13 ottobre 2021
Potevano vantarsi del marchio NoCap, il bollino etico voluto dall’ex bracciante Yvan Sagnet per certificare i prodotti liberi dal caporalato. Ma raccoglievano pomodori sfruttando braccianti pagati quattro euro l’ora e costretti a lavorare anche 16 ore al giorno, senza poter andare in bagno. È quanto si legge nell’ordinanza del tribunale di Foggia che lo scorso aprile ha portato all’ennesima retata di arresti per caporalato nelle campagne della Capitanata. L’indagine Prìncipi e caporali, che si è svolta tra luglio e ottobre 2020, prende il nome dall’organizzazione di produttori (Op) finita nel mirino: la Op Principe di Puglia, da dicembre 2020 parte della rete NoCap.
In questa terra sembra che nessun imprenditore agricolo possa sottrarsi al caporalato: un terreno su cui è facile scivolare, pur partendo con le migliori intenzioni. La ragione è in parte storica. Va cercata nella decisione della camorra di sfruttare il Foggiano per la produzione dei pomodori, mantenendo gli impianti di trasformazione al di là degli Appennini: tra Napoli e Salerno. Una distanza che grava sui prezzi già stracciati delle produzioni, rende indispensabili i braccianti sfruttati, e spiega come l’oro rosso qui sia diventato dannazione più che ricchezza.
Yvan Sagnet: "Se è bio non è detto sia anche NoCap"
Con 5,16 milioni di tonnellate di pomodoro inscatolato e imbottigliato nel 2020, l’Italia è il terzo trasformatore al mondo dopo Usa e Cina. Il 47 per cento è coltivato in Capitanata
Oggi la provincia di Foggia produce quasi la metà della materia prima che finisce in passate e pelati venduti in tutto il mondo. I campi di pomodoro sono ovunque, ma non è sempre stato così. Fino agli anni Ottanta era "il granaio d’Italia". Lo testimonia il silo granaio più grande d’Europa, inaugurato nel 1937: 30 metri di cemento armato in grado di contenere 400mila quintali di grano. Di quell’epoca rimane solo un edificio abbandonato.
A stravolgere il paesaggio agrario foggiano, trasformandolo in una “pummarola valley”, sono state soprattutto la camorra e l’industria trasformatrice campana. Negli anni Ottanta in Campania i clan già controllano il ciclo del pomodoro: dalla produzione – che da fine Ottocento e per quasi un secolo si è concentrata nell’Agro sarnese-nocerino – alla trasformazione, fino all’accaparramento dei contributi europei. Una gestione capillare ottenuta con la forza: nel 1982 in provincia di Salerno, su otto imprenditori ammazzati due sono industriali conservieri. Proprio in quegli anni succede qualcosa: un virus colpisce le produzioni di pomodoro San Marzano in Campania e la speculazione edilizia successiva al terremoto dell’Irpinia del 1980 porta alla cementificazione delle terre coltivate a pomodoro nell’Agro sarnese-nocerino. Queste due circostanze, legate al desiderio di terre pianeggianti per aumentare la produzione di un bene protetto dai finanziamenti europei, spingono l’economia del pomodoro verso il Tavoliere. Detto fatto: alla fine degli anni Ottanta, Foggia coltiva da sola il 40 per cento del pomodoro italiano.
La bracciante che ha acceso i riflettori sul caporalato
Per volere di politici campani e clan camorristici, le industrie conserviere rimangono però in Campania. Per ogni quintale trasportato al di là degli Appennini i clan chiedono mille lire. Il racket dell’oro rosso è tale da riuscire a estorcere direttamente le associazioni di agricoltori. Ma la partita è più grande della semplice riscossione del pizzo. La violenza contro camionisti e trasportatori serve a controllare il mercato dei prezzi. Nei primi anni Novanta i camionisti che ogni giorno partono dalle campagne del Tavoliere con i loro carichi di oro rosso e le pochissime industrie di conserve presenti in Puglia diventano bersaglio di costanti attentati. Il 30 agosto 1992 Liano Nicolella, allora segretario provinciale della Flai-Cgil (il sindacato dei lavoratori dell’agroindustria), intervistato da l’Unità, parla di una “strategia terroristica volta a mantenere i prezzi più bassi possibile e ad annullare gli effetti di una prima regolamentazione di un mercato tradizionalmente selvaggio come quello del pomodoro”.
Ad alimentare questo mercato sono la disponibilità di manodopera a costi irrisori, la frammentazione dei produttori e un ceto politico più interessato a gestire la concessione di fondi pubblici che a governare la filiera. “Una parte almeno degli extracomunitari viene mossa da organizzazioni di caporalato che hanno base in Campania”, continuava Nicolella. Per accogliere le migliaia di lavoratori stagionali, nel 1999 viene costruito su ciò che resta dell’ex base dell’aeronautica militare di Borgo Mezzanone il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo (Cara): 165 ettari di terreno in mezzo al nulla. Oggi è il ghetto più grande della provincia (in totale se ne contano una ventina) e un bacino inesauribile di forza lavoro: al suo interno si contano in media 1500 migranti con picchi di quattromila persone nei periodi della raccolta. "È un villaggio – racconta un ragazzo all’ingresso –. Siamo una marea, non ci puoi contare". C’è chi gestisce mini-supermarket, chi cuoce arrosticini, qualcuno prega in una moschea, altri frequentano "il Messico", dove girano droga e prostitute. Ci sono venditori di scarpe, barbieri, meccanici. Questi ultimi non possono mancare con tutti i motorini, le auto e i furgoni che girano qui dentro, di proprietà degli stessi caporali, che a loro volta vivono nel ghetto.
A invertire la rotta ci provano in tanti. Piccole realtà come la cooperativa sociale Pietra di scarto, nata 10 anni fa a Cerignola su un bene confiscato e che quest’anno ha inaugurato un piccolo laboratorio di trasformazione per la salsa di pomodoro. Colossi come il gruppo Princes, di proprietà della giapponese Mitsubishi: dal 2012 il ramo italiano possiede lo stabilimento per la trasformazione del pomodoro più vasto d’Europa, costruito non in Campania, ma a Foggia nel 2009. Dal 2018 la Princes accetta solo pomodoro da cooperative di agricoltori con certificazione etica sul trattamento dei lavoratori, ma nel 2016 l’azienda aveva sottoscritto un contratto con l’azienda agricola dove l’anno prima era morto Abdullah Muhamed, lavoratore sudanese che raccoglieva pomodori senza contratto, reclutato da un caporale. "All’epoca la società figurava tra i nostri fornitori, ma il campo in cui è morto il ragazzo non riforniva la Princes e quindi non era soggetto ai nostri controlli – si giustifica l’amministratore delegato Gianmarco Laviola –. Detto questo, noi non siamo la polizia, qualcosa può sempre succedere".
“Il rischio è che le imprese sfruttino il marchio NoCap per ripulirsi”Raffaele Falcone - segretario provinciale Flai-Cgil
"La verità è che qui le dovresti chiudere tutte le aziende – è l’amara considerazione di Raffaele Falcone, segretario provinciale della Flai-Cgil –. Le grandi imprese sono impossibili da controllare e il rischio è che utilizzino il marchio etico per ripulirsi". Francesco Strippoli, responsabile NoCap per la provincia di Foggia, ne è convinto: "Quasi tutte le imprese foggiane fanno o hanno fatto uso di caporalato, inteso in senso ampio come previsto dalla legge 199 del 2016: sfruttamento lavorativo, contratti fittizi, violazione delle norme di sicurezza. Non metterei la mano sul fuoco sul passato di nessuna azienda NoCap".
Il reato di caporalato, cos'è e come funziona
"L’obiettivo di NoCap non è andare alla ricerca impossibile dell’azienda immacolata, ma cambiare il sistema"Francesco Strippoli - Responsabile foggiano NoCap
Ma se anche chi si impegna per contrastare lo sfruttamento lavorativo alla fine si ritrova impigliato nelle maglie di un mercato malato, come uscirne? "Per fermare i caporali basterebbe un posto di blocco all’uscita dei ghetti. Non lo possono e non lo vogliono fare perché metterebbero in ginocchio l’intero sistema nazionale agricolo – sostiene il sindacalista Falcone –. L’indomani gli scaffali di tutta Europa si ritroverebbero senza ortaggi". Nei supermercati la passata di pomodoro si vende a 50 centesimi, a volte anche meno, sotto il costo di produzione. Gli addetti ai lavori la chiamano prodotto civetta: non porta profitto ma attrae i consumatori. Il supermercato guadagna con altri alimenti. Il produttore, invece, si trova costretto a comprimere al massimo i costi per ricavarne qualcosa. "L’unico costo comprimibile è il lavoro – afferma Strippoli –. Ecco perché l’obiettivo di NoCap non è andare alla ricerca impossibile dell’azienda immacolata, ma cambiare il sistema". Ovvero: pagare l’oro rosso al giusto prezzo.
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
In un calcio diventato industria, mafie ed estremismo di destra entrano negli stadi per fare affari
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti