Alcuni dei protagonisti di "Mare fuori" (Foto Sabrina Cirillo/Ufficio stampa Rai)
Alcuni dei protagonisti di "Mare fuori" (Foto Sabrina Cirillo/Ufficio stampa Rai)

Per i minori il carcere non è "Mare fuori"

La detenzione degli adolescenti dovrebbe essere l'extrema ratio, non una sfida di sopravvivenza. La serie tv della Rai "Mare fuori" ha acceso i riflettori sugli istituti penali minorili, ma ne ha fornito anche un'immagine deformata

Ennio Tomaselli

Ennio TomaselliScrittore, ex magistrato

Aggiornato il giorno 12 maggio 2023

Il grande successo di Mare fuori, serie tv della Rai ambientata in un carcere minorile di Napoli, apre gli occhi su una realtà sconosciuta ai più. Si tratta di un buon prodotto, anche se dovrebbe maneggiare con maggiore attenzione certe materie per evitare rappresentazioni semplificate, se non proprio alterate, di situazioni complesse. Da ex magistrato minorile, ritengo che ci sia ancora margine per alcune considerazioni critiche: nessuna stroncatura, semmai una chiave di lettura più approfondita in vista della prossima stagione, la quarta, prevista nel febbraio 2024.

Nei dodici episodi della terza serie ragazzi e ragazze di Napoli o altrove, finiscono nel carcere minorile per il coinvolgimento, di solito, in fatti di sangue e storie per lo più all’insegna del degrado e della violenza. Appartenenza a famiglie camorristiche rivali, vendette, amori impossibili ma anche storie di amicizie e riscatto, si intrecciano in un mix che coinvolge anche le figure istituzionali della struttura: la direttrice (interpretata da Carolina Crescentini) , il comandante della polizia penitenziaria (Carmine Recano), un educatore che si scopre padre di una detenuta (Vincenzo Ferrera), una agente che nasconde in casa un ragazzo (Anna Ammirati).

L’immagine deformata del carcere minorile

Il rischio è che il carcere appaia come una palestra di vitaper diventare “veri” uomini e donne. Il carcere è, invece, un luogo di una durezza diversa e assai meno “colorita”

Il gioco della fiction, sapientemente orchestrato, finisce per prendere più o meno tutti. C’è però qualche problema e riguarda in particolare l’immagine del carcere minorile, una sorta di super protagonista, che ne esce alquanto deformata. Il rischio maggiore è che appaia come una palestra di vita, un luogo in cui, per tutte le prove di coraggio e “ardimento” sostenute per sopravvivere, occorre quasi passare per diventare “veri” uomini e donne. Il carcere è, invece, un luogo di una durezza diversa e assai meno “colorita”, dove bisogna fare i conti anche con la solitudine e con regole da rispettare sul serio. Entrarci non può essere vissuto come una sfida, un’occasione per emergere e diventare, se non già dei boss, più fighi. Contro questo rischio, effettivo, nella realtà si combatte, pur nelle ristrettezze di personale e risorse, con programmi di recupero a cui ciascun giovane è chiamato a partecipare in maniera attiva: l’obiettivo è aiutarlo a costruirsi un’alternativa, con il sostegno e l’empatia di operatori che sanno cosa davvero significhi “sporcarsi le mani” con i ragazzi. Una cosa ben lontana dal ricorrere agli espedienti e dall’infilarsi negli inghippi di cui la fiction abbonda.

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