Aggiornato il giorno 19 agosto 2024
Nel dibattito politico e sociale sulla cittadinanza, tradizionalmente polarizzato tra due opposti, ius soli e ius sanguinis, da alcuni anni, si è inserita una "terza via". Riguarda l'introduzione del principio dello ius scholae o dello ius culturae, soluzioni molto simili che tentano di mediare tra chi ritiene che cittadini si diventi per eredità dai propri genitori (ius sanguinis) e chi è convinto, invece, che sia sufficiente essere nati nel territorio di uno Stato (ius soli). Una proposta talmente “intermedia” da trovare, in Italia, padri putativi negli opposti schieramenti politici. Tracce di ius culturae, infatti, erano presenti sia in una proposta di legge firmata da Matteo Orfini (Partito democratico) nel 2015, sia in una del 2018 siglata da Renata Polverini (in quota Forza Italia). In entrambe i testi è evidente l’intento di mettere mano al tema delle seconde generazioni, riconoscendo la cittadinanza a migliaia di ragazze e ragazzi figli di stranieri ma nati e/o cresciuti in Italia. Nell'agosto 2024, la vittoria olimpica della nazionale femminile di pallavolo, con Paola Egonu e Miriam Sylla, ha rilanciato il dibattito indirizzandolo verso lo ius scholae, sostenuto da una parte del centrodestra (in particolare Forza Italia), dai centristi di Azione e Italia Viva e una parte del centrosinistra.
Tra i diretti interessati e in parte della sinistra, però, non mancano le voci critiche rispetto allo ius culturae, considerato una soluzione di ripiego rispetto al vero obiettivo: lo ius soli. La Lega, invece, si mantiene sempre contraria.
Per comprendere appieno l’articolazione delle posizioni politiche, però, è necessario sapere come funziona lo ius culturae, in modo da tracciare anche le differenze con i due “competitor”. Dal punto di vista giuridico, lo ius culturae e lo ius scholae prevedono
l’acquisizione della cittadinanza tramite socializzazione (inteso come lo stare in società, ndr), dopo un ciclo di studi
Il primo elemento caratterizzante è dato dal collegamento tra l’essere cittadini e un agire concreto del diretto interessato. Ha diritto alla cittadinanza non chi “subisce” una condizione esterna che non dipende da lui (il luogo in cui nasce o la nazionalità dei suoi genitori), ma chi è protagonista di un’azione, nello specifico andare a scuola.
Il secondo elemento caratterizzante, invece, è la volontà di instaurare una connessione tra la cittadinanza e il concetto di integrazione. Questa connessione si regge su un triplice assioma: studiare in un paese significa assorbirne la cultura, questo consente di integrarsi e quindi rende “meritevoli” di essere considerati cittadini. Da questa angolatura, la cittadinanza diventa un premio concesso dallo Stato agli stranieri integrati (laddove per integrati si intende formalmente scolarizzati). Per superare la discussa (e discutibile) associazione tra integrazione e scolarizzazione, alcune formulazioni dello ius culturae prevedono di agganciare il riconoscimento della cittadinanza al superamento di un esame. La soluzione, però, più che risolvere la criticità sembra aggravarla.
Se a livello teorico la differenza tra ius culturae, ius soli e ius sanguinis è evidente, nella pratica delle proposte di legge tutto diventa più sfumato. È il caso, ad esempio, della citata proposta di Renata Polverini, che, a guardarla da vicino, sembra più un caso di ius soli temperato piuttosto che di cittadinanza “per cultura”. Le condizioni richieste per diventare cittadini, infatti, sono tre: essere nati in territorio italiano, avervi risieduto ininterrottamente e aver concluso l’istruzione primaria. La base di partenza, quindi, è lo ius soli (nascita in Italia), a cui si applica una doppia limitazione. Se fosse stato completamente assente il riferimento al territorio, invece, si sarebbe potuto parlare di ius culturae. Ma si tratta, appunto, di sfumature.
La proposta di introdurre lo ius scholae per l'ottenimento della cittadinanza non è nuova. Nella scorsa legislatura, la 18a, era stato approvato un testo alla Camera dei deputati che – se fosse stato approvato in via definitiva prima dello scioglimento delle camere – avrebbe permesso ai minori nati in Italia o arrivati qui prima del dodicesimo anno di età e residenti legalmente in Italia, di acquisire la cittadinanza dopo aver frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale, uno o più cicli scolastici. Altre proposte di ius scholae miravano a estendere il periodo formativo a 10 anni o al compimento di tutto il percorso della scuola dell'obbligo.
Spoiler: questo paragrafo è molto breve. Giusto il tempo di dire che, in Europa, lo ius culturae e lo ius scholae non esistono. Nessun paese europeo lo applica. Il vecchio continente è tradizionalmente legato allo ius sanguinis, almeno dalla Rivoluzione francese in poi. Negli ultimi anni, diversi Stati hanno introdotto ipotesi di cittadinanza iure soli, per lo più in forma temperata. Nessuno, però, ha mai espressamente codificato lo ius culturae. Quindi, se la discussione in Italia andasse avanti in questa direzione, potrebbe trattarsi del primo Paese europeo a sceglierlo come regola per riconoscere nuovi cittadini.
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