Da questo assunto fondamentale, derivano una serie di principi cardine che caratterizzano tutto il sistema giudiziario minorile, sia in termini di organi specializzati, sia di regolamenti e procedure ad hoc. Per prima cosa, la generale finalità riabilitativa del sistema penale, prevista dalla nostra Costituzione, assume un ruolo ancora più importante quando si parla di minori, nei confronti dei quali il traguardo di riferimento è sempre quello del reinserimento sociale, ottenuto mediante supporto educativo, psicologico e sociale. Per questa ragione, si preferisce ricorrere a pene diverse dalla detenzione (cosiddette misure alternative, in particolare la cosiddetta messa alla prova). Inoltre, è previsto il coinvolgimento delle famiglie di appartenenza (quando è possibile) e sempre dei servizi sociali. Infine, particolare attenzione viene data alla tutela e al rispetto dei diritti dei minori durante tutto il processo, con una specifica garanzia di diritto alla privacy e a essere ascoltati.
A livello internazionale, il documento più importante in materia di giustizia minorile è la Convenzione per i diritti del fanciullo che, oltre a parlare espressamente di rieducazione e reinserimento sociale e delle misure alternative al carcere, impone agli Stati firmatari di fissare un’età minima sotto la quale nessuno è imputabile, e quindi condannabile, e di ricorrere il meno possibile alla detenzione. In Italia, la soglia di non imputabilità è fissata a 14 anni, ma già da alcuni anni, la Lega si è fatta promotrice di una proposta per abbassarla a 12 anni.
Il tentativo leghista appare in linea con lo spirito del Decreto Caivano, fortemente voluto dal Governo Meloni come norma feticcio per il contrasto alla criminalità minorile. Il provvedimento, infatti, mostra una tendenza all’inasprimento degli strumenti e dei procedimenti propri della giustizia minorile, in contrasto con i principi appena enunciati. E’ chiara la volontà di mostrare il cosiddetto pugno di ferro, che si esprime, ad esempio, con l’ampliamento delle possibilità di ricorso alla custodia cautelare (anche sotto forma di carcerazione preventiva) e all’arresto in flagranza di reato. Inoltre, viene esclusa la possibilità di messa alla prova per alcuni reati gravi e sono innalzate le pene per condotte illecite connesse alla normativa sugli stupefacenti. Altre importanti (e pesanti) novità sono anche l’estensione del daspo urbano (introdotto dal Decreto Minniti) ai minorenni over 14, l’allungamento di un anno della durata del foglio di via, la possibilità di ammonimento del questore già da 12 anni, i sequestri di telefoni e tablet. Insomma, una stretta notevole, giustificata dalla necessità di reagire ad una presunta emergenza, un boom di criminali in erba. nei numeri, però, questa esplosione non esiste, visto che i reati che coinvolgono minorenni sono pressoché stabili sotto la soglia dei 30 mila l’anno (un numero peraltro contenuto) dal 2019, come sottolinea anche da Andrea Oleandri, Responsabile comunicazione dell’Associazione Antigone. Per ora, l’unico risultato concreto del Decreto Caivano è stato un sensibile aumento dei minori che si trovano in carcere.
L’attuale impianto normativo della giustizia minorile italiana, soprattutto per quanto riguarda il processo minorile, è figlio della legge 448/1988. Di recente, però, in materia è intervenuta la riforma della giustizia firmata da Marta Cartabia, ministra della Giustizia nel governo Draghi, destinata a entrare compiutamente in vigore nell’ottobre 2024.
Al netto delle ultime modifiche, che non ne hanno modificato l’impostazione complessiva, l’amministrazione della giustizia minorile in Italia è affidata a organismi distinti rispetto a quelli degli adulti, sia in fase di giudizio, sia di esecuzione della pena. In particolare, vengono in rilievo:
il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità;
il Tribunale per i minori
l’Ufficio per il servizio sociale per i minorenni;
gli istituti penali per i minorenni,
i centri di prima accoglienza.
le comunità educative.
Il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità (Dgmc) è un organo del ministero della Giustizia che gestisce e coordina le politiche e le attività legate alla giustizia minorile e alle misure alternative alla detenzione. Il dipartimento è responsabile di servizi come gli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm), gli istituti penali per i minorenni, i centri di prima accoglienza e le comunità per minorenni. Compito principale della struttura è la cura del minore, autore o vittima di reato. Inoltre, si occupa di prevenzione e contrasto alla devianza minorile e ai reati che colpiscono i minorenni, con particolare riferimento alla tratta, alla sottrazione internazionale, alla pedofilia e alla pedopornografia.
I tribunali per i minorenni sono l’organo giudiziario specializzato che si occupa di questioni giudiziarie che coinvolgono i minori, sia come autori di reato, sia come vittime. Il tribunale, in sede giudicante, è composto da due giudici togati (cioè magistrati di professione), e due giudici onorari, esperti in scienze umane e sociali (psicologi, assistenti sociali, educatori, eccetera). Le sue competenze riguardano sia l’ambito amministrativo, sia quello civile e penale. Nel campo amministrativo, può disporre provvedimenti di protezione a favore di minori vittime di reati sessuali. Nel campo civile, invece, si occupa di questioni relative alla tutela dei minori, come l'affidamento familiare e le adozioni. Infine, nel campo penale si occupa dei reati commessi da minorenni. Al fine di favorire misure alternative ed evitare il carcere, il Tribunale per i minori può disporre misure cautelari specifiche, come il collocamento in comunità o la messa alla prova, un meccanismo con cui il processo a carico del minore si interrompe e questo viene affidato ai servizi sociali per un periodo variabile da 1 a 3 anni, durante il quale verrà inserito in attività sociali che consentiranno ai giudici di valutarne la maturazione. Se la “prova” è superata, il processo termina con il proscioglimento.
L’attuale assetto del Tribunale per i minori è destinato a cambiare dall’ottobre 2024, quando entrerà in vigore la riforma Cartabia che, tra le altre cose, ha abolito e unificato i tribunali per minori nel nuovo tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie. Molti processi che riguardano reati compiuti da minori verranno affidati a un giudice monocratico invece che a un collegio. Una modifica che ha suscitato diverse critiche, come quella dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, che ha denunciato la perdita dell’apporto dei saperi specialistici, come psicologi e assistenti sociali, oggi presenti come giudici onorari. Appunti a cui i fautori della riforma hanno risposto sostenendo che tali saperi specialistici vengono comunque recuperati nel ruolo di consulenti del giudice monocratico (che però non incidono direttamente sulla decisione finale ma forniscono solo pareri e perizie).
Gli Uffici di servizio sociale per i minorenni assistono i minori autori di reato lungo tutte le fasi del procedimento penale a loro carico, con il compito specifico di raccogliere elementi utili a individuare fragilità personali e familiari del minore. Inoltre, svolgono attività di sostegno e controllo nelle fasi di attuazione delle misure cautelari, alternative e sostitutive e predispongono e gestiscono le misure di messa alla prova.
Gli istituti penali per i minorenni (di solito chiamati carceri minorili) accolgono tutti giovani tra i 14 e i 21 anni, condannati per reati commessi quando non avevano ancora compiuto la maggiore età (dopo i 21 anni, se la pena non è stata ancora scontata completamente, si viene trasferiti nei carceri per adulti). Ad oggi, come rilevato dal rapporto annuale dell’Associazione Antigone, i minorenni sottoposti a pena detentiva sono più di 500 (la cifra più alta mai raggiunta negli ultimi 15 anni), cioè il 3,8% di tutti quelli in carico al sistema di giustizia minorile (oltre 15000). Seppur ancora molto basso, questo numero è in crescita. I minori detenuti, infatti, erano 496 a fine 2023, 381 a fine 2022, 321 a fine 2021. Parte di questo boom è anche conseguenza, come anticipato, del Decreto Caivano. Un giro di vite repressivo che rischia di fare esplodere le carceri per minori, già sovraffollate, proprio come quelle per adulti.
Una situazione che ne mette anche a rischio l'efficacia: per via della forte finalità rieducativa della giustizia minorile, infatti, gli istituti penitenziari dedicati devono avere caratteristiche diverse dalle carceri per adulti. Ad esempio, è previsto un sistematico lavoro del personale specializzato (educatori, psicologi, assistenti sociali e insegnanti) che, in collaborazione con i servizi sociali, garantisce l’esecuzione di specifici programmi educativi e riabilitativi.
In totale, le carceri minorili in Italia sono 17. Il più affollato è il “Beccaria” di Milano, seguito da quello di Roma, “Casal del Marmo”. I meno popolati, invece, sono quelli di Quartucciu, in Sardegna, e quello esclusivamente femminile di Pontremoli, in Toscana, entrambe con soli 8 ospiti a testa. Luoghi spesso sconosciuti all’opinione pubblica, che poco sa dei meccanismi che li regolano e della vita che vi scorre dentro. Un’impenetrabilità in cui ha provato ad aprire una breccia “Mare Fuori”, fortunata serie televisiva firmata Rai e ambientata proprio nel penitenziario minorile di Nisida, a Napoli. Il tentativo, però, non è riuscito e ha incontrato le critiche di chi quella realtà la vive davvero e non si ritrova nella versione romanzata ed edulcorata offerta dalla fiction.
I centri di prima accoglienza per minori sono strutture che accolgono temporaneamente (per un massimo di 96 ore) i minori che sono stati arrestati o fermati per la presunta commissione di un reato. Rappresentano quindi il primo passo nel percorso giudiziario minorile e sono anche il luogo dove si tenta una prima valutazione del minore e del contesto familiare e sociale in cui è inserito, nell’ottica di una sua riabilitazione. In questa fase, ad esempio, si indaga la sussistenza di eventuali dipendenze o di problemi psichici; si acquisiscono informazioni sulla famiglia di provenienza e sulla disponibilità o meno di un’abitazione di residenza. Soprattutto, si cerca di verificare se esiste un familiare che possa fare da supervisore del percorso di rieducazione e reinserimento a cui il minore va incontro.
Le Comunità educative sono strutture residenziali destinate ad accogliere minori in condizioni di vulnerabilità, di età compresa tra i 3 e i 18 anni. Inoltre sono luoghi centrali per la messa alla prova, perché il Tribunale per i minori, in sede di ricorso a questa misura alternativa alla detenzione, può stabilire che il giovane vada a vivere proprio in una comunità educativa. Molte delle possibilità di recupero del minore coinvolto in un procedimento penale, quindi, dipendono dal lavoro di progettazione e di accompagnamento che queste comunità sono in grado di mettere in campo. Nel tempo, si sono moltiplicate e radicate in Italia esperienze estremamente solide. Ne è un esempio il progetto Amunì, dell’Associazione Libera, nato in Sicilia nel 2009 e oggi declinato in diverse regioni, da nord a sud. Un progetto che si rivolge ai giovani tra i 16 e i 22 anni affidati ai servizi sociali per la messa alla prova, a cui propone percorsi di recupero che mettono insieme incontri con i familiari delle vittime, momenti culturali, conoscenza dei beni confiscati, tornei sportivi. Altra esperienza significativa è quella di Don Burgio, parroco del carcere minorile Beccaria di Milano, e della sua associazione Kayros. Anche in questo caso, l’accompagnamento dei minori verso l’autonomia e verso una nuova vita avviene sfruttando diversi strumenti, dalla musica al cinema, dalla cucina ai circoli di riflessione e condivisione.
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