Yvan Sagnet: "Se è bio non è detto sia anche NoCap"

A quasi un anno dall'approvazione del primo Piano nazionale contro il caporalato, il sindacalista simbolo del riscatto dei braccianti in Italia fa il punto sulla situazione, a partire dalla richiesta di una riforma urgente dei centri per l'impiego

Marika Demaria

Marika DemariaGiornalista

31 dicembre 2020

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Yvan Sagnet, camerunense 35enne giunto in Italia nel 2008 per studio e finito nel 2011 nelle mani dei caporali, negli anni è divenuto il simbolo del riscatto dei lavoratori braccianti nelle campagne di tutta Italia e della lotta al caporalato. Dalla prima protesta di africani organizzata nel 2011 a Nardò, in provincia di Lecce, alla fondazione nel 2017 dell’associazione internazionale NoCap, molto è cambiato nella sua storia e in Italia: dal 2011 esiste il reato di caporalato e lo scorso febbraio è stato approvato il primo Piano nazionale contro lo sfruttamento e il caporalato in agricoltura. Molto però deve ancora essere fatto, a partire dall’unione, affatto scontata, di due diritti fondamentali: quelli umani e quelli della Natura.

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Com’è nata NoCap?

Dalla protesta si è arrivati alla proposta. Siamo partiti dal presupposto che il caporalato è lo sfruttamento in generale, funzionale al modello economico che ha incentrato il potere nella Grande distribuzione organizzata (Gdo). Sono loro i veri caporali, poiché attuano meccanismi perversi del mercato applicando un prezzo unilaterale ai prodotti acquistati dagli agricoltori: 9 centesimi al chilo per i pomodori del contadino di Foggia, nemmeno 7 centesimi al chilo per le arance di Rosarno. È in questo punto della filiera che noi abbiamo deciso di intervenire, agganciando Megamark, una catena di supermercati che opera nel Mezzogiorno. Abbiamo contattato gli agricoltori e, insieme con loro, abbiamo ricostruito il giusto prezzo. Attraverso la rete NoCap sfidiamo i caporali: preleviamo le persone dai ghetti, le impieghiamo con contratti regolari, diamo loro una degna sistemazione per merito di un’alleanza sui territori con realtà come i Valdesi e la Caritas. In un anno, sono stati 480 i lavoratori liberati.

I prodotti al momento sono distribuiti al Sud grazie a Megamark e da ottobre anche a Nord-Est tramite Despar. È ipotizzabile una copertura di tutto il territorio italiano?

Con queste due realtà, che si sono dimostrate sensibili alla tematica, stiamo costruendo un nuovo modello di mercato. Ci vorrà molto tempo. Scegliamo con cura i nostri partner, evitando strumentalizzazioni. Tuttavia, non escludiamo collaborazioni con la Gdo. Ribadisco la mia posizione rispetto al suo ruolo nel mercato dell’agricoltura, ma siamo consapevoli che sono anche e soprattutto i grandi marchi di catene che hanno l’opportunità di accogliere i lavoratori che sottraiamo ai ghetti. Una situazione che ci permette di incidere dall’interno, auspicando una presa di coscienza del fenomeno dello sfruttamento anche da parte della Gdo.

Uno dei furgoni del progetto NoCap
Uno dei furgoni del progetto NoCap

C’è un interesse verso il progetto da parte dei consumatori?

È chiaro che la risposta all’intuizione di NoCap è positiva grazie alle scelte del consumatore, accompagnato verso una scelta responsabile dei prodotti, sollecitato a porsi domande critiche quando si trova di fronte a prodotti ortofrutticoli venduti a prezzi ridicoli. Tuttavia, la crisi economica costringe migliaia di cittadini, seppur consapevoli e con un senso etico, a scegliere il prodotto più economico.

È realistico tenere assieme biologico e NoCap in un’unica filiera?

In questi anni il tema del biologico è stato strumentalizzato. I nostri prodotti sono biologici e con il bollino etico, ma il cibo biologico non è automaticamente anche etico. Sarebbe significativo costruire un sistema intorno al biologico capace di far nascere un modello di cibo che unisca aspetti ambientali e sociali.

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A febbraio è stato approvato il primo Piano nazionale contro lo sfruttamento e il caporalato in agricoltura. A distanza di quasi un anno, dove si è riuscito a incidere maggiormente e quali lacune rimangono?

"Occorre una drastica riforma dei centri per l'impiego che in alcune aree sono stati sostituiti dai caporali"
Yvan Sagnet

Difficile fare un bilancio, specie tenuto conto della particolarità di quest’anno, caratterizzato dalla pandemia. Tutte le soluzioni sperimentate finora non sono state incisive, lo dico senza polemica. Occorre una drastica riforma del mercato del lavoro, partendo da una riorganizzazione dei centri per l’impiego. In alcune aree sono stati sostituiti dai caporali. Questo è inammissibile. La legge 199 del 2016 è stata un passo in avanti, ma va completata e attuata nella sua totalità. La legge sulle aste al doppio ribasso giace invece in fondo a un cassetto del Senato, dopo essere stata approvata alla Camera. Infine, è doveroso interrogarsi sulla destinazione del Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) erogato attraverso il piano triennale che terminerà nel 2022.

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Quando dal Camerun è partito per raggiungere l’Italia, aveva previsto di poter finire vittima dei caporali?

"Il giorno in cui sono entrato nella baraccopoli, mi sono chiesto se fossi ancora in Italia: in Camerun non avevo mai vissuto in simili condizioni"

Ovviamente no. Sono arrivato in Italia per motivi di studio, ma dopo aver perso la borsa di studio sono stato costretto a cercare lavoro. Tramite passaparola sono arrivato a Nardò, ignaro di ciò che avrei vissuto. Il 15 luglio 2011 è per la mia vita la data spartiacque. Quando sono stato portato all’interno della baraccopoli, mi sono chiesto se fossi ancora in Italia. Al mio Paese non avevo mai vissuto in simili condizioni: senza acqua, luce, gas. 1.200 persone con cinque bagni in condizioni igieniche raccapriccianti. Qualsiasi genere necessario era in vendita: cibo, prodotti per l’igiene, posto letto, persino la possibilità di ricaricare il cellulare aveva un costo di 50 centesimi. Io ero impiegato a cottimo nella raccolta dei pomodori: 14 ore di lavoro per 12/14 euro giornalieri. Così, dopo cinque giorni dal mio arrivo, mi sono ribellato. Per due mesi, abbiamo bloccato la produzione di pomodori.

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Se affrontasse quel viaggio oggi, quali situazioni pensa incontrerebbe?

Voglio sottolineare che reputare lo sfruttamento un fenomeno connesso esclusivamente all’immigrazione è un errore. In Italia, i lavoratori italiani sfruttati sono migliaia. I braccianti vengono impiegati in Capitanata per la raccolta dei pomodori, a Rosarno per la raccolta degli agrumi, in Sicilia per la raccolta delle patate. Ma anche nelle zone del Chianti e del Piemonte per le vendemmie. Rispetto a qualche anno fa, la mappa dell’Italia che sfrutta e che viene sfruttata non è migliorata. Le possibilità per cambiare esistono, trasformando il commercio equo, solidale, etico da mercato di nicchia a mercato diffuso. Ci vorranno anni, ma il nostro obiettivo è liberare tutti i lavoratori vittime di sfruttamento.

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