantasma”.
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Al Mawasi era stata designata da Israele come zona sicura per i civili. In realtà, non è stata risparmiata dai bombardamenti: l’ultimo, avvenuto lo scorso 28 maggio, ha ucciso 21 persone secondo funzionari palestinesi. “Non c’è posto sicuro a Gaza – commenta Mohammed –. Stanno distruggendo tutto, uccidendo donne, bambini e anziani nei modi più atroci”. Racconta di aver perso diversi conoscenti: familiari, compagni di università e “la ragazza che amavo”.
Ad Al Mawasi ci si nutre grazie agli aiuti umanitari che riescono a passare dall’Egitto, tramite il valico di Rafah, o da Israele, tramite quello di Kerem Shalom. Entrambi sono controllati dalle forze israeliane, che decidono quanto e cosa può entrare. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), nelle ultime settimane sono potuti entrare 350 camion, quando per soddisfare i bisogni della popolazione ne servirebbero 600 al giorno. “Ogni scatola contiene quattro o cinque lattine di fagioli o ceci, carne in scatola, un pacchetto di dolci – racconta Mohammed –. Se non ne abbiamo abbastanza proviamo a comprare qualcosa, ma si trova poco e costa tutto tantissimo. Per esempio, prima della guerra un sacco da 25 chili di farina costava circa dieci dollari, oggi 25. Una confezione di lievito costava 3 dollari, oggi il triplo, e lo stesso vale per cibo in scatola, frutta e verdura”.
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Ora Mohammed sta cercando di fuggire, di nuovo: “È diventato troppo pericoloso: qualche giorno fa una bomba è caduta sui nostri vicini. Ma non abbiamo nessun parente da altre parti, neanche una tenda. Dormiremo per strada”. Come lui, migliaia di palestinesi stanno cercando di lasciare Rafah: secondo l’Unrwa, più di un milione di persone sono già fuggite, soprattutto verso Khan Younis. Tanti vengono dal nord della Striscia e vivono da sfollati da mesi, costretti a fughe continue dall’avanzata dei carri armati israeliani.
"Viviamo in 6 in una tenda di 4 metri per 4. Il bagno è fuori, condiviso con non so quante persone, e manca cibo e acqua potabile"
Ha già lasciato la città Shereen, 23 anni, insegnante di inglese. Tra gli ultimi contenuti pubblicati sul suo profilo Instagram, un video: passeggiate sulla spiaggia, tavole imbandite di piatti tipici, il profilo della città al tramonto. In alto, la scritta in arabo “la nostra vita prima della guerra” e un cuore spezzato. “Sono di Rafah, ma quando l’esercito israeliano ha iniziato l’offensiva siamo stati costretti a trasferirci nel campo di Maghazi (al centro della Striscia, ndr)”, racconta in chat. “Ma neanche qui è sicuro. Non c’è posto sicuro a Gaza”. Lo scorso 16, un bombardamento ha colpito parte del campo, uccidendo secondo Amnesty 10 bambini e 5 uomini. La conversazione è interrotta da lunghe pause, anche di diverse ore: “La connessione non funziona sempre e per caricare il telefono devo uscire e raggiungere una postazione specifica del campo”, spiega Shereen. “Stare qui è difficile: viviamo in una tenda quattro metri per quattro e siamo in sei. Il bagno è fuori, condiviso con non so quante persone. Non c’è cibo, acqua e beni primari a sufficienza per tutti. Ci hanno detto che delle persone sono morte per questo, o perché hanno bevuto acqua sporca o cibo avariato. Alcuni erano bambini”.
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A Rafah è al collasso anche il sistema sanitario: secondo le Nazioni Unite restano attivi solo 3 ospedali da campo, mentre nell’intera Striscia solo 14 strutture su 36 sono funzionanti. Solo nell’ultima settimana, Medici senza frontiere è stata costretta a chiudere due strutture, un centro di stabilizzazione a Tal as-Sultan e una clinica ad Al Mawasi, entrambe nella zona di Rafah. Martina Marchiò, coordinatrice medica dell’organizzazione umanitaria, è rientrata in Italia a fine maggio dopo aver prestato servizio per un mese e mezzo: “Gli ospedali e le cliniche esplodevano di pazienti – racconta a lavialibera –. Quelli che hanno subito traumi a causa delle esplosioni e devono andare urgentemente in sala operatoria, ma anche pazienti che soffrono di patologie croniche come diabete o malattie cardiovascolari che si sono riacutizzate a causa della mancanza di medicinali e di cure adeguate”. A questi si aggiungono poi centinaia di civili che accorrono agli ospedali semplicemente per trovare un rifugio. Non esistono altri posti pronti ad accoglierli: a causa dei bombardamenti, l’Unrwa è stata costretta a evacuare e chiudere tutti i 36 rifugi che gestiva nell’area di Rafah.
"Mai come questa volta ho sperimentato la sensazione che non ci sia nessun posto sicuro per nessuno, neanche per noi operatori, e mai nella mia vita ho visto così tanti bambini amputati"Martina Marchiò - coordinatrice medica Medici senza frontiere
Marchiò ha prestato servizio in altri scenari di guerra. Questo, però, “è diverso da tutti gli altri”: “Mai ho sperimentato come questa volta la sensazione che non ci sia nessun posto sicuro per nessuno, neanche per noi operatori – racconta –. È capitato anche che le bombe cadessero molto vicino a noi”. Secondo le Nazioni unite, 493 operatori sanitari e 270 operatori umanitari sono stati uccisi nella Striscia dal 7 ottobre. E poi “la distruzione più totale: intere zone rase al suolo, ci passi in auto e non c’è più niente. Ci vorranno almeno dieci anni perché tornino com’erano prima”.
Senza precedenti anche il numero di persone amputate a causa delle esplosioni: “Non ne ho mai visti così tanti nella mia vita – dice Marchiò –. Tantissimi bambini che hanno perso gambe o braccia. Sono vivi, ma la loro vita è cambiata per sempre”. Secondo l’Unrwa, ogni giorno nella Striscia vengono amputati in media più di 10 arti di minori e si stima che la guerra causerà 12mila nuovi casi di disabilità, che andranno ad aggiungersi ai circa 130mila recensiti nella Striscia prima del 7 ottobre. Un rapporto pubblicato dall’organizzazione umanitaria palestinese Qader lo scorso aprile mostra come queste persone siano oggi doppiamente vulnerabili a causa della chiusura delle strutture specializzate, della difficoltà di movimento e della carenza di medicinali e attrezzature mediche come protesi, stampelle e carrozzine.
Il rapporto cita la testimonianza di Ali, 21enne con disabilità finisca residente a Khan Younis, che racconta la difficoltà di affrontare diversi sfollamenti consecutivi in sedia a rotelle: “Dopo aver cercato rifugio prima in ospedale e poi all’università, sono stato costretto a fuggire verso Rafah. Fortunatamente ho trovato persone compassionevoli che mi hanno assistito spingendo la carrozzina tra le macerie e sotto i bombardamenti e mi hanno procurato una tenda. Ma la mancanza di coperte e la scarsità di cibo e medicinali hanno aggravato i miei problemi di salute. Anche andare in bagno per me è una sfida”.
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Marchiò ricorda anche i momenti di festa quando, il 6 maggio scorso, Hamas ha comunicato il parere favorevole a una proposta di accordo per il cessate il fuoco, mediata da Egitto e Qatar: “La gente si è riversata nelle strade, cantavano e ballavano. Il mattino dopo, però, sono arrivati gli ordini di evacuazione e tutti sono piombati nello sconforto più totale”. Venerdì scorso, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha presentato un’altra proposta, che prevede il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi in cambio della scarcerazione di alcuni detenuti palestinesi e il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, ma il premier israeliano Netanyahu ha comunicato che non fermerà l’offensiva fino alla completa distruzione di Hamas.
Martina Marchiò chiede che anche l’Italia faccia la sua parte: insieme ad altri 17 colleghi di Medici senza frontiere, lo scorso 28 maggio ha firmato una lettera indirizzata alla presidente Meloni chiedendo che “si faccia promotrice di un’iniziativa umanitaria concreta e ambiziosa” per giungere a un cessate il fuoco, garantire la protezione dei civili e assicurare un’assistenza umanitaria adeguata. “Quello che abbiamo visto è difficile da accettare – si legge –. A Gaza manca tutto e si muore per qualsiasi cosa. Oltre un milione di civili è allo stremo, mentre i più elementari principi di umanità e solidarietà sono totalmente calpestati”. Marchiò guarda con speranza al movimento di solidarietà nato sui social intorno a Rafah, ma non è abbastanza: “Noi cittadini possiamo continuare a spingere e fare rumore, ma le decisioni che possono smuovere la situazione vengono dall’alto”.
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