Baby gang
Baby gang

Si fa presto a dire baby gang

Non tutti i gruppi di strada formati da adolescenti sono gang o rappresentano un problema sociale. Usare un'etichetta uguale per tutti produce confusione, criminalizzazione, stereotipi e titoloni fuorvianti

Franco Prina

Franco Prinaprofessore di Sociologia giuridica e della devianza dell’Università di Torino

19 luglio 2021

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Quando si parla di bande o gang giovanili si fa spesso una grande confusione, con il risultato di attribuire la stessa etichetta a realtà anche molto diverse tra loro, che non sempre rappresentano un problema sociale. L’uso ricorrente nei media dell’espressione baby gang ogni volta che giovani e giovanissimi sono protagonisti di comportamenti problematici non fa altro che aggiungere una connotazione emotivamente forte a titoli e descrizioni, evocando l’età di chi può essere considerato “baby” anche se non lo è. Proviamo a fare ordine.

"I giovani cambiano. Cambiano i delitti e i comportamenti di quelle che oggi chiamiamo baby gang. Ecco perché i discorsi già fatti e le etichette servono a poco". Leggi la rubrica di Carlo Lucarelli

"Baby gang", cosa intendiamo con "bande giovanili"

Le bande vanno distinte dalle occasionali aggregazioni di gruppi che compiono reati insieme. La realtà del cosiddetto co-offending, ossia la commissione di reati insieme ad altri, è diffusissima se si guarda alle denunce penali di minorenni o giovani adulti. A volte questi gruppi di ragazzi possono agire in modalità di banda, senza esserlo, quando si uniscono occasionalmente per aggredire altri o quando, nel compiere reati come furti e rapine, vi associano atti violenti o distruttivi.

Per parlare di una banda o gang occorre che vi sia una certa continuità nel tempo della frequentazione, la condivisione di orientamenti e di codici di comunicazione, un minimo di struttura di ruoli (uno o più leader e alcuni gregari) e, spesso, di comportamenti devianti (ancorché di tipo diverso) in qualche modo programmati e reiterati. Le caratteristiche dei diversi gruppi riscontrabili nel mondo possono essere collocate lungo un continuum che parte dalla piccola banda di quartiere e arriva – ma in Italia è successo molto raramente – alle gang che la letteratura e le cronache rappresentano, e non da oggi, come organizzazioni criminali.

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I gruppi di strada

La soluzione non può essere sempre e solo schedare e reprimere. Bisognerebbe prendere sul serio i bisogni di tutti gli adolescenti

L’attenzione deve essere massima quando sono definite e trattate come gang aggregazioni di ragazzi e giovani, che possiamo correttamente definire “gruppi di strada”. Ne troviamo in tutte le città, nei giardini, nelle piazze o nei centri commerciali, luoghi in cui si incontrano e passano del tempo (spesso vuoto). Ragazzi della stessa origine o di origini nazionali diverse, accomunati da analoga condizione socio-economica, che coltivano legami reciproci basati su amicizia, solidarietà e lealtà. Spesso condividono anche aspetti esteriori, un certo abbigliamento o alcuni simboli che possono richiamare quelli in uso presso gang note a livello internazionale (è il caso dei latinos).

A volte possono condividere l’uso di droghe e di alcol, in certi casi possono aggredire chi invade il loro spazio o ne offende i componenti. Possono cioè rendersi talvolta protagonisti di comportamenti devianti. Ma sarebbe un errore grossolano scambiare questi gruppi per gang soprattutto quando questo implica etichettarli e controllarli in modo ossessivo sulla base di pregiudizi, offesa all’onore e discriminazione etnica da parte delle istituzioni. Così facendo se ne acuisce la rabbia e l’opposizione al sistema sociale, a volte di rafforzarne la possibilità di comportamenti violenti o criminali.

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Le differenze italiane

Gruppi così connotati, nella loro articolazione, si trovano ovunque in Italia, nelle periferie delle aree metropolitane, come in città o paesi di provincia. Vi sono ovviamente delle differenze. In alcune aree urbane e del Meridione, ad esempio a Napoli, alla marginalità e alla povertà si accompagna più spesso l’incapacità di difendersi sia dai modelli di vita proposti dai gruppi di criminalità organizzata, sia dai modelli dominanti di consumo.

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A Torino, Milano e altre grandi città come Genova o Roma, la povertà economica e culturale e la marginalità sociale dei quartieri più periferici accomuna ragazzi italiani e stranieri. Tra questi, giovani delle seconde generazioni (nati in Italia da genitori migranti), ricongiunti o minori stranieri non accompagnati (latinos, maghrebini e africani). Per tutti si pone drammaticamente la questione dell’acquisizione di un’identità in cui riconoscersi, ma ancor più del futuro e della realizzazione personale, dell’integrazione sociale, del raggiungimento di almeno alcuni degli obiettivi che tutta la società indica come meritevoli di essere raggiunti.

Ancora diversa la realtà dei giovani (in genere italianissimi) che nelle medie o piccole città della grande provincia italiana non trovano altro da fare che sfogare la frustrazione per il vuoto di senso che li circonda con violenze di gruppo – il più spesso verso le donne – verso le componenti più deboli delle società o i “diversi” per nascita, colore, scelte, condizione.

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Perché si formano le bande?

Per riflettere sulle risposte, si deve lasciare l’idea che l’unica soluzione sia schedare, controllare, reprimere, punire. O dare la colpa a social network, videogiochi o al fascino dei leader criminali

Guardare a tutte queste realtà, nella loro differenziazione, con uno sguardo “comprendente” rivela che l’aggregarsi in banda risponde a molteplici bisogni che appartengono a tutti gli adolescenti e i giovani adulti, e non solo ai ragazzi che possiamo considerare devianti. Bisogno di identità sociale e culturale, di non sentirsi soli, di sentirsi riconosciuti e valorizzati, di provare sentimenti di appartenenza, di sperimentare rapporti basati sulla solidarietà e la fiducia, ma anche di vivere esperienze forti, in cui sia presente anche una componente di rischio e di opposizione al sistema degli adulti e delle istituzioni.

Comprendere questo consente di aprire strade di dialogo, evitando i rischi di derive devianti o criminali. Per riflettere adeguatamente sulle risposte, occorre abbandonare l’idea che l’unica soluzione sia schedare, controllare, reprimere, punire. O ritenere che la questione sia dovuta all’influenza dei social network o all’esposizione alla violenza nei videogiochi, o ancora al fascino che alcune figure di leader di bande criminali possono suscitare inducendo imitazione.

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Un vuoto in cerca di senso

Ben più complessi sono i fattori in gioco e ben più impegnativa è la sfida per la società e gli adulti. Leggere con attenzione gli atti vandalici come quelli contro i negozi del centro di Torino appena finito il lockdown, o gli scontri fisici tra gruppi di ragazzi di quartieri o paesi vicini, serve a immaginare un futuro in cui la rabbia e la sofferenza di cui sono espressione non siano legittimate dall’indifferenza degli adulti e delle istituzioni. E impegna a evitare errori compiuti in altri Paesi, dove la gestione delle popolazioni immigrate ha portato alla creazione di ghetti in cui adolescenti delle seconde e terze generazioni sperimentano quotidianamente l’esclusione sociale, sono affidati al solo controllo della polizia e presto o tardi si ribellano.

La periferia a due passi dal centro di Torino

La sfida investe il modello di città e di convivenza che si vuole costruire e le prospettive con cui si intendono affrontare i problemi di integrazione sia dei ragazzi italiani sia dei nuovi cittadini che sono oggi parte ineludibile delle nostre realtà. Questa prospettiva ampia va accompagnata, sul piano relazionale, dall’investimento in servizi e in risorse professionali (penso agli educatori di strada) che provino a prendere seriamente in considerazione quei bisogni degli adolescenti e dei giovani adulti che trovano risposte nelle bande.

Significa creare opportunità di incontro in contesti naturali, proporre occasioni di dialogo e alternative all’assenza di opportunità o al vuoto di senso riempito solo da consumi o da parole d’ordine contro “nemici” con cui prendersela. Significa inventare in maniera partecipata progetti e sfide interessanti per cui valga la pena impegnarsi, per rendere protagonista, valorizzandone le competenze, chi sempre si sente escluso o espropriato della propria identità, considerando l’incontro tra diversi una ricchezza per chiunque.

Dal lavialibera n°9 2021

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