21 febbraio 2022
I passaggi di quote di società possono rivelare infiltrazioni criminali nell’economia. Almeno un quarto dei nuovi titolari di ristoranti e alberghi a Reggio Emilia, Latina, Cosenza e Trapani ha precedenti penali per reati fiscali o truffe sui fondi pubblici. Semplici speculatori o c’è dell’altro? A due anni dall’inizio della pandemia, lo chiediamo al prefetto Vittorio Rizzi, vicecapo della Polizia di stato e coordinatore dell’organismo che monitora il rischio di infiltrazione mafiosa nell’economia, creato sotto il ministero dell’Interno proprio per «intercettare i sintomi e le tendenze criminali» dall’inizio dell’era covid. «La mafia si è fatta impresa», spiega Rizzi, e mira alla finanza globale, per questo l’Italia punta a migliorare la collaborazione e lo scambio di informazione con gli altri Stati, soprattutto nel periodo dello stanziamento di fondi e dei progetti del NextGenerationEu.
La criminalità è cambiata con la pandemia?
Direi che si è adattata al cambiare delle situazioni. All’inizio anche le organizzazioni criminali hanno dovuto fare i conti con la pandemia, con le restrizioni alla libertà di movimento e coi pericoli dell’esposizione del contagio. Le loro attività sono diminuite, i reati sono calati fino al 70 per cento, mentre sono rimasti piuttosto alti i reati sul web. È una circostanza fisiologica dovuta, da un lato, alla digitalizzazione della vita e dall’altra all’impossibilità di delinquere nella vita reale. La pedopornografia online è esplosa nel mondo, mentre i crimini violenti sono calati, con una forte controtendenza negli Stati Uniti. Il narcotraffico era in stallo ed era impossibile ricevere droga dai paesi produttori, come la cocaina dal Sudamerica, e così i vari cartelli di narcos si sono trovati di fronte a due situazioni: da una parte, l’accumulo di ingenti quantitativi e il rischio di sequestri; dall’altra, una forte domanda che non poteva essere soddisfatta, col relativo aumento dei prezzi delle scorte in esaurimento. Quando le restrizioni, non solo in Italia, si sono allenate, la situazione è cambiata.
L’impegno nostro e degli investigatori stranieri è far sì che i soldi del Pnrr non arrivino alla criminalità organizzata
Oggi a che punto siamo?
La criminalità si è riassestata. Ciò che determinava un forte squilibrio erano i lockdown e la difficoltà di spostamento. Mentre su altri versanti per la grande criminalità la pandemia è stata un’opportunità. La covid economy ha fatto sì che una parte dell’economia del paese fosse in profonda crisi e un’altra avesse grandi spazi di manovra: pensiamo al settore dell’alimentazione, dei dispositivi di protezione individuale, dei servizi funebri, dello smaltimento dei rifiuti, in particolare quelli sanitari. La criminalità si è spostata sui settori più attrattivi con il valore aggiunto di operare fuori dalle regole del mercato.
Dai vostri focus emerge con chiarezza l’aumento dei reati informatici.
Da un’analisi sulle truffe, uno dei reati più numerosi, abbiamo visto che nel 2021 il 65,9 per cento di quelle denunciate è avvenuta online.
La criminalità si è spostata sui settori più attrattivi con il valore aggiunto di operare fuori dalle regole del mercato
Oltre alle truffe, ci sono stati anche casi di ransomware, sottrazione di dati ad aziende pubbliche e private e richieste di riscatto.
Nessuno, però, ha mai pagato, quindi l’azione di prevenzione e contrasto ha funzionato.
Il vicecapo della Polizia: "Attenti a quei fondi"
Cosa avete potuto osservare rispetto al tessuto imprenditoriale?
Abbiamo verificato se c’erano stati dei passaggi di aziende alla criminalità organizzata. Abbiamo fatto dei “carotaggi” in alcune città italiane del Nord, del Centro, del Sud e delle Isole. È emerso questo: il 25 per cento delle imprese del settore dell’ospitalità e della ristorazione è finito in mano a soggetti che, se fossero passati al vaglio dei controlli, avrebbero ricevuto un’interdittiva antimafia. Per dirla con altre parole, il 25 per cento di queste società sarebbe “in odore di criminalità organizzata”. Non siamo in grado di stimare se sia un dato in aumento rispetto ad altri periodi diversi perché non abbiamo valori di riferimento. Inoltre abbiamo osservato un aumento delle interdittive antimafia, non per un aumento del livello di infiltrazioni mafiose nell’economia, ma perché è aumentato il lavoro delle prefetture durante l’emergenza.
In quel 25 per cento di nuovi proprietari, moltissimi avevano precedenti per truffe sull’erogazione di fondi pubblici o per reati fiscali. Chi ha tratto più vantaggi: una criminalità di tipo economico o di tipo mafioso?
Un recente studio ha messo in evidenza che i reati sulla corruzione sono commessi da imprenditori oppure da mafiosi. La chiave di lettura è che la mafia si è fatta impresa. Fa affari perché ha molta liquidità e deve cercare mercati in cui investire, perché non esaurisce le proprie potenzialità nell’ambito italiano e quindi deve espandersi su mercati esteri. Qui trova nuove opportunità di crescita e investe in capitale sociale: relazioni, capacità di infiltrarsi nel tessuto economico, sociale, amministrativo.
Insomma, la mafia deve modularsi.
Cambia completamente il paradigma. Quando si fa impresa punta a entrare nei fondi di investimento, a partecipare all’acquisto dei non performing loans (crediti deteriorati, difficili da recuperare. La loro compravendita è uno strumento di investimento e di riciclaggio, ndr). Non si parla più di usura ed estorsioni.
Ai non performing loans avete dedicato un breve focus all’inizio della pandemia. Avete osservato evoluzioni?
In alcune indagini, ancora coperte da segreto investigativo, abbiamo individuato segnali che ci inducono a ritenere la nostra analisi non molto lontana dalla realtà.
Quindi gli allarmi lanciati agli inizi della pandemia stanno trovando conferme?
Alcuni allarmi non hanno avuto riscontro, ad esempio le prime preoccupazioni sul welfare mafioso. Il reato di usura è rimasto grossomodo nei valori statistici: forse è un fenomeno molto sommerso, ma non abbiamo avuto picchi di crescita nelle denunce. Il convincimento che i grandi capitali mafiosi vadano verso l’estero per gli investimenti sembra confermato. Il covid, però, non c’entra nulla, fa parte delle logiche evolutive della criminalità organizzata.
Per le forze dell'ordine rimane fondamentale lo scambio di informazioni
A settembre, in occasione del Law enforcement forum sul NextGenerationEu, un incontro tra le forze di polizia europee, avete parlato di indagini su 36 società con capitali mafiosi costituite in undici Stati esteri. Che tipo di imprese sono?
È oggetto di approfondimento e non posso soffermarmi. Vorrei però sottolineare che è fondamentale poter scambiare tra Stati le informazioni sulle società. Noi potremmo trovarci di fronte a società costituite all’estero dai mafiosi italiani e queste potrebbero sfuggire ai nostri radar. Questo tipo di approfondimento è possibile soltanto se realizziamo un meccanismo di scambio informativo con le altre forze di polizia all’estero e soprattutto se ci troviamo di fronte colleghi esteri consapevoli dei rischi e della minaccia rappresentata. Quando su un mercato arrivano capitali e società dall’estero, ciò che conta è la liquidità. Se poi però con quei soldi, una volta investiti, si creano imprese che operano fuori dalle regole del mercato, il mercato resta strozzato da questa competizione irregolare. Porteremo questo tema al prossimo incontro all’Aja, il secondo Law enforcement forum sul NextGenerationEu.
Quando su un mercato arrivano capitali e società dall’estero, ciò che conta è la liquidità
Quindi c’è molta attenzione sui fondi europei e sul Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Sì, da parte nostra e degli investigatori stranieri. Il nostro impegno è far sì che quei soldi non arrivino alle mafie.
Il Pnrr prevede una semplificazione normativa che talvolta conduce a minori controlli. È un rischio?
Il governo sta conducendo un percorso di semplificazione che è inevitabile: le premesse per avere meno corruzione e più trasparenza si basano su regole semplici e certe.
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