12 maggio 2022
Con un caffè e un cornetto caldo, alla mattina le mafie ti augurano buona giornata. Non ce ne accorgiamo, ma da tempo i gruppi criminali “ce la danno a bere e mangiare” grazie a presenze consolidate nella ristorazione: in pizzerie, ristoranti di lusso, bar e locali della movida. La catena in franchising della “Ristomafia S.p.a” ha sedi in tutta Italia. Da Roma a Milano, passando per Firenze, dalla Riviera romagnola fino a Napoli, non c'è indagine recente sulla presenza dei clan dalla quale non salti fuori il nome di un un qualche ristorante, bar o locale per l’happy hour gestito dalle mafie.
I clan sono una costante nel business del food perché il settore permette loro di "mangiare" anche in un altro modo. La catena della Ristomafia S.p.a è una delle principali lavanderie d’Italia, un luogo legale dove ripulire montagne di soldi sporchi. I boss servono il denaro sporco direttamente a tavola. Così, mentre beviamo e gustiamo piatti tipici della tradizione italiana, quei soldi si ripuliscono, escono dall’ombra, prendono forma e diventano affari. Con l’aiuto di broker, intermediari o professionisti.
Le motivazioni sono chiare, semplici e di carattere economico. Soldi che chiamano altri soldi. E la crisi da una mano. Sono tanti i luoghi di ristorazione che rischiano di chiudere come effetto della durissima stagione segnata dal coronavirus. La tecnica è conosciuta, sperimentata sul campo. Ed è vincente. I boss della ristorazione usano i prestanome per gestire società che comprano e vendono rapidamente le attività, ristrutturano con frequenza, giocano sui giri di fatture gonfiate, chiudono e ricominciano da un' altra parte con un turn over frenetico, che è possibile intercettare solo con una vigilanza e un monitoraggio preventivo sui contratti di acquisto e sulle licenze.
Come nasce la voglia dei boss di fare affari sfruttando un aperitivo o una cena a base di eccellenze italiane? Tra banconi e tavoli girano, innanzitutto, tanti soldi, con un unico requisito frequente: poche carte di credito e pagamenti rigorosamente in contanti. Alla cassa si preferisce il cash. Il contante non lascia traccia, a differenza dei pagamenti elettronici: i locali servono a far girare pezzi di carta e legalizzare soldi che erano già nel cassetto. Con il covid questa chance è cresciuta ancora. La conferma arriva dai vari report dell'Osservatorio della direzione centrale della polizia criminale, costituito nell'ambito dell'emergenza pandemica: “I clan puntano ai ristoranti”. Nella Fase due, la mafia è pronta all'altro contagio, quello criminale che fa leva sulla crisi. L'organismo permanente di monitoraggio paventa il reinvestimento di denaro delle organizzazioni criminali nella ristorazione e nel turismo, settori in ginocchio dopo il lockdown, anche con “il ricorso al credito parallelo e la possibilità di entrare nella disponibilità delle attività economiche senza figurare”. Non solo: “Deriverà una mancanza di liquidità che espone il settore all'usura” con rischio di “impossessamento” delle attività per riciclaggio.
Secondo Cerved, sono più di 9 mila i ristoranti che a causa della pandemia potrebbero trovarsi in condizioni di vulnerabilità finanziaria, e quindi esposti a interessi criminali e al riciclaggio di denaro
A fotografare la drammatica realtà è pure l’agenzia di informazioni commerciali e di rating Cerved, che integrando dati di bilancio e alert antiriciclaggio, ha realizzato una mappatura geosettoriale delle aziende a maggior rischio per le possibili crisi di liquidità causate dal covid. L’analisi è basata solo sulle società di capitali, numericamente inferiori rispetto al totale delle aziende iscritte alle Camere di commercio ma titolari della gran parte del fatturato dei settori coinvolti. Sotto la lente i problemi di liquidità, variazioni anomale delle strutture societarie, verifiche del titolare effettivo delle società e presenza di persone segnalate dalle autorità giudiziarie.
In base ai dati e ai segnali di Cerved, sono più di 9 mila i ristoranti che a causa della pandemia potrebbero trovarsi in condizioni di vulnerabilità finanziaria, che li renderebbero esposti a infiltrazioni criminali e al riciclaggio di denaro. Su una base di 33 mila ristoranti che operano come società di capitale, quelli a maggiore rischio di default passerebbero da circa 5.805 a 15.262. Per effetto del covid è possibile quindi individuare quasi 9.457 mila società con forti tensioni finanziarie, che potrebbero essere oggetto di infiltrazioni criminali e/o di riciclaggio di fondi illeciti. In termini assoluti, le regioni con il maggior numero di imprese sono il Lazio (2.116) e la Lombardia (1.360), seguite da Campania (1.098) e Toscana (783).
Dall'Aspromonte alla Dolce vita. Così la 'ndrangheta ha messo base a Roma
La Capitale è la più esposta, dal centro storico alla periferia. Le inchieste stanno scrivendo la nuova guida enogastronomica: sono oltre 50 tra ristoranti, pizzerie e caffè blasonati, i locali sequestrati alla criminalità organizzata negli ultimi tre anni. Forchette e chef made in mafia che hanno conquistato i luoghi de La grande bellezza. Roma, con il suo oceano di bar e ristoranti, è il luogo in cui è più facile dissimulare la provenienza del denaro investendolo, camuffato, grazie all'aiuto di professionisti. Una mappa desolante: si parte da via Veneto, si scende verso il Pantheon, costeggiando Palazzo Chigi, si arriva a Trastevere con diramazioni nei quartieri della periferia. Si tratta anche di ristoranti con buone recensioni e apprezzati dal punto di vista culinario. Del resto, le persone che servono e che cucinano non hanno alcuna responsabilità, nella maggior parte dei casi neanche immaginano di che pasta sono fatti i loro superiori.
Con il cibo si rende legale l'illegale e seguire il flusso dei soldi che finisce nei piatti di Roma non è un'operazione semplice. Il ristorante, i locali della movida sono i terminali di una filiera alimentare: dai prodotti della terra alle carni, dalle mozzarelle al caffè. Il giro di fatture false può partire da lontano: dalla produzione al trasporto, dallo smistamento alle vendite. Un sistema economico parallelo, fittizio e sovrastimato. Laddove ci sono vuoti dovuti alla crisi o insuccessi imprenditoriali, arrivano i capitali sporchi: la Ristomafia lavora come le finanziarie che hanno a disposizione grandi liquidità e capacità di erogare soldi con più rapidità di qualsiasi altra banca. Si presentano con broker, commercialisti, avvocati, si offrono di diventare partner e lentamente entrano, acquistano quote, fino a impadronirsi di intere società. Per sfuggire ai controlli fiscali, queste sono intestate a un prestanome, quasi sempre nullatenente che all'apparenza non ha nessun legame con il mondo mafioso. E prima che qualcuno se ne accorga la società costituita si è già nuovamente sciolta.
Il modello criminale di produzione del pomodoro in Puglia è stato creato ed esportato dalla camorra
Allo shopping capitolino partecipano soprattutto ’ndrangheta e camorra. In un’indagine della Dda di Roma, del settembre 2020, viene descritto uno spaccato significativo dell’ormai consolidata ultima frontiera del riciclaggio. Uno schema che si ripete da decenni, immutato. Cambiano solo i protagonisti: una volta erano i capi della banda della Magliana, poi Michele Senese, i casalesi di Iovine. Ora le insegne hanno come proprietari Angelo e Luigi Moccia, ai vertici – secondo gli inquirenti – di uno dei clan più potenti del centro-sud.
“Ne muovono di roba! Comunque sia, i Moccia sono i più potenti di Italia”, dice una delle loro vittime. E' lo stralcio di un’intercettazione allegata alle carte dell'inchiesta che ha portato all'arresto da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia, di 13 persone tra Roma e Napoli e al sequestro di 14 locali nel centro della città. Ristoranti e bar che, secondo l’accusa, erano riconducibili ai Moccia, in particolare ai fratelli Angelo e Luigi. Non a caso uno dei gestori dice al telefono: “Ristoranti di Franco Varsi (uno degli indagati, ndr)! I ristoranti sono di Angelo Moccia! Tu lo sai chi è Angelo Moccia? Qua l’hai conosciuto! No? Vedi che c’hanno un’organizzazione.... che per spaventarmi io che l’ho conosciuto ultimamente... ti dico... spaventosa! Spaventosa! Non ti dico quanto! Capisci a me, nonostante li conosco da anni…”. L’interlocutore chiede: “Sono un clan?”. “Spaventosa! Stanno nei tribunali! Comunque... I ristoranti di Roma sono tutti loro! Tutti! Non riconducibili..”.
Nelle carte si scopre la potenza del clan, in grado di capitalizzare anche sui ristoranti sequestrati in passato e affidati allo Stato. Compresi quelli in amministrazione giudiziaria, gestiti da una cooperativa che per poter lavorare aveva dato ai Moccia ben 300mila euro. “Tale comportamento – si legge nell’ordinanza firmata dal gip Rosalba Liso – oltre a costituire una chiara espressione della forza intimidatrice del clan Moccia e della condizione di assoggettamento che ne deriva, dimostra anche come tale organizzazione riesca a mantenere il dominio sulle attività commerciali, nonostante l’opera repressiva dello Stato”.
Un meccanismo collaudato, che ha la sua origine nel 2005, precisamente il 15 giugno di quell’anno, quando un barbiere di Sant' Eufemia di Aspromonte, Damiano Villari, diventò proprietario dell'intero capitale sociale dello storico Café de Paris per soli 250mila euro. Damiano era la testa di legno di una potente cosca della piana di Gioia Tauro, gli Alvaro di Sinopoli, facente capo a Vincenzo Alvaro. Il locale simbolo della Dolce Vita venne sequestrato nel 2009: i pubblici ministeri ritengono servisse a ripulire il denaro delle cosche. Due anni dopo Vincenzo Alvaro finì in cella per intestazione fittizia con l’aggravante mafiosa, ma processi e appelli hanno fatto cadere le accuse. Di quell’esperienza quindicinale di attività nella Capitale Alvaro porta in dote la mentalità imprenditoriale e i legami con le altre consorterie criminali, da cui nasce il gemellaggio tra Gallico e Alvaro. L'uomo che avrebbe indirizzato i Gallico verso i circuiti economici della ristorazione della Capitale, è Vincenzo Adami, cugino di Vincenzo Alvaro. Nell'inchiesta Ndrina Happy hour contro il clan Gallico del 2013, così scrivevano nell'ordinanza i magistrati della Direzione investigativa: “Ciò che emerge è che l'Adami svolga il ruolo di apripista per gli investimenti di tutti gli affiliati nonché parenti e affini degli uomini del clan che intendono concludere affari nel settore della ristorazione nella Capitale, quello ad oggi certamente più affetto da infiltrazioni ndranghetiste. Per l'antimafia sono gli “uomini cerniera”, romani cresciuti nella Capitale, dove vivono e fanno affari, ma con la testa rivolta ai clan di Reggio Calabria. Dieci anni dopo sono loro i capi della prima locale della 'ndrangheta capitolina.
Il meccanismo di riciclaggio e investimento nella ristorazione, così diffuso nel tessuto sociale ed economico di Roma, si è ingrandito ed è diventato vincente. Le mafie hanno acquisito il know-how giusto per investire nel made in Italy più riconosciuto al mondo: il cibo. Dieci anni di imprenditoria criminale hanno fruttato soldi e potere di cui molti non sono ancora pienamente consapevoli. Un potere che inquieta e preoccupa, e lascia tanto amaro in bocca.
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