Aggiornato il giorno 2 gennaio 2021
Il lockdown appena concluso ha ispirato, diciamo così, una messe di riflessioni. Discorsi dai toni solenni, pretenziosamente filosofici, che hanno inteso celebrare l’inquietante e lo straordinario, le opportunità conoscitive o anche soltanto ricreative che quel tempo inedito celava e a volte offriva su un vassoio d’argento. Ecco, iniziamo dal tempo. Un topos di quei discorsi era che il lockdown aveva inaugurato un tempo strano: lento, quasi immobile, eppure difficile da riempire. Tempo sospeso di un’attesa dalla durata incerta, vaghezza che influiva giocoforza sugli stati d’animo: se ci si pensava troppo, l’attività quotidiana ne risultava appesantita, come impedita, e lo stesso respiro tradiva un principio d’affanno che ne intralciava l’automatica scansione, facendo assumere al lockdown la sinistra sembianza dell’apnea, del logorante esilio in una regione estranea, non solo straniera.
Ebbene il tempo non ha subìto alcuna variazione. Se è parso sospeso o addirittura immobile è solo perché l’impossibilità di fare freneticamente e automaticamente non ci ha permesso come al solito di divorarlo. Detto altrimenti: il lockdown ci ha messo faccia a faccia col tempo, cosa che sgomenta chi, ignorando d’essere lui stesso tempo, non riesce più a controllarlo e pianificarlo, fuori dalla rassicurante gabbia in cui si svolgono di solito le sue giornate. Per costoro il lockdown è stato una gabbia fluida che sfuggiva da tutte le parti, inquietante e indifendibile come quella descritta da Kafka nel meraviglioso racconto Der Bau, La tana.
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