(Patri­cia Ferreira/Unsplash)
(Patri­cia Ferreira/Unsplash)

Che cos'è la cancel culture? Una pratica tra censura, giustizia e disparità di genere

L'espressione cancel culture, coniata negli Stati Uniti, si riferisce alla pratica di "cancellare" chi si è reso protagonista di comportamenti giudicati sbagliati. Secondo alcuni, è una tutela per le minoranze. Per altri, a causa della cancel culture rischiamo di perdere addirittura la libertà di parola. Ma è davvero così? Che cos'è veramente la cancel culture e come si è diffusa nella società di oggi?

Beatrice Lasala

Beatrice LasalaStudentessa Liceo M. D'Azeglio di Torino

Monica Ianiro

Monica IaniroStoryteller e critica cinematografica

26 luglio 2022

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Secondo il vocabolario Treccani, la cancel culture è un “atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”. Dunque, un principio di causa-effetto ragionevole. Ma se si tratta soltanto di questo, cosa c’è di male? 

Alla domanda fornisce qualche risposta la lettera pubblicata sulla rivista americana Harper’s il 7 luglio 2020 intitolataA letter on justice and open debate, ovvero “Una lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto”. Si tratta di un appello contro la cancel culture firmato da 150 tra scrittori, artisti, giornalisti e intellettuali, schierati a difesa della libertà di parola, a loro dire minacciata da questa pratica della cancellazione.

Nella lettera si legge: “Il libero scambio di informazioni e di idee, linfa vitale di una società liberale sta diventando ogni giorno più limitato (...) la censura si sta diffondendo in modo più ampio nella nostra cultura”. E ancora: “Questa atmosfera soffocante finirà per danneggiare le cause più vitali del nostro tempo (...) la limitazione del dibattito, sia da parte di un governo repressivo che da una società intollerante, danneggia invariabilmente chi non ha potere e rende tutti meno capaci di partecipare alla democrazia. (...) Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio per la sperimentazione, l'assunzione di rischi e persino per gli errori”.

Scrittori, artisti, giornalisti e intellettuali hanno firmato un appello a difesa della libertà di parola, a loro dire minacciata dalla pratica di cancellazione

La lettera ha suscitato critiche e prese di posizione a livello internazionale. I firmatari sono stati accusati di non fornire alcun riferimento a episodi di censura e dati che giustifichino il loro allarme, e di non prendere abbastanza in considerazione le voci realmente marginalizzate dal giornalismo mainstream, che sarebbero invece tutelate dalla reazione sociale della cancel culture. Una critica sostenuta in particolare da socialisti democratici come Alexandria Ocasio-Cortez. L’accusa più grave rivolta agli autori dell’iniziativa è di avere enfatizzato la portata della cancel culture, parlando "umiliazioni pubbliche" e “intolleranza” per sottrarsi, in realtà, a qualsiasi forma di critica.

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La cancel culture non è un’invenzione contemporanea

Anche se oggi il refrain è “non si può più dire e fare nulla”, la pratica ha origini lontane nel tempo. Nell’antica civiltà dei greci l’istituzione giuridica ateniese dell'ostracismo consentiva di condannare all’esilio per dieci anni un cittadino giudicato pericoloso dall’assemblea popolare, chiamata a votare su cocci di terracotta, chiamati appunto òstraka. Anche i romani applicavano la cultura della cancellazione, tramite la damnatio memoriae: una pena molto severa, che consisteva nell’eliminazione di ogni testimonianza dell’esistenza di un individuo o addirittura di un intero popolo. 

Nei secoli questo atteggiamento è stato ripreso più volte fino all'attuale cancel culture, espressione coniata negli Stati Uniti, dove l’atto “to cancel someone” è definito sul Cambridge dictionary come “to completely reject and stop supporting someone, especially because they have said something that offends you”, vale a dire “rifiutare e smettere completamente di supportare qualcuno, soprattutto perché ha detto qualcosa che ti ha offeso”. 

Nell'antica Grecia gli ateniesi esiliavano i cittadini giudicati pericolosi dall’assemblea popolare, mentre i romani con la damnatio memoria eliminavano ogni testimonianza dell’esistenza di un individuo o di un intero popolo.

Il concetto è entrato prepotentemente in scena nel dibattito pubblico e sui social all’alba delle prime accuse di molestie sessuali dirette al famoso e potente produttore cinematografico Harvey Weinstein. Un processo lungo, partito dagli anni Novanta e culminato nel 2017. Con quell’evento è nato il Me Too – un movimento femminista contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne – e tutte le sue varianti. Si è diffusa, inoltre, l’idea di una cultura della cancellazione troppo soffocante, invisa soprattutto ai refrattari e ai paladini degli innocenti fino a prova contraria.

Con la nascita dei social media, la cancel culture è diventata una forma di ostracismo difficile da monitorare: ogni utente ha il potere di cancellare chiunque per i più disparati motivi. Ad esempio, nel 2018 l’attore comico Kevin Hart ha rinunciato a condurre gli Oscar in seguito alle proteste dovute ad alcuni tweet omofobi pubblicati nel 2009; Hart si era scusato più volte, rinnegando quanto scritto in passato. È giusto che alcuni commenti risalenti a quasi un decennio prima finiscano per rovinare un’intera carriera?
In Italia, durante la scorsa edizione del Salone internazionale del libro di Torino, lo scrittore Nicola Lagioia è stato duramente criticato per i violenti insulti sessisti rivolti in passato alla scrittrice Melissa Panarello, nel frattempo divenuta sua amica. Quanto è desiderabile ridurre la personalità di chiunque a un solo deprecabile gesto? E quando è invece iniquo perdonare solo perché la persona in questione gode di uno status sociale "alto", il più delle volte di gran lunga superiore a quello delle vittime? Non è una novità che le conseguenze delle azioni personali possano avere un peso diverso in base al frangente e al soggetto che le compie. La cancel culture difende i più deboli?

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Cancel culture tra statue e TikTok

La cultura della cancellazione ha coinvolto nel tempo anche statue e monumenti che sono stati rimossi, vandalizzati o addirittura distrutti per ristabilire una narrazione dei fatti che si ritiene più rispettosa della verità o delle sensibilità contemporanee. Pensiamo, ad esempio, alle statue di Cristoforo Colombo abbattute a Minneapolis (Minnesota) e a Richmond (Virginia), e imbrattate a Miami Boston. Azioni volte a sottolineare le conseguenze nefaste dell’arrivo dell’esploratore genovese sull’isola di San Salvador, situata nell’arcipelago delle Bahamas. Un atto che, a prescindere dalla volontà di Colombo, diede inizio alla conquista sanguinaria delle Americhe.

Le implicazioni della questione sono molte, ma non tutte toccano la stessa profondità. La pratica della cancel culture si è diffusa a macchia d’olio anche sulla piattaforma di Tiktok (social che permette di realizzare video brevi di qualsiasi tipo, solitamente inserendo canzoni o voci da doppiare), dove è sufficiente pronunciare determinate parole per essere eliminati. Un esempio è la parola “negro”, ribattezzata n-word (letteralmente “parola che comincia con la lettera n”), utilizzata dai colonizzatori bianchi americani per chiamare gli schiavi africani. Il termine ha poi assunto un tono dispregiativo, fino a diventare un vero e proprio insulto razzista.

Su social come Tiktok la parola “negro” può essere utilizzata solo dalla black community. Se la pronunciano i bianchi è considerata un insulto razzista e si rischia l'eliminazione

Di fatto oggi la n-word può essere utilizzata solo dalla black community, che dopo decenni la rivendica come propria, perché derivante da una storia tristemente condivisa. Da tempo su Tiktok questa parola ha aperto diverse questioni: molti utenti bianchi sono stati cancellati, nonostante le innumerevoli scuse, perché cantando hanno pronunciato la n-word. Spesso i video considerati offensivi sono datati, filmati da giovanissimi che non conoscono il significato del termine (talvolta perché è in un’altra lingua). Eppure questo non basta per giustificarli: ormai sono stati cancellati.

Quel bacio di troppo

Anche la produzione Disney è stata oggetto di tentativi di cancellazione: alcuni film hanno ricevuto pesanti critiche e sono stati ritenuti offensivi perché trasmettono stereotipi e messaggi obsoleti e razzisti. Tra le opere in questione anche grandi classici come Le avventure di Peter Pan, Il libro della giungla, Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti, Dumbo e Biancaneve e i sette nani. 

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Il film del 1970 de Gli Aristogatti, ad esempio, è stato segnalato per il personaggio del gatto siamese Shun Gon perché considerato una caricatura razzista delle popolazioni dell'Asia orientale. Il gatto presenta tratti stereotipati abnormi, come gli occhi a mandorla e gli incisivi sporgenti. Inoltre, canta in inglese con un marcato accento pseudo asiatico (tra l’altro doppiato da un attore bianco) e suona il pianoforte con le bacchette.
Lilli e il vagabondo, del 1955, ha ricevuto un'ammonizione simile per i personaggi dei gatti siamesi Si e Am e per i personaggi canini secondari, rappresentati anch'essi con stereotipi etnici. Peter Pan, uscito nel 1953, è stato etichettato per la sua rappresentazione stereotipata dei nativi e per il termine offensivo "pellerossa", pronunciato più volte dal protagonista. Similmente, Il libro della giungla, del 1967, segnalato per il personaggio di King Louie, una scimmia che canta il jazz, da tempo considerata una caricatura offensiva e razzista per gli afroamericani. Dumbo, del 1941, è ritenuto offensivo per i corvi e il numero musicale, omaggio ai minstrel show razzisti, in cui gli artisti bianchi con facce annerite e vestiti a brandelli imitavano e ridicolizzavano gli africani schiavizzati nelle piantagioni del Sud. Infine Biancaneve e i sette nani, al cinema nel 1937, criticato per la scena finale, ritenuta tutt'altro che romantica: il principe dà un bacio a Biancaneve senza il suo consenso, mentre lei sta dormendo. Secondo il quotidiano San Francisco Gate “non può essere vero amore se solo una persona è consapevole di quello che sta accadendo”.

In seguito alle critiche, la Disney ha deciso di non rimuovere i film considerati offensivi ma di inserire comunque delle avvertenze iniziali. Nella spiegazione dei nuovi avvisi, sul sito web Disney, stories matter (ovvero "Disney, le storie contano”) l’azienda scrive: "Questi stereotipi erano sbagliati allora e sono sbagliati oggi. Piuttosto che rimuovere i contenuti, vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da essi e avviare una conversazione per creare insieme un futuro più inclusivo".

Cancel culture e cinema

La cancel culture è diventata tema di dibattiti accesi soprattutto nel mondo del cinema, dove è stata duramente criticata come attacco alla libertà individuale. Richiamata anche per commentare le conseguenze, ritenute ingiuste da una parte, delle accuse rivolte a personaggi di spicco del mondo dello spettacolo. Ne è divenuto un emblema il caso dell’attore Johnny Depp e dell’ex-moglie Amber Heard, tornato alla ribalta nei mesi scorsi con il processo per diffamazione tra i due ex coniugi. Nel 2016, quando sono arrivate le prime accuse contro il pirata più famoso dei Caraibi, i social si sono riempiti di post di fan incredule, convinte che si trattasse di un complotto orchestrato per colpire Depp.

E come spesso succede quando una delle parti è donna, non sono mancati gli insulti a sfondo sessuale, le minacce di stupro e di morte nei confronti di Amber Heard. Solo pochi si sono preoccupati della carriera della donna, anche lei attrice, mentre il nome di Depp è stato prepotentemente associato al tema della cancel culture, tanto che l’attore, considerato una vittima di cancellazione, ne è diventato una sorta di testimonial. A sentire i fan più incalliti, per colpa delle accuse lanciata da Heard, Depp avrebbe perso il suo prestigio a Hollywood. Preoccupazioni che non sembrano provate dai fatti, per quanto addebiti del genere non giovano all’immagine pubblica. Dal 2016, oltre ad Animali Fantastici, Depp è stato protagonista di ben quattordici progetti. È vero che è stato allontanato (non senza compenso) dalla Warner Bros, ma ciò è avvenuto solo a fine 2020, quando la star ha perso la causa intentata contro il quotidiano inglese Sun, che lo aveva definito wife beater ovvero "picchiatore di moglie". 

Anche la cancel culture non giudica tutti allo stesso modo: nella querelle tra Johnny Depp e l'ex moglie Amber Heard, i fan si sono schierati dalla parte dell'attore, mentre la donna è stata insultata e minacciata

Ha quindi senso parlare di cancel culture in questo caso? Chi è che viene realmente cancellato da questa pratica? Prendiamo ad esempio l’attore Kevin Spacey che, pur essendo sotto processo perché accusato di molestie, è stato scelto per il nuovo film di Franco Nero e lo si è visto tranquillamente girare per le strade di Torino, acclamato dai fan. La cancel culture è una pratica che non colpisce chiunque allo stesso modo. C’è chi riesce a proteggersi e continua a conseguire ruoli, fama e successo, quantomeno fino a che non intervengano provvedimenti severi, e c’è invece chi sembra attirare fin da subito insulti e chiusure, perde ruoli anche importanti e, una volta passata la tempesta, deve impiegare anni per ripulire la propria reputazione. 

A inizio articolo si è detto che la cancel culture è una conseguenza, una reazione a determinate azioni o parole da parte di una maggioranza di persone che oggi hanno gli strumenti – social essenzialmente – per colpire direttamente chi si ritiene in errore. Questo è il motivo per cui case di produzione, case editrici e chi ha potere decisionale preferisce allontanare, anche solo temporaneamente, un personaggio che in  un dato momento potrebbe risultare scomodo, o poco redditizio sul piano commerciale. 

Il problema più grande della cancel culture resta però un altro ed è l’impossibilità di redimersi, di commettere errori e imparare da essi per crescere. È richiesta la perfezione e si può solo sperare di non sbagliare.

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