Resilienza, il nulla al potere

Il linguaggio autentico dovrebbe esprimere l'incanto e lo smarrimento dell'esistere. Siamo invece infestati da opinioni, chiacchiere e presunte competenze

Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli AnibaldiScrittore

10 dicembre 2021

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Quanto più da vicino si osserva una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardoKarl Kraus - scrittore austriaco
Il linguaggio accade. Il linguaggio è un evento del mondo che, volendo dire il mondo, può farlo solo in minima parte perché il suo dire è, come tutti, un evento destinato a passare, sommerso da miriadi di altri eventi. Ma allora da dove viene la peculiarità del linguaggio autentico, della parola che scuote e risveglia? Direi, appunto, dalla coscienza di questo limite. Il grande linguaggio della filosofia, della poesia e della letteratura è tale perché consapevole dell’insufficienza e insieme della necessità del suo dire, essendo l’essere umano, a differenza degli altri esseri, proprio colui che dice. E cosa dice? Sempre la stessa cosa, benché in infiniti modi: la grandezza e il dramma dell’esistere, il miracolo e la tragedia dello stare al mondo.
 
Linguaggio autentico è insomma quello che esprime l’incanto e lo smarrimento, quello che non avendo ancora reciso il cordone ombelicale con la vita non si crede superiore, autosufficiente, assiso su un trono dal quale osservare tutto in modo paternalistico o all’occorrenza severo, dall’alto in basso. 

La lingua del giudizio

Ora, è proprio questo linguaggio tronfio e saccente quello della nostra epoca infestata da opinioni, chiacchiere e cosiddette competenze. Linguaggio che tutto analizza, seleziona e definisce mentre il mondo va alla deriva: orchestrina simile a quella del Titanic che suona lo spartito come se niente fosse mentre la nave affonda. Linguaggio che tutto sa salvo l’essenziale: la sua – e nostra – natura provvisoria, foriera di verità sempre relative, incompiute, in cammino. 
 
Ma se il linguaggio è sempre balbettio dell’Essere come si fa a parlare in modo autentico e originale? In teoria è semplice: basta non reprimere l’emozione del nostro incontro col mondo. Emozione che dovrebbe rinnovarsi perché il mondo sempre si manifesta a noi come eterno inizio. Se non fosse che, passata l’età delle passioni e dei desideri sfrenati, quell’emozione facciamo di tutto per reprimerla o almeno controllarla anche attraverso la lingua del giudizio – "metti giudizio!", esortavano un tempo i nostri genitori –, la lingua dell’analisi e della definizione. È l’enorme problema della tecnica applicata al linguaggio o del linguaggio come protesi tecnica. Micidiale ibrido che ha reciso la parola dalla vita e ha reso l’uomo che la pronuncia un imbonitore indegno d’attenzione.

Alcuni vocaboli generici e ignoranti

La nostra è un’epoca che vive nella superstizione e nel sortilegio delle parole, virus che ha infestato le scienze umane, sociali e anche filosofiche, cioè quelle che più delle altre dovrebbero custodire l’emozione originaria dell’incontro con l’altro in tutte le sue forme e declinazioni. Ne cito solo alcune particolarmente sgradevoli, relative a un campo del mio lavoro: progettualità e criticità, territorio e utente, risorse e sfide, dispositivo e rete, problematiche e, infine, un avverbio pronunciato con sommo sussiego: laicamente. Sono parole generiche e ignoranti (laico non è il non-credente ma l’uomo di fede che non appartiene alla Chiesa come istituzione). Parole abusate per l’aureola che paiono portare in dote: basta pronunciarle ed eccoci magicamente dalla parte giusta, corretta.
 
Eccoci garanti di un sapere che guarda tutto dall’alto, ma benevolmente, assiso per metà sul trono della competenza tecnica e per l’altra su quello della superiorità morale. Ecco, è questa tresca tra tecnica e morale il virus che si sta espandendo di pari passo a quello della parola volgare e demagogica, assetata di potere. Virus di una visione del mondo che, credendosi diversa, è invece funzionale a quella che crede di combattere.

Resilienza: ciò che non dovremmo fare

C’è una parola che pare il distillato di questo coacervo di genericità e moralità, demagogia e potere: resilienza. Se resilienza – termine mutuato dalla scienza e applicato ormai a tutto, dalla psicologia alla sociologia a una politica intenta a enunciare le sue “progettualità” post-pandemiche – significa capacità di assorbire un trauma tornando allo stato pregresso, è proprio quello che la psiche umana non può e non deve fare. 
Dove sta scritto che una ferita sia necessariamente un male e non un varco attraverso
cui fluisce la vita?
La psiche è tale perché si evolve e prende coscienza di sé nell’incontro anche traumatico col mondo. La vita intera, a ben vedere, non è altro che un meraviglioso trauma. Se trauma significa infatti ferita, dove sta scritto che la ferita sia necessariamente un male e non il varco attraverso il quale la vita fluisce rianimando organismi troppo stabili e chiusi in sé stessi, statici come cadaveri? Quel che è certo è che dai traumi non si esce mai né illesi né immutati ed è un bene che sia così, altrimenti vorrebbe dire che si vive non per vivere ma per sopravvivere, senz’arte né parte, senza psiche né anima. E invece eccoci tutti a celebrare la resilienza come suprema virtù, adattamento che scongiura ogni vero cambiamento.
 
Ma infine perché l’uomo contemporaneo ha tanta paura dell’emozione originaria dell’esistere e delle parole che la esprimono? Direi perché quell’emozione lo costringe, ogni volta, a fare i conti con l’insufficienza dei suoi saperi e dei linguaggi che li esprimono, saperi e linguaggi morti proprio perché tesi a nascondere la nostra natura mortale, il dramma e la grandezza del nostro esistere. Viene in mente la spietata lucidità del filosofo Emil Cioran, illuminante indagatore dell’animo umano: "L’uomo sopporta tutto e a tutto si abitua: non è abbastanza nobile per morire di delusione".
 
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