Bambino segue le lezioni in didattica a distanza. Credits: Annette Riedl/Getty Images
Bambino segue le lezioni in didattica a distanza. Credits: Annette Riedl/Getty Images

Le silenziose lezioni del lockdown

L'isolamento casalingo dovuto alla pandemia ci ha messo faccia a faccia col tempo, cosa che sgomenta chi non riesce più a controllarlo e pianificarlo

Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli AnibaldiScrittore

Aggiornato il giorno 2 gennaio 2021

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Il lockdown appena concluso ha ispirato, diciamo così, una messe di riflessioni. Discorsi dai toni solenni, pretenziosamente filosofici, che hanno inteso celebrare l’inquietante e lo straordinario, le opportunità conoscitive o anche soltanto ricreative che quel tempo inedito celava e a volte offriva su un vassoio d’argento. Ecco, iniziamo dal tempo. Un topos di quei discorsi era che il lockdown aveva inaugurato un tempo strano: lento, quasi immobile, eppure difficile da riempire. Tempo sospeso di un’attesa dalla durata incerta, vaghezza che influiva giocoforza sugli stati d’animo: se ci si pensava troppo, l’attività quotidiana ne risultava appesantita, come impedita, e lo stesso respiro tradiva un principio d’affanno che ne intralciava l’automatica scansione, facendo assumere al lockdown la sinistra sembianza dell’apnea, del logorante esilio in una regione estranea, non solo straniera.

Ebbene il tempo non ha subìto alcuna variazione. Se è parso sospeso o addirittura immobile è solo perché l’impossibilità di fare freneticamente e automaticamente non ci ha permesso come al solito di divorarlo. Detto altrimenti: il lockdown ci ha messo faccia a faccia col tempo, cosa che sgomenta chi, ignorando d’essere lui stesso tempo, non riesce più a controllarlo e pianificarlo, fuori dalla rassicurante gabbia in cui si svolgono di solito le sue giornate. Per costoro il lockdown è stato una gabbia fluida che sfuggiva da tutte le parti, inquietante e indifendibile come quella descritta da Kafka nel meraviglioso racconto Der Bau, La tana.

Leggi gli articoli della rubrica "L'altro in noi" di Fabio Cantelli Anibaldi

Il tempo verticale, quello della meditazione

Il tempo verticale profuma di eternità, un tempo di meditazione e di attenzione, cioè dell'atto consapevole

Ma cosa bisognava fare per conciliarsi col quel tempo insolito e refrattario all’ordine? Non molto, in realtà, anzi quasi nulla: mettere a tacere la chiacchiera interiore e abbandonarsi all’inazione, concetto chiave della sapienza orientale su cui tornerò in seguito. Per ora mi limito a dire che l’inazione permette di scoprire un terzo tempo, diverso da quello lineare e progressivo che scandisce le nostre azioni e misura le nostre giornate – accordandole a quelle degli altri – ma diverso pure da quello circolare e ciclico raccontato da certi miti e cosmogonie. Per terzo tempo intendo un tempo verticale. Tempo verticale è l’esperienza del tempo, non il suo concetto ma il suo evento. È il tempo istantaneo che ci passa continuamente davanti (e attraverso) senza che ce ne accorgiamo, è l’attimo che è fuggente solo per chi s’illude di afferrarlo. Siamo noi, quel tempo (se una cosa mi parve stonata, della strabiliante opera di Heidegger, fu il titolo Essere e tempo. Perché non Essere è tempo?). E ancora: tempo verticale è quello di un passato sempre presente e di un presente che profuma d’eternità. Tempo che ha permesso a Proust di scrivere La Ricerca del tempo perduto, tempo, infine, della meditazione e della contemplazione. E se queste due parole vi paiono troppo alte e alate, eccone una terza più umile che le equivale: il tempo verticale è il tempo dell’attenzione, cioè dell’atto consapevole, che si osserva nel proprio fare.

"Non siamo soggetti delle azioni ma soggetti alle azioni", ha scritto Carlo Sini. Questo l’Oriente l’ha capito meglio e più a fondo di noi.

La parola atto designa qui ogni genere di attività: dal respirare allo sbattere le palpebre, dal costruire un ponte allo stringere una mano, dall’annotare la spesa allo scrivere le Elegie Duinesi. Ed eccoci arrivati al fare, altro tema capitale di cui il lockdown ha sussurrato segreti e contraddizioni. Noi non possiamo fare a meno di fare. Non possiamo perché siamo vita attiva dall’istante in cui usciamo dal grembo materno a quello in cui esaliamo l’ultimo respiro. Destino pragmatico sintetizzato in modo definitivo da un grande filosofo: "Non siamo soggetti delle azioni ma soggetti alle azioni", ha scritto Carlo Sini. Questo l’Oriente l’ha capito meglio e più a fondo di noi. Quando parlavo d’inazione mi riferivo a un concetto che il tronfio e stupido Occidente – misurando tutto sulla base dell’io – scambia per fare nulla, mentre inazione è fare con attenzione, cioè con scrupolo e dedizione, con quell’adesione che non esclude l’osservazione e la possibilità di correggersi.

Se una cosa m’irritava, durante i mesi del lockdown, era la quotidiana proposta, su giornali, web e televisioni, di cose da fare (...). Profferta che rispondeva al bisogno universale di riempire con profitto e se possibile buonumore il tempo lento

La sapienza orientale ha capito che è il come a determinare il cosa: un’azione ben fatta impedisce di commetterne altre stupide, sciatte o malvagie. E l’azione ben fatta – dice la Baghavad Gita – è quella capace di staccarsi dai frutti dell’atto. Cioè l’azione che non bada all’interesse, allo scopo, perché si giustifica da sé, che non chiede né gloria né riconoscimenti, per non dire vantaggi materiali. Siamo lontani mille ere da tutto questo. Per noi il cosa viene sempre prima del come: il fine giustifica i mezzi, e se sono mezzi orribili o persino violenti, pazienza. Se una cosa m’irritava, durante i mesi del lockdown era la quotidiana proposta, su giornali, web e televisioni, di cose da fare: libri da leggere, musiche da ascoltare, film da vedere, piatti da cucinare, ginnastiche da eseguire. Profferta che rispondeva al bisogno universale di riempire con profitto e se possibile buonumore il tempo lento nel quale eravamo finiti. Ogni volta ho provato un moto di rabbiosa insofferenza.

Finito il lockdown si parla adesso di ripartenza, rilancio e altri rassicuranti ri. Ma su quali basi? Cosa ci si può aspettare da un’umanità che ha un rapporto proprietario col tempo e non sa fare nulla che non sia utilitaristico, nulla che non rientri nella misera contabilità dell’io? Ecco dunque la mia lista di cose da fare: leggere la poesia I giusti di Jorge Luis Borges e riflettere, oltre che sull’aforisma di Nicolás Gómez Dávila posto in esergo, su due micidiali pensieri di Pascal. Il primo prefigura la temo vana lezione del lockdown: "Tutta l’infelicità degli uomini viene da una cosa sola: non sapersene stare in pace in una camera". Il secondo, temo ancor più, la direzione e l’andamento della fase due, tre eccetera: "Corriamo spensieratamente verso l’abisso, non prima di aver messo qualcosa tra noi e lui per impedirci di vederlo".

Da lavialibera, n° 3 maggio-giugno 2020

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