30 gennaio 2020
L’8 novembre 2019 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sollecitato l’attenzione dei cittadini su due casi paralleli e contemporanei: la senatrice a vita Liliana Segre, scampata da giovane all’inferno di Auschwitz, si è vista assegnare una scorta, a causa degli insulti e delle ripetute minacce che ogni giorno riceve in rete; su un autobus della città di Alessandria, in Piemonte, una bambina di sette anni dalla pelle nera si è sentita dire da una signora sessantenne “no, qui tu non ti siedi”. Mattarella ha richiamato questi episodi per avvisare i cittadini che “odio e intolleranza” sono fatti “concreti”, che dunque occorre vigilare affinché l’odio non si diffonda ulteriormente nelle vene della società. Tutti sanno che moltissimi altri episodi di questo genere si sono già verificati e continuano a verificarsi (in rete, per strada, sui mezzi pubblici, sugli spalti dei campi di calcio, nei condomini e così via).
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Da dove viene tutto questo odio? C’è un aspetto degli episodi da cui siamo partiti (e dai molti altri di cui veniamo a conoscenza in questo periodo) che richiede di essere preso in considerazione: si tratta di un odio immotivato sul piano personale. Quale sgarbo, quale offesa, quale azione malevola Liliana Segre o la bambina sull’autobus hanno preventivamente compiuto verso coloro che sono diventati i loro odiatori? Non si tratta dunque di ira o di odio per reazione verso qualcuno che ha fatto del male a qualcunaltro. Si tratta di odio allo stato puro: odiare qualcuno proprio perché non ci ha fatto nulla è scegliere l’odio nella sua essenza, un odio puro, non inquinato, velato o offuscato, né eventualmente incrinato o diminuito da rapporti interpersonali.
L’odio in sé ha dunque un suo fascino. Attrae in primo luogo perché è una possibilità (una possibilità da esplorare, quanto meno). In secondo luogo, attrae in quanto è una possibilità immediata e immediatamente efficace, a portata di mano, non qualcosa che deve essere costruito, curato, tentato. Anche l’amore è una possibilità, ma è una possibilità che richiede di entrare nei rapporti interpersonali, che vuole il dialogo, che esige la reciprocità, la conoscenza gli uni degli altri, la reciproca frequentazione, possibilmente la convivenza: una possibilità dunque assai più impegnativa, incerta, complicata, sfumata e, soprattutto, a rischio di fallimento. Al contrario, l’odio non fallisce mai: è sicuro di sé e rassicura chi gli si affida. Sì, certo, l’odio è intrinsecamente distruttivo, ma nell’immediato ha una forza, una potenza e – per così dire – una purezza invidiabili.
Liebe und Hass (in italiano Amore e odio) è un libro scritto nel 1970 dal fondatore dell’etologia umana, Irenäus Eibl-Eibesfeldt. La tesi di fondo è che amore e odio, socievolezza da un lato e aggressività dall’altro, sono due “potenzialità” entrambi presenti negli esseri umani. Sono poi le circostanze culturali, sociali, storiche quelle che spingono l’uomo verso un atteggiamento o verso l’altro. Succede che si viva in condizioni sociali in cui gli ostacoli all’amore sono prevalenti e allora l’odio rischia davvero di avere partita vinta. Citiamo a questo proposito Eibl-Eibesfeldt, là dove pone in evidenza “quella carenza di amore che spessissimo si osserva negli uomini moderni che abitano le metropoli”. Qui vorremmo che il lettore non rimanesse infastidito da questa insistenza sull’amore, come qualcosa di romantico. Amore sintetizza tutti gli atteggiamenti di filìa (in greco, amore, amicizia) che rendono possibile la socialità umana (dall’accudimento dei bambini alle forme di solidarietà più vaste). Amore e odio sono per Eibl-Eibesfeldt “atteggiamenti elementari” della condizione umana. Potremmo aggiungere che sono potenzialità a cui gli esseri umani ricorrono nel costruire sé stessi, nel dare forma e senso alla propria umanità, sia sul piano personale sia su quello collettivo. Questa faccenda si chiama “antropo-poiesi” (costruzione dell’identità umana, ndr) ed è un compito a cui nessuno può sottrarsi.
Per guardare in faccia l’odio forse occorre avere il coraggio di considerarlo come una risorsa antropo-poietica. Gli odiatori avvertono anche loro il bisogno di costruirsi, di foggiare la propria umanità. Il mondo in cui viviamo frappone un’infinità di ostacoli alla filìa, alla convivenza: è molto difficile costruire forme di umanità con i mezzi dell’amore. Lo è sempre stato, ma oggi più che mai, se non altro per le dimensioni globali delle nostre società, per i poteri che sovrastano le esistenze dei singoli e dei gruppi, per l’incertezza di un futuro incontrollabile. La strada della filìa è estremamente incerta e accidentata. L’odio invece offre immediatamente una definizione di sé e degli altri: chi odia trova nell’odio la maniera più netta, rapida e sicura per rispondere al compito antropo-poietico. Soprattutto l’odio immotivato, non quello che nasce da motivi contingenti, ma l’odio in quanto tale consente all’odiatore di convincersi e di affermare senza troppe esitazioni e incertezze: “odio, dunque sono”.
L’odio immotivato – quello che non nasce da incidenti nei rapporti interpersonali – può inoltre dirigersi immediatamente sui bersagli che le società e la loro storia pongono a disposizione. Sono sufficienti pochi brandelli di memoria collettiva perché si riformino i bersagli dell’antisemitismo, così come è sufficiente il mero colore della pelle di una bambina per riattivare uno stereotipo razziale su cui dirigere il proprio odio. In queste operazioni elementari spunta un altro vantaggio, che supplisce alla carenza di amore da cui siamo partiti: il fatto cioè che dirigendo il proprio odio verso gli stereotipi non si è più soli, ma si entra in un “noi”, il “noi dei co-odiatori”, i quali possono anche venire allo scoperto e guadagnare la scena pubblica. In tempi in cui è difficile persino concepire e dire l’amore, il rischio enorme è che l’odio si presenti come la risorsa antropo-poietica più “concreta”.
Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020
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