13 marzo 2020
Mentre l’emergenza sanitaria da Coronavirus definisce nuove priorità e ci richiama alla comune responsabilità di restare tutti a casa, resta nel silenzio il controcanto di chi una casa non ce l’ha. È ciò che stanno vivendo i migranti, la maggior parte irregolari in seguito ai decreti sicurezza, che abitano le campagne e i ghetti della Piana di Gioia Tauro in Calabria.
Secondo Mediterranean Hope, il programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche, “quella degli insediamenti informali rappresenta una popolazione ad alto rischio” impossibilità ad adottare “le misure basilari per la prevenzione del contagio, prima tra tutte il lavaggio di mani e abiti”. Qui dove “i braccianti si trovano a convivere in gran numero in spazi angusti, privi di validi sistemi di riscaldamento e di aerazione”, un contagio “sarebbe difficilmente controllabile e impossibile da gestire da parte del servizio sanitario locale”. Con l’operatore Francesco Piobbichi siamo andati a vedere come si preparano all’emergenza.
Si è soliti dire che la sofferenza più acuta copra, ma non cancelli, quella più lieve. Così è anche per le paure, le emergenze, i decreti. In questo esatto ordine. Corre l’obbligo di “rinunciare tutti a qualcosa per tutelare la salute dei cittadini. Oggi è il momento della responsabilità”. Il premier Giuseppe Conte scandisce chiare queste parole mentre si appresta a sottoscrivere una misura – recita l’articolo 1 – necessaria “allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19” e a estendere così le misure all'intero territorio nazionale. Io resto a casa diviene mantra e nomenclatura: è il momento della responsabilità. Ma come ben evidenziato dall’associazione Binario 95 – che ha lanciato la campagna #vorreirestareacasa ripresa da molte associazioni lungo tutto lo stivale – “la misura non tiene conto di chi una casa non ce l’ha, delle difficili condizioni che le persone senza dimora e i servizi di accoglienza sono chiamati a fronteggiare”.
Tra questi invisibili ci sono le centinaia di migranti che hanno visto tradito il loro sogno di accoglienza. Dispersi per le campagne e i ghetti della Piana di Gioia Tauro, braccianti agricoli senza tutele la cui quarantena, per così dire, è stata indotta tempo addietro da decreti altri e in forma più stringente. Anche allora qualcuno parlava di “casa” dove tornare, ma era la “loro”. Chi tutela queste persone in un momento così delicato?
“La Piana di Gioia Tauro è come un girone dantesco”. Parola di Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope. In questi giorni si è messo a produrre in casa amuchina: lo accompagniamo mentre si sposta per distribuire il gel disinfettante nei vari accampamenti, insieme a Ibrahim Diabate, un altro operatore.
A San Ferdinando la situazione è precaria da ben prima dell’arrivo del coronavirus, nonostante lo sgombero avvenuto il 6 marzo 2019. L’esempio lampante è quello dei moduli bagni e dei container igienici che “non sono attrezzati per lunghi periodi, come anche le fognature, pensate per la zona industriale”, racconta il sindaco Andrea Tripodi.
Proprio il Comune di San Ferdinando, anche attraverso molte delle associazioni e dei soggetti che vivono nella Piana, si è mobilitato per far fronte all’emergenza sanitaria in atto. Il gel igienizzante consegnato basterà per i prossimi giorni. “Abbiamo anche disposto una igienizzazione di massima dei moduli bagno – spiega Tripodi –. Non possiamo fare molto, ma nella misura in cui è possibile stiamo cercando di tutelare i ragazzi”. È preoccupato, il sindaco. Come molti, per i contagi che interessano tutto il Paese. Come pochi, per la precaria situazione delle circa 400 persone che oggi abitano la tendopoli. “Ho chiesto questa mattina in prefettura l’invio di una tenda e un modulo igienico dedicato per avere la possibilità di isolare gli eventuali casi di contagio. Sensibilizzare al rispetto delle basilari norme igieniche e di prevenzione, mai come ora è vitale”.
Mentre viaggiamo nella Piana incontriamo alcuni ragazzi in bicicletta, molti diretti nei campi. Il nuovo decreto prescrive di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche a eccezione di quelli motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità, (per esempio motivi salute)”. Molti lavoratori, del pubblico e del privato, in questi giorni rimangono a casa. Quelli che non possono, sono ammessi a circolare se autocertificano il motivo del loro spostamento. Ma tra i migranti della Piana l’unica àncora di salvezza è il lavoro nero: quello che non ammette tutele, diritti, dignità. E che di certo non si può autocertificare. “Va preso spunto da questo momento – sostiene Piobbichi – per comprendere la necessità di creare una rete di lavoro sana anche e soprattutto in queste zone”.
"Il coronavirus non fa distinzione tra bianchi e neri, ma nei ghetti la situazione è ancora più precaria"Francesco Piobbichi - Mediterranean Hope
All’arrivo degli operatori non c’è nessuno. Il primo ad avvicinarsi è Mohamed, dapprima con un po’ di timidezza, a piccoli passi. Poi tende la mano per stringercela, ma ha un sussulto: sa che in questo periodo non si può. Scoppia a ridere e si scusa. Non è giovanissimo, a differenza degli altri ragazzi che di lì a poco lo seguono, è uno dei soggetti più a rischio in caso di contagio. Gli operatori spiegano come funzionerà l’erogatore, le regole, e la necessità di rispettarle. “È una malattia che riguarda tutti. Non fa distinzione tra bianchi e neri. Solo oggi ci sono stati tre nuovi casi anche in Burkina Faso – sottolinea Piobbichi – e sapete che lì la situazione è molto più difficile da gestire”. “L’azione di distribuire il gel ha anche uno spirito di denuncia – continua –. Siamo consapevoli che di per sé non basti per tutelare la salute di questi ragazzi. In alcuni accampamenti è stata tolta perfino l’acqua e questa situazione accentua la vulnerabilità e il disagio di chi ci vive”. Il problema sta alla base, nella logica del ghetto: distribuire il gel igienizzante significa ricordare a tutti che anche in quelle zone, invisibili negli anfratti della Piana, esistono delle persone. “Il Governo deve intervenire su tutti i ghetti del Sud iniziando a smontarli nel diritto e non a sgomberarli. Bisogna restituire a questi ragazzi il diritto di avere una dignità”.
Ce lo avevano anticipato, gli operatori, che tra i tanti gironi di questo inferno il peggiore l’avremmo scoperto a Taurianova. “Qui sono finite molte persone che hanno visto fallire i propri progetti migratori. Per loro questa è l’unica accoglienza possibile”. Non è facile chiedere loro di restare a casa o di rispettare le distanze: quei luoghi difettano finanche del minimo spazio vitale. Tantomeno, si può chiedere loro di lavare accuratamente le mani per un tempo non inferiore ai 25 secondi: “Qui non arriva più l’acqua. È stato scoperto un allaccio abusivo da parte del fornitore e l’erogazione è stata chiusa”. L’unica fonte è stata messa a disposizione da un privato e si trova a circa 500 metri dall’accampamento. I ragazzi trasportano l’acqua in taniche da circa tre litri. Troppo poco. “Insieme ad altre associazioni tra le quali Medu, in un tavolo col Prefetto, gli enti e le altre autorità locali, abbiamo chiesto anche di riallacciare l’acqua qui a Taurianova”. Ma basta guardarsi intorno per comprendere che con o senza acqua, finché ci saranno persone relegate a quella condizione abitativa, per loro una vera e propria prevenzione contro patologie anche meno invasive del Covid-19 è impossibile.
Qui non arriva nemmeno più l'acqua e manca anche il minimo spazio vitale: come rispettare le norme di prevenzione?
L’epidemia che attraversa il territorio da Nord a Sud chiede di rinunciare al nostro ordinario stile di vita e di spostare l’asticella delle priorità sulla prevenzione per limitare il boom dei contagi e il conseguente collasso del sistema sanitario regionale. Per il resto, i vecchi problemi rimangono lì dov'erano, ancora più ignorati e lontati da quelle mura domestiche dove ci viene chiesto – finanche imposto – di rimanere.
I migranti delle baraccopoli della Piana di Gioia Tauro – come molti altri braccianti tanto nelle campagne del Sud quanto in quelle del Nord – sono spesso vittime di caporalato. Per questo, lo scorso 20 febbraio è stato approvato il primo Piano triennale di contrasto allo sfruttamento in agricoltura e al caporalato
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