9 giugno 2022
Per i consociati, a Roma Antonio Carzo, 62 anni, originario di Sinopoli, era diventato "come il Papa", autorizzato a costituire e governare uno “Stato” nello Stato. Una “locale” di ‘ndrangheta nella Capitale, la prima individuata come tale dai magistrati . Non era solo: prima di lui, dall’Aspromonte alla volta della capitale era partito il cugino, Vincenzo Alvaro, 58 anni, originario di Cosoleto.
La storia inizia proprio tra le montagne della Calabria meridionale, da due località con una popolazione complessiva che non supera i tremila abitanti. Da lì, Carzo e Alvaro partono per raggiungere il cuore economico di Roma dove prende forma la loro "reggenza diarchica" riconosciuta dal “Crimine di Polsi” (o "Provincia"), la struttura al vertice della 'ndrangheta. Un sodalizio, che "non ha la finalità di controllare militarmente il territorio, ma quella di reinvestire i proventi di altre attività delittuose ed altri delitti", scrive il gip di Roma, Gaspare Sturzo nell’ordinanza dell’inchiesta “Propaggine” che prova a chiudere il cerchio intorno ad anni di inchieste. Nella rete delle Direzioni distrettuali antimafia di Roma e Reggio Calabria sono finite almeno 77 persone, destinatarie di misure cautelari il 10 maggio scorso. Tra i nomi ci sono quelli di presunti boss e affiliati. Di politici (come il sindaco di Cosoleto, Antonino Gioffrè, arrestato per voto di scambio politico-mafioso) e professionisti "a disposizione" di una "nuova struttura criminale periferica" operativa all’ombra del cupolone, "con i suoi componenti dedicati stabilmente all’attività di riciclaggio, autoriciclaggio e reinvestimento di capitali illeciti provenienti da altri delitti, soprattutto in materia di stupefacenti, armi ed estorsioni".
Il clan “Alvaro-Penna”, in stretto dialogo con le altre mafie attive nella capitale, è il modello da esportare insieme ai suoi linguaggi, riti, “doti”, riunioni segrete, reati tipici della criminalità della terra d’origine e "trapiantati a Roma dove la ‘ndrangheta si è trasferita con la propria capacità di intimidazione".
"In linea generale – recita l’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia – può affermarsi che nel Lazio coesisterebbero le matrici criminali autoctone con quelle tradizionali di ‘ndrangheta, camorra, mafia siciliana e criminalità pugliese che alla violenza prediligono la ricerca di proficue relazioni affaristico-imprenditoriali tese alla contaminazione del tessuto economico legale".
Di ‘ndrangheta si comincia a parlare dai primi anni Settanta. Il riferimento era al cosiddetto “assedio” del comune di Fondi, in provincia di Latina, attuato dai figli del decano “don Mico” Tripodo, compare d’anello di Totò Riina, ucciso in carcere nel 1976 dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo su richiesta di Paolo De Stefano nell’ambito della “prima guerra di ‘ndrangheta” che vide vittoriosa la “famiglia” del rione Archi di Reggio Calabria.
A Fondi la difficile sfida dello Stato alle mafie del mercato
Le inchieste, collegate ai giorni nostri attraverso un filo rosso sangue, fanno risalire la presenza della mafia calabrese nella capitale a partire dal decennio successivo. Nel 1982, nell’ambito di un’indagine sulle piazze di spaccio, i carabinieri si accorgono che alcuni dei soggetti attenzionati "trattavano con enorme rispetto i titolari di una pizzeria in via Boccea", ha spiegato il generale dei carabinieri Enrico Cataldi, all'epoca capitano al comando della sezione criminalità del Reparto operativo di Roma, agli autori del secondo rapporto Mafie nel Lazio. L’attività, gestita da Vincenzo e Giovanni Femia, figli di Antonio, viene messa sotto controllo. Gli investigatori scoprono l’esistenza di un’associazione operativa tra le zone di Boccea e Primavalle, "che contava rapporti con Raffaele Pernasetti e Enrico De Pedis, esponenti apicali della banda della Magliana", si legge ancora nel rapporto. Vincenzo Femia, genero di Peppe Nirta “u Scalzone”, capostipite dell’omonima famiglia di San Luca, aveva scalato le gerarchie grazie al controllo di gran parte delle piazze di spaccio della capitale dove la cosca reinvestiva anche la mole di proventi derivanti, all’epoca, dai sequestri di persona.
Ma il 24 gennaio 2013, Femia rimane vittima di un agguato. Il suo corpo viene ritrovato nella periferia di Trigoria, colpito da nove spari di pistola al volto. A confermare la matrice mafiosa di quel fatto è lo stesso killer, Gianni Cretarola, originario di Sanremo, che un mese dopo il suo arresto a luglio 2013 decide di collaborare con la giustizia. "L’impatto di fuoco doveva essere devastante", racconterà al pm Michele Prestipino. L’importazione della droga fino alla periferia della capitale era gestita attraverso l’accordo tra le famiglie Pelle, Nirta e Giorgi-Pizzata. Gli equilibri avrebbero cominciato a tendersi in prospettiva dell’arrivo di un’ingente partita di cocaina dalla Colombia e Cretarola.
"Battezzato" in un carcere con la puntura di un punteruolo fino alla fuoriuscita del sangue dal polso destro, affermò di aver ricevuto l’ordine di uccidere Femia da Giovanni Pizzata, al tempo detenuto a Rebibbia. L’idea era quella di alterare gli equilibri. L’aspirazione, di aprire una “locale”. Il collaboratore confessa e fa i nomi di due complici, Massimiliano Sestito e Francesco Pizzata, figlio di Giovanni, all’epoca 22enne. Lo scorso ottobre si è concluso il terzo processo d'appello dopo due annullamenti della Cassazione con la conferma dell’ergastolo per il primo e pena ridotta a 24 anni e otto mesi per il secondo. Per Cretarola la condanna (in abbreviato) era stata di 12 anni. L’omicidio Femia e le dichiarazioni del killer squarciano il velo sugli affari legati al traffico di droga della ‘ndrangheta nella Capitale.
A Roma la geografia dei traffici è diventata sempre più difficile da leggere
"L’obiettivo era quello di stare sotto traccia e non mischiarsi con nessuno, in quanto noi eravamo totalmente autonomi e autorizzati da San Luca a poter fare qualsiasi tipo di cosa"Gianni Cretarola - Pentito della 'ndrangheta
A inizio 2015 vengono arrestate 31 persone nell’ambito di un’operazione che smantella un gruppo romano "in grado di organizzare spedizioni di ingenti quantitativi di cocaina proveniente dal Sud America". Alcuni appartenenti del gruppo hanno stretti legami con la 'ndrangheta e sono "stabilmente dediti al traffico internazionale di stupefacenti ai massimi livelli", scriveva il gip Roberto Saulino. Durante le perquisizioni viene trovato anche un quadernino pieno di messaggi cifrati, il così detto “Codice di San Luca” coi rituali di affiliazione e regole arcaiche. Ma "Roma è il futuro", scandivano in senso quasi ossimorico gli indagati nelle intercettazioni programmando gli investimenti illeciti.
Del gruppo faceva parte lo stesso Cretarola, che racconterà agli inquirenti: "L’obiettivo era quello di stare sotto traccia e non mischiarsi con nessuno, in quanto noi eravamo totalmente autonomi e autorizzati da San Luca a poter fare qualsiasi tipo di cosa […] non avevamo bisogno di presentarci a un locale per poter essere accettati". Il collaboratore racconta anche qualcosa in più: sebbene gli investimenti delle cosche nel mercato degli stupefacenti avessero condotto nei sobborghi della capitale, un’altra fetta di proventi investiti conduceva verso la parte più luccicante, quella dove "nessuno vuole rispecchiare la Calabria – si legge nei verbali – perché qui a Roma ognuno si vuole prendere i suoi spazi e vivere in maniera diversa da come vive in Calabria".
Eppure, fino a quel momento, "gli elementi di prova non ci consentono ancora di poter affermare che sul territorio romano la ‘ndrangheta si sia organizzata come in altri territori (del Nord, ndr) – dirà il procuratore Prestipino all’esito dell’indagine – dove ha esportato non soltanto interessi criminali, non soltanto persone ma anche la sua struttura organizzativa". Siamo al 2015: l’anno in cui tutto sta per cambiare.
Il racconto più recente dei collaboratori di giustizia permette di individuare uno spartiacque tra la fine della prima e l’inizio della seconda decade degli anni duemila. Almeno fino al 2015 – riporta Paolo Iannò, boss del quartiere reggino Gallico e storico braccio destro del “Supremo”, Pasquale Condello – non sarebbero esistite “locali” di ‘ndrangheta nelle città di Roma e Milano in forza di un patto stretto tra le tre grandi mafie (cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta) per evitare guerre di mafia con morti che avrebbero acceso i riflettori investigativi. O meglio – si legge nella richiesta cautelare la Dda di Roma – le due grandi città erano state lasciate zone libere in cui poter certo operare in modo criminale, ma senza pretendere di avere il controllo militare esclusivo del territorio. "In queste città si tende a sviluppare al massimo l’investimento, facendo meno rumore possibile", conferma Antonino Belnome, espressione dei “Gallace” di Guardavalle e tra i vertici del sodalizio in Lombardia prima di collaborare con la giustizia.
Secondo un’inchiesta di febbraio 2022, la cosca del Catanzarese si sarebbe radicata nel municipio di Nettuno, già sciolto nel 2005. Una sorte che potrebbe presto toccare al comune di Cosoleto. A capo della locale di 'ndrangheta di Cosoleto c'è Nicola Alvaro. Proprio suo figlio, Vincenzo, arriva a Roma nel 2001. Nel 1999 scatta l’operazione Prima che consente di dimostrare l’esistenza della cosca Alvaro quale clan radicato sull’Aspromonte, un clan che è "unitario" sebbene sia organizzato in due diversi gruppi: i Carni i cani e i Testazza di cui faceva già parte Antonio Carzo, cugino di Nicola e Vincenzo Alvaro. Il più giovane, dopo esser stato condannato a dieci anni in primo grado, viene assolto “per non aver commesso il fatto” dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, che nella sentenza divenuta definitiva confermerà l’esistenza del gruppo criminale.
Dopo la scarcerazione, l’allora 47enne Vincenzo Alvaro detto Beccauso, sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, ottiene l’autorizzazione a trasferirsi a Roma "per rifarsi una vita lavorando come aiuto cuoco" al bar California di via Bissolati, ma "avrebbe fatto acquisire il controllo della società che gestiva il bar prima di essere assunto", riportano i magistrati.
Da quello stesso locale inizierà la parabola del “barbiere prodigio” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Damiano Villari, che nel 2005 (da nullatenente) acquisterà per una cifra irrisoria il bar della “Dolce vita”, il noto Cafè de Paris di via Veneto. Nella capitale, Vincenzo Alvaro diventa lo “Zio”, succede al padre ormai anziano e dà vita ad un gruppo criminale, che annovera una fitta schiera di parenti e presunti affiliati anche loro trasferitisi nel frattempo dalla Calabria tra cui diversi componenti della famiglia Palamara, nomi che figureranno intorno alle vicende di diverse aziende sequestrate. Di fatti, il gruppo si regge su investimenti in società operative nel settore della ristorazione "in nessuna delle quali – riportano le informative della polizia giudiziaria – (Alvaro, ndr) figurerebbe soggettivamente come socio o amministratore" utilizzando dei prestanome quindi creando un "sistema occulto di accaparramento e gestione di attività economiche nella città".
Parole già lette tra il 2009 e il 2011, anche nell’operazione che prese il nome dal locale di via Veneto, sequestrato insieme a un lungo elenco di altre attività sparse tra il centro e la periferia. "Nell’ambito di tale procedura di prevenzione – raccontano gli amministratori giudiziari – subimmo intimidazioni già in fase di sequestro. Ricordo, ad esempio, che nel novembre 2010 all’interno del Café de Paris, in terra, ci fu fatto trovare un lumino del tipo di quelli che di solito si trovano al cimitero" con l’immagine di Padre Pio. Nel 2019 il locale viene però dissequestrato e nel 2020 la Corte d’appello di Roma fa cadere dalle accuse l’aggravante mafiosa pronunciando l’assoluzione, per quella vicenda, dello stesso Alvaro.
Il “sistema Alvaro” torna oggi nell’operazione Propaggine e relativo provvedimento di sequestro che menziona in tutto 24 attività, la maggior parte delle quali divise tra Roma Nord e Primavalle. "Nel corso degli anni – si legge nell’ordinanza – si era 'fatto conoscere' nella capitale, dove era temuto e rispettato e dove aveva iniziato ad intessere rapporti anche con altre organizzazioni" tuttavia "non aveva avuto il 'riconoscimento' dalla madre patria calabrese per aprire un vero e proprio 'locale' di ‘ndrangheta".
Il pranzo è servito, nei ristoranti dei boss
"Pignatone, Cortese, Prestipino sono tutti qua e questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri: Cosoleto, Sinopoli, tutta la famiglia nostra... maledetti"Antonio Carzo
Il passaggio cruciale si avrà a partire da marzo 2014. Dopo essere stato scarcerato per fine pena all’esito del processo Prima, Antonio Carzo detto ’Ntoni Scarpacotta si sposta da Cosoleto a Roma per scontare il residuo periodo di detenzione domiciliare. Nasce un altro sottogruppo che annovera diversi degli odierni indagati tra cui i figli Domenico e Vincenzo Carzo, Francesco Greco, Luigi Monteleone e Pasquale Vitalone (già interessato dall’operazione Enclave di febbraio 2021 e da un recente sequestro di beni per una cifra intorno ai 500mila euro), ma nell’estate 2015 Antonio Carzo riceve il riconoscimento dalla “Provincia” per poter costituire una cellula romana "interdipendente".
"Gli altri prima di lui che sono anni che sono qua non hanno ottenuto quello che era giusto", dice a riguardo uno degli indagati, riferendosi proprio alla svolta costituita dall’arrivo di Carzo nella capitale. E continua: "Hai aperto proprio un bel locale qua". "Prima che arrivassi io – risponderà Carzo – tutta questa 'cosa bella'…e non ce n’è". Scarpacotta e Vincenzo Alvaro, entrambi ristretti, per gli inquirenti sono come il giorno e la notte. "Evitano scientificamente di incontrarsi" eppure la struttura si regge su loro due. Le accortezze sono parametrate al rischio di finire sotto la lente della "squadra che era sotto la Calabria" e ora si è spostata a Roma. "Pignatone, Cortese, Prestipino sono tutti qua e questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri: Cosoleto, Sinopoli, tutta la famiglia nostra... maledetti", scandisce Carzo.
"Non è che io devo comandare qua a Roma (...) sono amico di tutti e mi rispetto con tutti"Giuseppe Penna - Cosca Alvaro
"Guardate quanto siamo belli qua…noi abbiamo una propaggine di là sotto". Le cimici degli investigatori captano una conversazione il 6 ottobre 2017 nell’abitazione romana di Carzo. La frase è attribuita in prima persona a lui e secondo la ricostruzione sarebbe riferita proprio alla "filiale della cosca madre" creata nella capitale collegata a "là sotto", ovvero alla Calabria, richiamo in "un gergo proprio della struttura criminale", com’era già stato evidenziato dalla sentenza Crimine pronunciata nel rito abbreviato. Si parla dunque di una cellula dotata di autonomia operativa sul territorio laziale senza che però venisse intaccato l’equilibrio criminale coi gruppi autoctoni: "Come noi qua o là – continua la captazione – come gli Spada si fanno i ca**i loro o no…noi ci facciamo i ca**i nostri". Per i pm, il parallelismo è all’interdipendenza sul territorio di Ostia del clan Spada che, seppur "legato al più potente sodalizio dei Fasciani manteneva spazi di autonomia", secondo la sentenza Nuova Alba.
"Qui c’è pastina per tutti". Roma, sanno gli indagati, offre ingenti profitti a chi sa rispettare gli equilibri criminali. Un passaggio chiave ritrovato nelle parole di Giuseppe Penna, appartenente al gruppo dei Pallunari organico alla cosca Alvaro, migrato a Roma nel 2006 e divenuto vertice di un gruppo che non lesina interessi anche sul versante politico, come dimostra la sua attività in occasione delle elezioni del 2017 al Comune di Monte Compatri. L’indagine parte proprio dalla sua figura, che gli inquirenti riescono a tracciare anche grazie alle dichiarazioni dei pentiti. "Non è che io devo comandare qua a Roma…a Roma io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli sono…questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta tutto con noi…mano mozza…li conosciamo tutti a Torvajanica, al Circeo…sono amico di tutti e mi rispetto con tutti", riferisce ad altri esponenti della famiglia Alvaro. Equilibrio, ma anche consapevolezza di essere "una carovana per fare la guerra". Il gruppo Penna sarebbe collegato anche ad alcuni degli indagati di Mondo di mezzo, ampliandosi così la “zona grigia” dove gravita l’organizzazione. Nel fascicolo dell’indagine del 10 maggio sono approdati nuovi documenti che riportano intercettazioni secondo cui il gruppo criminale avrebbe avuto interessi finanche sugli appalti delle mense Rai e dei ministeri. Spunta, nelle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, il nome di Gianni Alemanno (non indagato), che proprio in una costola di Mondo di mezzo ha ricevuto una condanna d’appello per finanziamento illecito. L’ex sindaco nega però di aver avuto contatti con gli odierni indagati, in particolare con il pregiudicato Antonino Penna. "Io questi personaggi non li ho mai incontrati e neanche sentiti", dichiara.
Da qui, gli investigatori della Dia riescono a raccogliere una serie di elementi che aiutano a ricostruire la vita criminale della “locale”. "Una cronologia di progetti ed eventi programmati", scrive il gip, che trovano riscontro nelle conversazioni dove si dà atto delle imbasciate, "cioè incontri a natura riservata in cui parlare di argomenti tra pochissime persone" e delle mangiate, "riunioni più larghe dell’associazione dove si poteva partecipare se invitati", molte delle quali svolte a casa di Antonio Carzo, per l’occasione legittimato persino a conferire le doti di 'ndrangheta ad altri componenti del sodalizio. Per il giudice non ci sono dubbi sul valore confessorio delle parole di Carzo quando parla dell’"onore" ottenuto. Così il 62enne originario di Sinopoli avrebbe costituito una vera e propria locale a Roma dopo aver "chiesto e ottenuto l’autorizzazione alla 'Provincia', essendosi recato in Calabria al fine di convenire coi vertici dell’organizzazione quanto necessario per dare forza al progetto associativo criminale".
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