8 aprile 2021
Il termine agromafie è, ormai da diversi anni, il cappello a cui vengono ricondotte tutte quelle attività dei clan mafiosi che colpiscono l’intera filiera agroalimentare, dall’azienda agricola fino al ristoratore o all’albergatore che utilizza i prodotti nella sua struttura. Un piatto ricco, trasversale a diversi settori economici, spartito tra Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta, con un peso crescente anche della criminalità foggiana. Un business redditizio, quindi, fotografato in modo chiaro dal VI Rapporto sui crimini agroalimentari dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, firmato Coldiretti ed Eurispes.
Nell’Italia del buon cibo, anche (e soprattutto) le mafie fanno affari d’oro con il settore agroalimentare ed enogastronomico. D’altra parte, il legame tra criminalità organizzata e mondo agricolo è di lunga data, quasi ancestrale. I primi mafiosi, nell’Italia della seconda metà dell’Ottocento, erano il braccio armato dei latifondisti, in prima linea nel perpetrare vessazioni contro i contadini. Nei decenni, il fenomeno si è espanso scalando diversi business e arrivando a infiltrarsi anche nella finanza. Le radici rurali, però, sono rimaste visibili e tangibili proprio in quell’insieme di pratiche criminali che va sotto l’etichetta di agromafie.
Oggi non c’è anello della filiera agroalimentare su cui le mafie non abbiano messo le mani. Tutto in agricoltura è occasione di speculazione. Dalle infiltrazioni nelle attività produttive, attraverso il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori, fino al controllo dei trasporti e della distribuzione, con la morsa mafiosa che stritola i mercati ortofrutticoli (come il Mof di Fondi, nella provincia laziale di Latina), affossa i piccoli produttori e impone le sue regole alla Grande distribuzione organizzata (Gdo). Dalla commercializzazione di prodotti contraffatti, che sfruttano e infangano la notorietà del made in Italy, allo smaltimento illegale di rifiuti che finiscono per intossicare i campi coltivati, come nell’ormai tristemente leggendaria terra dei fuochi. È così che le organizzazioni mafiose sono in grado di condizionare l’intero mercato enogastronomico, stabilendo i prezzi e riuscendo facilmente a riciclare denaro sporco.
Il primo gradino di questa filiera sporca è rappresentato dallo sfruttamento dei lavoratori agricoli e dai soprusi contro i piccoli e medi produttori agricoli (come furti di bestiame e macchinari, danneggiamenti, incendi). Agromafie e caporalato, infatti, sono due facce della stessa medaglia. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Flai-Cgil dedicato al tema, in Italia, nel settore agricolo, ci sono circa 450 mila persone che vivono in condizioni di sfruttamento lavorativo. Un fenomeno ampio, che racchiude dipendenti con contratto regolare che però non viene rispettato e lavoratori in nero, alcuni trattati come veri schiavi (circa 130 mila, secondo lo stesso report). D’altra parte, nella logica d’affari mafiosa, salari da fame e condizioni di lavoro disumane sono le leve principali per controllare i prezzi dei prodotti e lucrare sulla loro commercializzazione. Una speculazione che non si ferma davanti a nulla e che alimenta anche il traffico di esseri umani, come spiega lo scrittore e sociologo Marco Omizzolo. Un racket nel racket, su cui ha provato a intervenire la discussa sanatoria voluta da Teresa Bellanova, quando era ministra per le Politiche agricole, alimentari e forestali.
Per approfondire il tema dello sfruttamento del lavoro, ti consigliamo la lettura del nostro articolo sul reato di caporalato e l’approfondimenti di Marco Omizzolo sul Piano triennale di contrasto
Con il suo gigantismo, la grande distribuzione organizzata può imporre la sua volontà sui prezzi, strozzando tutta la filiera
Step successivo: dai campi alla distribuzione. I tentacoli delle agromafie riescono ormai a controllare il trasporto dei prodotti agricoli e la loro distribuzione dentro e fuori i confini nazionali. Stesso discorso per alcuni dei più grandi mercati ortofrutticoli d’Italia, come quelli di Fondi, Vittoria o Milano. Centinaia di società piccole e medie, intestate a uomini di fiducia dei diversi clan, si infiltrano con successo in ogni passaggio, forti della disponibilità di grandi somme di denaro e della capacità di contatto con altre aziende, di cui riescono a condizionare l’operato.
Dirimente, in questo meccanismo, anche l’ingranaggio rappresentato dalla Gdo. Per le sue caratteristiche intrinseche, la Grande distribuzione organizzata è porosa al riciclaggio di denaro mafioso illecito, come spiega il già citato Rapporto Coldiretti-Eurispes. Inoltre, il suo gigantismo (passa per la Gdo il 70% degli acquisti alimentari) la rende capace di imporre la propria volontà sui prezzi, strozzando tutta la filiera.
Altrettanto soffocante è la presenza della criminalità di stampo mafioso nel mondo del turismo e della ristorazione, sia privata (ristoranti) che collettiva (mense di ospedali, scuole, fabbriche, eccetera). I metodi utilizzati sono vari, dall’imposizione di fornitori amici all’acquisto diretto e ricattatorio delle attività, fino all’infiltrazione nelle gare pubbliche di appalto attraverso società controllate.
Attenzione all'italian sounding, la contraffazione di prodotti tipici del made in Italy come parmigiano e olio extravergine d'oliva
Tra le voci in attivo del bilancio delle agromafie non può essere dimenticata la contraffazione, che impatta anche sulla sicurezza alimentare. Le organizzazioni criminali controllano ampie porzioni di vendita all’estero del made in Italy, sia quello vero sia quello falso. Sono in mano ai clan, vere centrali di gestione del cosiddetto italian sounding, cioè prodotti il cui nome evoca l’italianità ma che non hanno nulla a che fare con i riferimenti originali. È il caso, per esempio, del parmesan, finto Parmigiano Reggiano venduto negli Usa, o del pompeian olive oil, contraffazione dell’olio d’oliva, sempre commercializzato negli Stati Uniti.
In questo excursus dentro gli affari delle agromafie, rimane da analizzare l’intreccio con il tema delle ecomafie e degli ecoreati. Controllare la filiera agroalimentare significa anche mettere le mani sul business dello smaltimento illecito dei rifiuti, estremamente redditizio. Le storie della terra dei fuochi in Campania e della sua variante pontina stanno lì a testimoniare il pericolo per l’ambiente e per la salute che questo controllo criminale comporta. Rifiuti interrati e roghi tossici, ma anche l’utilizzo di pesticidi illegali nelle coltivazioni. Attività che, secondo il dossier Legambiente sulle Ecomafie, nel 2019 ha portato alla contestazione di 268 illeciti penali e amministrativi.
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Per l'Osservatorio sulla criminalità nell'agricoltura, le agromafie fatturano 24,5 miliardi annui, pari al 10% del Pil criminale italiano
Quanto vale il giro d’affari delle agromafie in Italia? I conti in tasca alla criminalità organizzata prova a farli, ogni anno, l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. L’ultimo documento, riferendosi al 2019, parla di un fatturato pari a 24,5 miliardi annui, cioè il 10 per cento di tutto il Pil criminale italiano. Il balzo in avanti registrato, rispetto al 2018, è addirittura del 12,4 per cento. Cifre che rivelano un business tristemente in salute e che sono confermate anche sul fronte dei sequestri operati dalla Guardia di Finanza che, nel biennio 2017-2018, ha sigillato “2 miliardi di euro, (…) beni immobili, allevamenti, servizi commerciali e aziende agricole, marchi e terreni, partecipazioni varie, automezzi per uso civile e da trasporto, supermercati, società di import-export”.
Dentro questo fiume in piena ci sono molti soldi pubblici. Quelli dei fondi europei per l’agricoltura, ad esempio, su cui i clan riescono a mettere le mani controllando le aziende agricole. O quelli dei già citati bandi pubblici per l’assegnazione di appalti di fornitura nei settori della ristorazione collettiva e, in generale, dell’enogastronomia.
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Il rapporto prosegue disegnando un quadro a tinte fosche, in cui le agromafie appaiono ormai in grado di esprimere una “governance multilivello (...) fondate sui princìpi di sussidiarietà, di proporzionalità e di partenariato tra specializzazioni, territori e campi di azione diversi”. Le organizzazioni criminali dimostrano di saper fare sistema molto più del tessuto produttivo legale. “Sempre più interessate a sviluppare affari in collaborazione che non a combattersi – sottolineano Coldiretti ed Eurispes – intrecciano i percorsi delle diverse mafie a livello transnazionale; condividono poteri e canali di comunicazione; esercitano sotto traccia azioni di lobbying e di condizionamento sulla politica e le istituzioni; partecipano al capitale di banche, istituzioni finanziarie, fondi internazionali, società editoriali e canali televisivi; esercitano una costante presenza sul web, producendo informazioni interessate, o sul dark web, promuovendo gli affari più sporchi ed oscuri”.
La complessità del fenomeno e la sua trasversalità rispetto ai settori colpiti richiede una risposta altrettanto articolata. I fronti da tenere insieme sono molti. C’è il tema del lavoro, connesso con lo sfruttamento di manodopera a basso costo e quindi intrecciato con la gestione dei flussi migratori. C’è la necessità di liberare i vari segmenti produttivi coinvolti dalla soffocante cappa mafiosa, impedendo che diventino centri di riciclaggio. Ci sono da tutelare le esigenze dell’ambiente e della salute, che spesso vengono a sovrapporsi e coincidere. Infine, c’è da proteggere culturalmente ed economicamente il made in Italy enogastronomico.
Sul fronte del caporalato, passi avanti sono stati fatti con l’approvazione del piano triennale di contrasto a questo reato. Si tratta, però, solamente dell’inizio del tragitto ed è necessario non perdere il passo. Nello studio Coldiretti-Eurispes, Gian Carlo Caselli, magistrato da anni in campo contro le agromafie, e Gian Maria Fara, sottolineano positivamente anche il ruolo del nuovo codice antimafia. Il testo, secondo i due esperti, “prevede importanti misure normative e procedurali anche contro le agromafie e il caporalato, rilevandone, ad esempio, la natura mafiosa e cogliendo aspetti centrali di tale fenomeno". Anche in questo caso, quindi, l’orizzonte è tracciato ma resta da continuare il cammino.
La lotta per la trasparenza della filiera che collega produttore e consumatore, invece, può trovare solidi alleati tra le nuove tecnologie. È il caso della blockchain, che potrebbe consentire la creazione e gestione di un database condiviso, con tutte le informazioni rilevanti sul singolo prodotto e sulla sua storia. Informazioni che potrebbero poi finire riversate in etichette digitali contenute dentro dei Qr code. Uno strumento semplicissimo che, attraverso uno smartphone, consentirebbe al consumatore finale di conoscere l’intero iter attraversato da ciò che sta acquistando. Infine, la battaglia contro la contraffazione, che è necessariamente multicanale, perché va combattuta sia nel mondo reale che in quello virtuale, magari stringendo accordi con i grandi player dell’e-commerce.
Molte speranze di chi ha a cuore la lotta alle agromafie sono riposte nel ruolo che potranno svolgere le nuove norme contro i reati agroalimentari, contenute in un disegno di legge fermo in Parlamento già da alcuni mesi. Si tratta del testo che raccoglie le istanze elaborate dalla cosiddetta Commissione Caselli, istituita al Ministero della Giustizia e presieduta proprio dall'ex procuratore capo di Palermo e Torino. La Commissione ha iniziato il suo lavoro a inizio del 2015, consegnando le conclusioni nell’ottobre dello stesso anno. È seguito un lungo silenzio, interrotto solo nel novembre 2020, quando il Consiglio dei ministri ha approvato il Ddl 283, rubricato “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”, dando concretezza a quell’impegno.
Tre sono gli obiettivi fondamentali della riforma:
integrare il Codice penale con nuove fattispecie di reato;
Integrare il Codice di procedura penale;
armonizzare e attualizzare la normativa generale in materia di reati agroalimentari.
Tra i nuovi reati previsti, spiccano quello di disastro sanitario, di immissione nel mercato di prodotti potenzialmente nocivi e di agropirateria. Quest’ultima, in particolare, finirebbe per ricomprendere i casi di contraffazione dei marchi di qualità, delle etichette, dei documenti di accompagnamento, così come la simulazione di prodotto biologico. In generale, l’impianto della riforma appare fortemente orientato ad un lavoro di prevenzione, più che di sanzione “a posteriori”. Punta, cioè, a dare alle imprese i giusti strumenti di controllo interno, che possano funzionare anche come dispositivi protettivi contro infiltrazioni illecite. Nella convinzione che conoscenza e trasparenza siano armi davvero efficaci contro le ecomafie.
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