8 giugno 2011 - organigrammi 'ndrangheta Torino operazione Minotauro - Tonino Di Marco - Ansa
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Il pentito di 'ndrangheta Domenico Agresta: "Non ho paura di collaborare"

Rampollo di due cosche della 'ndrangheta di Platì, cresciuto tra Buccinasco (Mi) e Volpiano (To), nel 2016 Agresta si pente e rivela agli investigatori i segreti appresi tra le mura di casa. "Un'educatrice del carcere mi disse che sarebbe stato difficile uscire da quell'ambiente. Ero da solo"

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

13 luglio 2022

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Cappellino, maglione a righe orizzontali, scarpe sportive. Sembra un trentenne come molti quando si presenta all’appuntamento, in una caserma una mattina di metà maggio. Si siede, chiede un po’ di acqua, e comincia a raccontare la sua storia, quella che la sua famiglia stava scrivendo per lui e quella che poi lui ha deciso di scrivere per sé. Doveva diventare un capo della ‘ndrangheta come il nonno, di cui porta lo stesso nome. Doveva seguire la carriera del padre e dei suoi zii, trafficanti di droga impiantati nel Nord Italia. Era promettente, se così si può dire di un ventenne che – pochi mesi dopo l’affiliazione – ammazza il suo autista per debiti di droga e alcuni sgarri. Invece è diventato il più giovane collaboratore di giustizia della criminalità calabrese. Domenico Agresta, nato a Locri il 22 settembre 1988, cresciuto al Nord, ha deciso di cambiare strada e di collaborare con la giustizia, inimicandosi le potenti famiglie di ‘ndrangheta degli Agresta e dei Marando di Platì (Reggio Calabria).

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Che ricordi ha della sua infanzia?
Il primo è mio nonno Domenico che mi ha regalato un coltellino; il secondo l’arresto di mio padre. Era il 1993, la polizia è entrata nella casa a Buccinasco. Quando lo hanno ammanettato, gli ho chiesto dove stesse andando. Mi disse che sarebbe tornato presto. È uscito nel 2009, quando io stavo già dentro. Per un periodo siamo stati in cella insieme.

Suo padre le è mancato?
Sì, non c’è mai stato. Lo vedevamo soltanto ai colloqui.

Ha avuto un’educazione al crimine?
Certo. Fin da piccolo vieni formato. Non è come a scuola, coi libri. È proprio nel sangue, è negli sguardi, in tutto. Ma non è educazione, che vuol dire tirar fuori qualcosa. È un’imposizione. Mio zio Pasqualino (Marando, un caso di “lupara bianca”, ndr) mi diceva: «Speriamo che hai preso da tuo nonno».

Fin da piccolo vieni formato. Non è come a scuola, coi libri. È proprio nel sangue, è negli sguardi, in tutto. Ma non è educazione, che vuol dire tirar fuori qualcosa. È un’imposizione

Quali valori le sono stati insegnati?
Un certo ottimismo, una certa intraprendenza criminale. Non dovevamo prendere neanche una multa perché può attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. Bisognava mimetizzarsi. Tutto quello che si diceva in famiglia doveva rimanere lì. Anche se c’erano screzi, contro gli altri bisognava essere uniti. Già da piccolo cammini insieme ai tuoi cugini e ai tuoi zii. Anche se vai a scuola, ti senti in un mondo diverso.

Com’era a scuola?
Non riuscivo a integrarmi coi miei compagni di classe. Mi sentivo appartenente a un altro mondo, quello della mia famiglia.

Dove è cresciuto?
Facevamo un po’ avanti e indietro. A Volpiano mio padre aveva fatto una casa a partire da una cascina. Fu sequestrata perché quello che sulla carta risultava essere il proprietario era un nullatenente che abitava in un monolocale. Allora ci siamo trasferiti a Buccinasco (ride, ndr)… Un’altra Platì. Ho fatto l’asilo lì e poi quando mio padre è stato arrestato sono tornato a Volpiano, dove ho fatto le elementari e la prima media, dove fui bocciato. I libri non erano di casa. Ricordo che i miei parenti avevano menato il preside, che aveva osato dire “maleducati” a Ciccio e Natale. Quando mi hanno bocciato, mio zio mi ha mandato in un collegio privato a Lodi da cui sono usciti anche dei politici.

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Suo nonno com’è arrivato in provincia di Torino, a Volpiano?
Aveva ucciso Domenico Barbaro a Platì e gli hanno dato il soggiorno obbligato, dopo un periodo all’Asinara.

E del collegio a Lodi cosa ricorda?
C’erano figli di dottore con me. Mio zio Pasqualino era proiettato in ciò che fanno oggi le famiglie d’élite (della ‘ndrangheta, ndr): mandano i figli all’università. Hanno capito che essere dottore è una cosa difficile. Ho visto alcuni avvocati col padre al 41-bis. Ho parenti avvocati, psicologi, laureati in economia e commercio che fanno i broker. Cercano di indirizzarti lì, ma sempre con la coda tagliata (affiliati, ndr).

Diceva che a scuola non socializzava molto.
No, ma non vedevo neanche mia madre socializzare con le madri dei compagni. Vivevamo a Volpiano, al massimo al bar frequentavano i “tifosi”.

Chi sono?
Persone che non appartengono alla ‘ndrangheta, ma la sostengono, non fanno nessun reato, a parte qualcuno che partecipa ai traffici di droga.

Calabresi?
No, pienamente piemontesi. Di questo, secondo me, non si è mai parlato. I tifosi ti permettono di vivere a Volpiano o a Buccinasco in maniera serena.

Da ragazzino era un bullo?
No, perché c’è sempre qualcuno che ti dice di non fare cazzate. E poi con chi lo fai? Con tuo cugino? No, magari facevamo degli scherzi, ma non prendevamo di mira qualcuno.

Avevate già una sorta di codice d’onore da ragazzini?
Sì, e quando qualcuno sbagliava partivano le spedizioni punitive. Noi ci sentivamo come quelli che mettevano a posto i bulli, ecco. Se qualcuno, in qualche locale che noi frequentavamo a Volpiano, Torino o Buccinasco, beveva troppo e importunava qualche ragazza, veniva punito e prendeva botte. A volte peggio.

Lei è stato affiliato all’età di 20 anni, nell’aprile 2008 a Volpiano. Ricorda quel giorno?
L’affiliazione è tutto. Arrivare all’affiliazione è come per le famiglie non mafiose avere un figlio che si laurea. Ma essere affiliati è molto più importante: se non sei affiliato non sei uomo, non hai onore. Mio padre, dal carcere di Vercelli, scalciava per farmi affiliare.

L’affiliazione è tutto. Arrivare all’affiliazione è come per le famiglie non mafiose avere un figlio che si laurea

Fresco di affiliazione, a metà ottobre 2008, ha ucciso un 23enne, Giuseppe Trapasso.
Ho cercato di salvarlo fino all’ultimo. Poi mi sono dovuto prendere la responsabilità. Quando mi hanno arrestato, hanno salvato altre due vite, C. e S.. Dovevano morire perché avevano partecipato e visto tutto.

Trapasso aveva debiti di droga con lei.
La decisione è partita da un altro episodio. Il padre di Trapasso aveva picchiato un mio cugino, ma Giuseppe stava lavorando per me come autista e come corriere della coca. Molti miei parenti ce l’avevano con lui perché faceva sparire droga e soldi. Ci prendeva in giro, aveva fatto danni. Mio cugino Toto, il capo giovani, carica della società minore (una sezione di una locale di ‘ndrangheta, ndr), mi ha detto che se avesse sbagliato ancora avrei dovuto ucciderlo. Non era soltanto un problema di debiti di droga. Noi l’avevamo picchiato e gli avevamo preso la macchina, ma lui ha chiamato i carabinieri. Mio cugino a quel punto ha detto che doveva morire. Non aveva gli insegnamenti.

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Quando ha commesso l’omicidio aveva assunto droghe?
No, ero lucido.

Ha mai assunto droghe?
No, mai.

Eppure la sua famiglia traffica a livello internazionale.
Ho visto dei sacchi grandi, quelli della spazzatura, pieni di contanti.

Pensa mai ai familiari di Trapasso?
Certo, ho chiesto tante volte scusa. Ho passato brutti momenti, ma un pensiero mi aiuta ad affrontare questo percorso. Quando mia madre dice di aver perso un figlio per via del mio pentimento, io penso alla madre di Trapasso, che è morto. Conoscevo la madre di Trapasso, ero stato a casa loro a mangiare la pizza. Rabbrividisco nel pensare a certi episodi.

Per l'omicidio è stato condannato a 30 anni. Come ha reagito alla condanna?
Quando hai una famiglia che ti sostiene e credi in quel sistema di valori, non ci pensi molto: in carcere ricevi soldi, vestiti firmati, pesce, ad esempio io potevo spendere il massimo, mi compravo i gamberoni. Non bisogna sottovalutare il sostegno economico. Alcuni detenuti di altri organizzazioni, senza i soldi per mantenersi, poi si pentono. Quando ho cominciato a parlare con gli educatori, una mi ha fatto notare che, anche all’ergastolo, sarebbe stato facile rimanere nell’ambiente, mentre quanto stavo facendo era difficile. Ero da solo. Ho avuto un sostegno, fino a quando non ho cominciato a frequentare la scuola e ho detto a mio padre che non mi interessavano più queste “barzellette”.

In carcere, considerata la lunga condanna da scontare, ha ottenuto la dote di padrino. Il sistema mafioso sopravvive anche in cella?
Certo, e si progredisce, soprattutto dopo la condanna definitiva. La dota diventa come un premio. Per questo l’ergastolo l’ho preso con freddezza. La cosa brutta è quando la Cassazione ha confermato tutto.

Da recluso ha imparato qualcosa di nuovo sulla ‘ndrangheta?
A voglia! Nell’As (regime detentivo di Alta sicurezza, ndr) è un continuo formarti. Alcuni entrano da non affiliati e poi vengono affiliati. Il carcere permette uno scambio culturale ricco, puoi incontrare il miglior rapinatore, il miglior killer, un broker. Se uno non va a scuola, in carcere, cosa fa? Io come ne sarei uscito? Sarei uscito a circa 40 anni, peggiore di prima.

È stata la scuola a farle cambiare percorso?
La scuola in carcere a Saluzzo è particolare. Ha avuto il coraggio di creare delle ore sull’educazione civica, su quello che non avevamo mai appreso. Oltre alle materie, si aprivano degli argomenti che riguardavano anche gli sbagli, il male e il bene, la mafia, i femminicidi... Trovavano il tempo per chiamarti. L’educatrice e la psicologa, se vedono un po’ di volontà e spirito critico, ti dedicano attenzione. Se non avessi avuto quello spazio, con chi parlavo? Con Dio? Ma Dio non mi dà risposte. Se leggi un libro, è come fare un viaggio. Se leggi Se questo è un uomo di Primo Levi, ti cambia un pochino. Si scoprono vite vissute. Se non mi avessero arrestato non mi sarebbe mai capitato quello spazio lì, che mi serviva per ritrovare me stesso.

Quali temi preferiva a scuola?
Ho amato la Divina commedia. Come materie storia dell’arte e letteratura.

Da alcune intercettazioni emerge che suo zio si lamentava del suo comportamento in carcere: lei non rispettava le regole.
Certo, stavo ore a parlare con la psicologa e lui mi aspettava con la cena pronta. Non volevo più neanche fare i colloqui coi miei genitori. Ho fatto tutto prima di collaborare. Poi mi sono sentito maturo e accettato agli occhi degli studenti, dei miei professori, delle educatrici. Dentro di me ho capito che potevo appartenere a quel contesto che da ragazzo non sentivo mio.

Il carcere può aiutare i mafiosi a cambiare vita o è soltanto una scuola di specializzazione?
Il carcere può stimolare la sofferenza e poi la collaborazione, ma non vuol dire essere cambiati. Sono le attività nel carcere che possono far cambiare. È difficilissimo. È più facile se non sei affiliato. Se tu sei affiliato ed esci, “loro” ti appoggiano, ti trovano un lavoro, ti danno una mano con la spesa. Quando stai in carcere chi ti mantiene? Per una persona che non appartiene alla criminalità è più facile che cambi e si penta. Però senza carcere non si cambia.

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È necessario il carcere?
Certo. Ho litigato una volta con una professoressa. Mi ha provocato e mi ha detto che le carceri non devono esistere. Non è bello il carcere, ma se resti fuori a commettere reati non puoi cambiare. Una psicologa mi ha fatto riflettere tanto. Mio padre e mio nonno facevano sequestri di persona. Un sequestrato spazio non ne ha tanto – le ho viste le buche in cui stavano legati in catene –, se ha bisogno di medicine non ne può avere. In carcere invece hai medicine e cibo, ricevi le visite. Se sbagli, lo Stato ti dà la possibilità di pagare e cambiare. Di là, ti ammazzano, ti fanno mangiare dai maiali. Siamo proprio al livello più basso dell’umanità. Arrestandomi non mi hanno tolto la libertà, mi hanno impedito di togliere la libertà.

Quant’è stato duro rompere i legami con suo padre e la sua famiglia?
Non è stato duro, l’ho voluto io. Ormai avevamo una mentalità diversa.

«Sto bastardo di merda ha voluto rovinarci, ‘sto bastardazzo», ha detto suo padre Saverio dopo aver intuito che lei stava collaborando con la giustizia. «Se lui si è dissociato da noi, dalla mia famiglia e dalla tua, io lo ammazzo…», diceva a sua madre.Ha paura?
Certo. Non ho paura di collaborare, ma di essere ammazzato sì. Tanti non ragionano e sono tante le persone che io ho nominato. Se uno non vuole ammazzarmi, lo farà un altro oppure lo farà il figlio di uno finito all’ergastolo. Potrebbe capitare, ma non credo ora.

Ai magistrati ha detto di avere paura per le sue sorelle, “vittime del sistema”.
Certo. Non hanno scelto in quale famiglia nascere. Una sorella voleva fare la modella e mio padre non l’ha lasciata. Volevano farle fare delle pubblicità e dei film, ma mio padre teme che si metta nuda in tv. Voleva anche fare la psicologa, faceva intrattenimento dei bambini al McDonald, ha fatto un po’ di scuola e poi si è sposata col figlio di un narcotrafficante. L’altro mio cognato è un narcotrafficante, una pietra la fa diventare denaro, ma picchiava mia sorella.

Come passa il suo tempo da pentito?
Leggo. Ho un trolley pieno di libri.

Libro preferito?
I sonetti di Shakespeare.

Lavora?
No. Non ho avuto ancora l’opportunità. Mi sto dedicando allo studio, da autodidatta.

Le piacerebbe laurearsi?
Vorrei provarci, ma non so se ci riesco. Vorrei anche imparare un mestiere e farmi una famiglia, ma è difficile. Guardo il bicchiere mezzo pieno: sconto la pena in libertà. Se capiteranno, va bene. Spero davvero che, in un futuro, io possa lavorare, anche pulire le scale, portare il pane a casa e accontentarmi. Sennò a cos’è servito fare tutto questo, fare dei sacrifici, perdere una famiglia – anche se ‘ndranghetista per poi eventualmente trovarmi nelle condizioni di andare a rubare perché non ho soldi? Però chi prenderebbe mai un pregiudicato o un pentito a lavorare?

Vorrei imparare un mestiere e farmi una famiglia, ma è difficile. Spero davvero che, in un futuro, io possa lavorare, anche pulire le scale, portare il pane a casa e accontentarmi

Ha amici?
Sono selettivo. Appena ho la sensazione, mi viene la paranoia che mi crei problemi ed evito.

Quanto tempo passa a pensare al suo passato?
Non troppo. Ci penso perché mi serve per la collaborazione, per i processi.

Cosa ne pensava dei pentiti?
Una volta in cella ho litigato con uno perché aveva dato dell’infame a mio zio Rocco (Marando, ndr). Un’altra volta un altro aveva detto che era un cornuto. Ma difendevo me, non zio. Anche io pensavo fosse un infame, ma se l’avessi incontrato non gli avrei fatto nulla.

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