28 ottobre 2021
Il “politicamente corretto” è ortopedia applicata alla mente dunque negazione del pensiero, perché pensare significa riflettere sulle contraddizioni senza pretendere di risolverle. Pensare è scoprire quel molto di vita presente in ogni contraddizione essendo la vita stessa un fenomeno contraddittorio: ora accade qualcosa, ma chissà cosa accadrà fra mezz’ora, fra un secolo, fra un secondo. La vita è improvvisazione e scarto, infinita fuga dai reiterati assalti di “precettori” ansiosi di raddrizzarla, di educarla. Il “politicamente corretto” è il frutto ambiguo di quest’ansia: ambiguo perché mostra un volto tollerante essendo nell’intimo dogmatico, poliziesco. Energumeno dai modi gentili che non ammette altri discorsi dal proprio, convinto com’è di rappresentare la civiltà al massimo grado: dopo di me nulla e, prima, solo reazione e barbarie. Il “politicamente corretto” è la cattiva coscienza dell’Occidente. Non a caso è fiorito a partire dagli anni Novanta, quando la globalizzazione ha cominciato a colonizzare il mondo piegandolo al diktat del liberismo economico. Da allora l’ortopedia della mente ha imposto su ogni ambito il suo petulante catechismo. Che poi l’indottrinamento non abbia inciso affatto sul corso delle cose poco importa: ciò che conta è sentirsi a prescindere dalla parte del “giusto”, militanti di “buone pratiche” rassicuranti quanto inefficaci.
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Una cosa simile è accaduta con la droga. La tossicomania di massa provocò negli anni Ottanta un’ecatombe di giovani vite, ma in quegli stessi anni iniziò a espandersi il “mercato” inteso non solo come sistema economico ma come modello di vita: il consumismo “omologatore” prefigurato un decennio prima da Pier Paolo Pasolini. Oggi si parla tanto di “dipendenze” ma cos’è, in fondo, una dipendenza?
Oggi si parla tanto di “dipendenze” ma cos’è, in fondo, una dipendenza?
Dipendenza è desiderio di cui si diventa schiavi, ma il desiderio è l’architrave del sistema consumistico, il perno di un potere immenso che non agisce per oppressione ma per seduzione, col consenso di vittime ignare di esserlo. Il consumismo accoglie e incorpora, mentre inneggia alla tua libertà. E così produce i suoi “dipendenti”, i suoi impiegati. Consumismo è desiderio continuamente stimolato e mai appagato. È "la vita mancante di vita" che Carlo Michelstaedter raffigurò metaforicamente come un peso agganciato che desidera non più di-pendere: lo sganciamo ed eccolo precipitare, ma per quanto precipiti c’è sempre un grado inferiore a cui la sua vita all’apparenza “libera” e svincolata continuamente aspira: poche volte ho visto raffigurare con altrettanta efficacia la tragica spirale della dipendenza, il suo precipitare al tempo stesso entusiasmante e angosciante.
Ma cos’è accaduto, allora, perché le tragiche e spesso letali dipendenze del tossicomane diventassero compatibili con quelle gaie e inavvertite del consumismo? Presto detto: è bastato normalizzarle ossia addomesticarle, privarle di quel pathos che in un attimo poteva trasformarsi in raptus... È bastato trasformare i Wild boys degli anni Ottanta (quelli di William Burroughs, beninteso, non dei Duran Duran…) in puntuali impiegati dell’eroina, non più legati alla catena di montaggio di quello che noi tossici d’antan chiamavamo “sbattimento”: rubare e scippare, rapinare e prostituirsi. Farne dei dottor Jekyll alterati quanto basta, ma mai più dei mister Hyde. In grado persino di lavorare, timbrare il cartellino, con la dose di metadone – efficace antidoto alla “scimmia” – somministrata per mesi, anni, decenni: la pensione del fu tossicomane ritirato a più miti consigli nella sua triste cuccia “di proprietà”.
Scelta basata su precisi calcoli di convenienza: il minor costo della singola dose sarebbe stato compensato dalla crescita esponenziale degli acquirenti
L’integrazione della tossicomania, la sua normalizzazione in dipendenza si sono così imposte a passo di marcia, trainate da due potenti vettori in sintonia per metodi e sete di potere: il sistema economico da un lato e il sistema criminale dall’altro. Sì, le mafie ci hanno fornito ancora una volta una lezione di lungimirante adattabilità allo spirito del tempo: droghe a prezzi popolari, per tutte le tasche, l’eroina addirittura a cinque euro a dose (nel 1981 veniva venduta in bustine preconfezionate da mezzo grammo a 50mila lire ossia 120 euro attuali, per dare l’idea). Scelta basata, beninteso, su precisi calcoli di convenienza: il minor costo della singola dose sarebbe stato compensato dalla crescita esponenziale degli acquirenti. Un po’ come quando i boss di Cosa Nostra imposero ai loro esattori del “pizzo” un diktat a suo modo rivoluzionario: far pagare di meno, ma far pagare tutti. La “giustizia sociale” della mafia… Che applicata al narcotraffico ha prodotto i seguenti risultati: ora i tossicodipendenti sono molti di più di quelli degli anni Ottanta, non sono più quasi esclusivamente giovani ma anche adulti o giovanissimi, soprattutto sono un esercito d’invisibili, una legione non di diavoli ma di fantasmi. Difficile riconoscerli senza un occhio clinico: non rubano, non scippano, molti lavorano, si vestono normalmente, fanno la vita degli altri, indistinguibili dagli altri. Non più d’integrazione si dovrebbe dunque parlare ma di assimilazione.
È stata insomma l’“onorata società” mafiosa a realizzare la vera “riduzione del danno”, metodologia che a partire dagli anni Novanta si è accostata alla questione droga cercando di combinare realismo, compassione e pragmatismo nel segno della tanto sbandierata “laicità”, prerogativa di menti che s’autoproclamano superiori. Approccio che se aveva un senso trent’anni fa – quando la droga era guerra di trincea tra il fuoco incrociato di eroina e Aids – oggi è a conti fatti un vettore della normalizzazione e assimilazione del tossico.
Mi chiedo allora se sia per ignoranza, cecità ideologica o malafede che si continui a parlare di “riduzione del danno”, di “uso compatibile”, di “stigmatizzazione” del tossico anzi del “consumatore”, come oggi viene definito con orrendo ma rivelatore neologismo (stiamo parlando pur sempre di un “agente” del mercato). Domanda in fondo retorica essendo questo il catalogo del “politicamente corretto” in fatto di droga, ortopedia mentale che finisce per ritorcersi sulla mente stessa, rendendola incapace di accettare, forse ancor prima di riconoscere, la complessità della vita e dell’essere umano.
Conclusione: se avrò ancora occasione – come spero – di parlare con giovani e adolescenti, continuerò a dir loro tre cose apprese dall’esperienza e incise nell’anima. Primo: la droga è diventata un’esperienza banale come il tatuarsi, diversità ormai omologata.
La droga è diventata un’esperienza banale come il tatuarsi, diversità ormai omologata
Secondo: la diversità vera coincide con la tua ragion d’essere, la cosa facendo la quale ti senti vivo. A quel punto potrai anche imbatterti nelle droghe senza gravi conseguenze, perché non esiste droga in grado di rapirti quando hai trovato la tua passione di vita, ciò che ti fa davvero sentire vivo e, sostanzialmente, libero. La passione di vita non si limita insomma a “ridurre il danno” ma lo previene. Terza cosa, la più importante: quali che siano le condizioni in cui si svolge, il grado d’integrazione, la gestibilità o meno della dipendenza – l’attico o la periferia, l’ufficio o il carcere, la compulsione o il cosiddetto “uso compatibile” – la vita del tossico non è vita ma sopravvivenza. La droga restringe e soffoca il nostro mondo interiore, e le emozioni sono il canale attraverso il quale ci arriva la vita.
Accanto all’ospedale dove da vent’anni vado a ritirare le mie medicine, c’è un punto di distribuzione del metadone. Mi capita spesso di vederli, i sopravvissuti dalla droga non ancora facilitata e mercificata: miei coetanei, anno più, anno meno. E vedo anime svuotate e sguardi spenti, vedo volti dai lineamenti contratti e quasi rabbiosi. Volti che esprimono non tristezza ma un sordo risentimento verso tutto e tutti nel disperato tentativo di dirottare quello verso sé stessi. Sentono, quelle anime perse, di aver buttato via la vita, di averla amputata di qualcosa d’essenziale che però nemmeno sanno più cosa sia se non in quella forma sorda e risentita: le emozioni. Una vita che non si emoziona è una parvenza di vita che neanche merita il suicidio, come cantava Franco Battiato. Una volta di più mi rendo conto della fortuna che ho avuto nell’incontrare non il metadone e la “riduzione del danno”, ma qualcuno che mi ha spronato a tornare in vita per vivere davvero.
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