Basel riposa sulle colline di Masafer Yatta con la sua telecamera a fianco. Sullo sfondo, una ruspa dell'esercito israeliano (foto di Autlook Filmsales)
Basel riposa sulle colline di Masafer Yatta con la sua telecamera a fianco. Sullo sfondo, una ruspa dell'esercito israeliano (foto di Autlook Filmsales)

Altro che Oscar, No Other Land è da Nobel

Il documentario israelo-palestinese non è solo un racconto dell'occupazione in Cisgiordania, ma un'esperienza di resistenza nonviolenta e una riflessione disincantata sul senso di denunciare le ingiustizie

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

1 marzo 2025

Capita raramente che, conclusa la proiezione di un film, la sala del cinema si svuoti nel silenzio più assoluto. È l’effetto che produce No Other Land, candidato agli Oscar come miglior documentario (mentre scriviamo, i premi non sono ancora stati assegnati) e vincitore della scorsa edizione del Festival di Berlino per la stessa categoria. Prodotta da un collettivo israelo-palestinese e registrata tra il 2019 e il 2023, la pellicola mostra senza filtri la realtà dell’occupazione in Cisgiordania, documentando in presa diretta gli espropri e le demolizioni che la popolazione di Masafer Yatta, agglomerato di villaggi a sud di Hebron, subisce quotidianamente da quando Tel Aviv ha deciso unilateralmente di fare dell’area una zona militare.

Masafer Yatta è un agglomerato di dodici villaggi all’estremo sud della Cisgiordania, poco più di una decina di chilometri da Hebron. Secondo le Nazioni Unite vi abitano 215 famiglie, dedite principalmente alla pastorizia, per un totale di 1.150 persone, la metà bambini.

Dopo aver occupato la Cisgiordania con la guerra dei Sei giorni del 1967, negli anni Ottanta Israele ha deciso di stabilire nell’area la "zona di tiro 918", destinata alle esercitazioni militari. In un documento del 1981, reso pubblico solo cinque anni fa, l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon dichiarava esplicitamente che l’obiettivo reale era quello di arrestare "l’espansione degli arabi". Così, nel 1999 sono iniziati gli espropri, le espulsioni e le demolizioni.

L’anno successivo, sollecitata da un’organizzazione israeliana, l’Alta corte di giustizia israeliana (che non dovrebbe avere giurisdizione su un territorio occupato illegalmente) ha permesso agli sfollati di tornare nelle proprie case nell’attesa di una sentenza definitiva. Ci sono voluti 22 anni, durante i quali le demolizioni sono comunque continuate: nel maggio del 2022 i giudici hanno rigettato il ricorso, affermando che non ci sono ostacoli legali alle espulsioni. La pronuncia ha dato nuovo impulso alle azioni dell’esercito, a cui negli ultimi anni si sono aggiunti anche gli attacchi dei coloni.

Oggi due villaggi di Masafer Yatta non esistono più, diverse famiglie espropriate sono costrette a vivere nelle grotte e altre, anche se non espulse, hanno scelto di trasferirsi altrove. È una storia emblematica della realtà dell’occupazione israeliana: secondo le Nazioni Unite, circa il 20 per cento della Cisgiordania è stata dichiarata zona militare, esponendo 5mila palestinesi di 38 comunità diverse al rischio di espulsione. Nel 2024 sono stati registrati 1760 demolizioni, 4250 palestinesi sfollati e 1400 azioni violente da parte dei coloni, i numeri più alti degli ultimi vent’anni.

Resistere nella valle del Giordano: la nostra fotoinchiesta

Perché raccontare se non cambia nulla?

No Other Land non è solo il racconto di ciò che succede, ma anche una metanarrazione su informazione, giornalismo e attivismo capace di parlare anche oltre i (calpestati) confini della Cisgiordania

"Ho cominciato a filmare quando è iniziata la nostra fine", esordisce l’attivista palestinese Basel Adra, nella doppia veste, insieme al giornalista israeliano Yuval Abraham, di protagonista e regista. Sono proprio i dialoghi tra i due, alternati alle scene delle demolizioni e della resistenza nonviolenta della popolazione palestinese locale, a fare di questo film qualcosa di più di un documentario. Perché No Other Land non è solo il racconto di ciò che succede, ma anche una riflessione disincantata e irrisolta sul senso di raccontarlo, una metanarrazione su informazione, giornalismo, attivismo online e offline capace di parlare anche oltre i (calpestati) confini della Cisgiordania occupata. Sullo sfondo, una domanda, che interroga chiunque abbia a che fare con qualsiasi ingiustizia, e in particolar modo chi con l'autore di questo articolo condivide la professione: che senso ha raccontare se poi non cambia nulla?

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