21 luglio 2021
Napoli è un trattato di sociologia e criminologia. Qui la vicinanza tra disagio e devianza è impressionante e dovrebbe far riflettere tutti, soprattutto a Roma, sulle conseguenze immediate che si producono quando non si riesce a far fronte ai problemi sociali. Certo, il peso della criminalità minorile napoletana non è un problema dell’oggi, o degli ultimi decenni. Già a fine Ottocento le statistiche segnalavano un primato della città partenopea per minori sottoposti a denunce, condanne e ricoveri in istituti preposti. Ed è altrettanto vero che anche in altre parti d'Italia (e non solo) la delinquenza dei minori si presenta innanzitutto come problema delle grandi città, delle loro periferie e degli hinterland metropolitani. Napoli non sfugge a tale copione, ma purtroppo va ben oltre.
A Napoli, con la pandemia, c’è stata la più lunga interruzione delle attività scolastiche dalla seconda guerra mondiale ad oggi
La questione minorile napoletana è assai più densa, difficile e drammatica. Sei differenze fanno di questa città e del suo hinterland la tragica capitale della questione minorile in Italia. A maggior ragione dopo la pandemia: non possiamo ancora prevederne le conseguenze, ma sappiamo che nella città partenopea, così come nel resto della Campania, c’è stata la più lunga interruzione delle attività scolastiche dalla seconda guerra mondiale in poi, con il primato assoluto (rispetto a tutte le altre grandi città e regioni italiane) di giornate perse o di attività didattica a distanza. Il solco sociale che divide l’infanzia e la minore età dei quartieri popolari rispetto agli altri si è ulteriormente allargato. È molto probabile che tutto ciò influenzerà nei prossimi anni i comportamenti dei minori e causerà ulteriori abbandoni scolastici, che sono la premessa per l’avvicinamento alle attività illegali di strada e l’avvio alla carriera delinquenziale.
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Il concetto di periferia a Napoli non è un concetto geografico ma sociale. Parliamo dell’ultima grande città italiana ed europea a mantenere una estesissima periferia al centro del suo stesso sistema urbano, una periferia nel cuore del centro storico. In Europa forse il paragone può essere fatto solo con Marsiglia. A Napoli si presentano tre grandi enclave caratterizzate da profondi disagi sociali e da emergenze criminali: nel centro storico, nelle periferie orientali e occidentali (Scampia, Secondigliano, San Giovanni a Teduccio, Ponticelli, Rione Traiano) e nel disastro urbano e civile che è l’hinterland metropolitano. Tre gironi concentrici di problemi sociali. In tutte e tre le aree, il disagio infantile, minorile e adolescenziale si somiglia ed è sempre esposto all’influenza criminale.
A Napoli è tremendamente difficile separare la questione minorile dalla più ampia questione criminale che ha il volto delle tantissime bande di camorra che da più parti stringono in una morsa la città. Questione urbana, questione minorile e questione criminale si presentano in un intreccio inestricabile, come una spia violenta e tragica di una gigantesca e irrisolta questione sociale. In altre città, i minori sono esposti alla deprivazione culturale e sociale, alla vita illegale, ma non immediatamente a quella criminale. La criminalità vive a ridosso, spalla a spalla con il disagio minorile. Qui il percorso tra violenza minorile e grande criminalità è più breve: i minori sono l’esercito di riserva permanente a cui la criminalità maggiore presto attingerà.
Se in altre grandi città italiane ed europee la questione minorile è anche espressione di una difficile integrazione di varie ondate migratorie, a Napoli è una questione indigena, interna, locale. I figli degli immigrati non c’entrano niente. Anzi, mentre i bimbi delle famiglie di immigrati regolari vanno a scuola e non evadono l’obbligo scolastico, quelli delle famiglie napoletane dei quartieri più degradati non sentono la scuola come un luogo di promozione sociale di una qualche utilità. Non si riscontrano a Napoli e nella sua area metropolitana significative presenze di gang minorili o giovanili formate da immigrati come avviene in altre grandi città come Milano, Torino, Genova o Roma.
Nelle altre città le forme violente si esercitano anche da parte di ragazzi provenienti da famiglie borghesi. Non sembrano, quelli minorili, reati interclassisti. A Napoli, invece, i luoghi dove si verificano sono quasi esclusivamente alcuni quartieri di una specifica condizione sociale.
Se in altre parti d’Italia i reati dei minori hanno a che fare con il consumo e lo smercio della droga, a Napoli la maggior parte riguarda anche rapine, scippi, estorsioni, uso di armi, omicidi e tentati omicidi. Non reati di evasione e di disagio esistenziale, ma reati predatori e violenti in dimestichezza con la criminalità camorristica.
Se altrove l’impatto con la giustizia penale minorile non si tramuta necessariamente in continuità delinquenziale al raggiungimento della maggiore età, a Napoli e provincia una gran parte dei ragazzi che ha commesso reati passa nelle carceri per adulti, con alti tassi di recidiva. Così com’è considerevole il numero di minori in istituti di pena che non hanno completato la scuola elementare, che provengono da famiglie numerose (dai quattro figli in su), che hanno un genitore, un fratello, un nonno o uno zio in carcere. I minorenni delinquenti sono in linea di massima figli, fratelli o nipoti di pregiudicati. Hanno cominciato prestissimo l’acculturazione illegale, per strada e in famiglia. In molti casi, l’analfabetismo di ritorno è elevatissimo.
Se la scuola esclude, le mafie avanzano
A Napoli i minori violenti non avvertono un bisogno di integrazione, perché la comunità sociale in cui vivono e operano è abbastanza larga per dare a chi ne fa parte quella legittimazione e quel riconoscimento di cui ha bisogno. La loro è violenza di separazione, di distanza dallo Stato e dal resto della società. L’ambiente delinquenziale di riferimento sembra essere già una società autosufficiente, fuori dalla quale questi ragazzi non hanno interesse a inoltrarsi. Pur non essendo “integrati” (anzi, rifiutandosi di farlo), pensano di contare, decidere e arricchirsi, senza nessun problema. Arricchirsi senza integrarsi è il loro modo di pensare, vivere e operare. La loro reputazione e le loro relazioni non varcano i confini del mondo illegale da cui provengono e a cui appartengono. Non gliene frega niente di essere accettati dal resto della società.
Mentre le seconde generazioni vanno a scuola, i ragazzi napoletani dei quartieri più degradati non lo fanno
I giovanissimi sottoproletari reclamano la loro parte di ricchezza e notorietà al più presto possibile, spostando verso l’illegalità l’intraprendenza e il gusto del rischio con cui in altri contesti si aggredisce la frontiera che porta al successo e alla fortuna. Sembra quasi che in alcuni quartieri gli emarginati siano i ragazzi che hanno studiato e hanno un lavoro onesto, anche se precario. In definitiva, a Napoli città sembra chiusa definitivamente la fase storica in cui si affrontava il tema del sottoproletariato con le armi dell’integrazione (attraverso la scuola, il lavoro artigiano o industriale) o del contenimento. Se si esclude il lavoro dei preti, dei maestri di strada, di alcune scuole e di alcune associazioni di volontariato, chi nelle istituzioni si pone più l’obiettivo dell’integrazione? E se alcuni se lo pongono, quali strumenti e risorse hanno? È questa la principale questione sociale che la città non può affrontare da sola.
Da lavialibera n°9 2021 - Picchio, dunque sono
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