Haifa, 17 agosto 2025. Yona Roseman interviene in una manifestazione prima di essere incarcerata per aver rifiutato il servizio militare. Foto di OrenZiv/ActiveStills
Haifa, 17 agosto 2025. Yona Roseman interviene in una manifestazione prima di essere incarcerata per aver rifiutato il servizio militare. Foto di OrenZiv/ActiveStills

Yona, incarcerata per aver rifiutato il servizio militare in Israele: "Nessuna pace, serve continuare a lottare"

Obiettrice di coscienza 19enne, Yona Roseman ha passato 50 giorni in prigione ed è stata arrestata 7 volte per essersi opposta ai crimini che Israele compie a Gaza e in Cisgiordania. Oggi le è stata riconosciuta l'esenzione dal servizio militare, ma promette di continuare a lottare: "Non c'è nessuna pace, solo la pressione dei governi stranieri può mettere fine al genocidio e all'occupazione"

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

26 novembre 2025

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Cinquanta giorni in carcere e sette arresti: è il prezzo che Yona Roseman, 19enne israeliana, ha pagato per aver rifiutato il servizio militare obbligatorio e protestato contro i crimini che l’esercito di Tel Aviv continua a compiere a Gaza e in Cisgiordania. Oggi, le autorità militari si sono arrese alla sua ostinazione riconoscendole l’esenzione dalla leva, ma Yona promette di continuare a lottare per i diritti dei palestinesi e chiede a chi vive fuori da Israele di fare lo stesso: “Non c’è nessuna pace, solo la pressione dei governi stranieri può mettere fine alla violenza e all’oppressione che continuano da decenni”.

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Yona, raccontaci cosa hai subito per aver rifiutato il servizio militare.

"L’imperativo morale e politico più elementare è non arruolarsi in un esercito che compie un genocidio"

Quest’estate ho ricevuto la convocazione per l’arruolamento (obbligatorio per legge per i cittadini israeliani che compiono 18 anni, ad esclusione degli arabi e degli ebrei ultraordossi, ndr) e ho immediatamente espresso la mia intenzione di rifiutare. Lo scorso 17 agosto si è tenuta l’udienza disciplinare, per cui non è prevista la presenza di un avvocato, durante la quale ho ribadito la mia scelta. Ricordo ancora la dichiarazione esatta: “Lo stato d’Israele sta commettendo un genocidio. L’imperativo morale e politico più elementare è non arruolarsi in un esercito che compie crimini”. L’ufficiale che presiedeva mi hanno chiesto se fossi stata in Israele il 7 ottobre, se sapessi che c’erano ostaggi a Gaza e poi ha iniziato il suo discorso. Ha detto che nell’esercito non si può fare politica, che serviamo il nostro Paese. Mi hanno condannata a trenta giorni nel carcere militare e lo stesso giorno hanno arrestato alcuni attivisti che ad Haifa manifestavano in mio sostegno. Scaduti i trenta giorni, il 17 settembre mi hanno condannata ad altri venti. 

In che condizioni sei stata detenuta?

Per il fatto che sono transgender sono rimasta rinchiusa da sola per 22 ore al giorno. Non mi trovavo nella sezione riservata ufficialmente all’isolamento, ma in una cella normale senza altri detenuti. Gli unici momenti in cui mi era concesso di uscire erano i pasti e le pause di 15 minuti dopo i pasti, per cui si trattava di fatto di isolamento. Mi dicevano che era meglio per me, per la mia privacy. Ho risposto più volte che, al contrario, mi faceva stare peggio mentalmente e che anche nelle carceri civili israeliane le persone trans stanno in cella con altri detenuti almeno di giorno, ma non ne hanno voluto sapere. Mi hanno detto che nelle prigioni militari funziona così. A un certo punto mi hanno permesso di fare qualche lavoro, cosa di cui ero contenta perché mi permetteva di uscire dalla cella, ma dopo poco hanno deciso di negarmi anche questo per motivi che non mi sono chiari. Non so se c’entra il fatto che sia trans o che sia un’obiettrice per motivi politici.

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Oltre al carcere militare per l’obiezione di coscienza sei stata arrestata sette volte per aver partecipato a proteste contro le azioni di Israele e per i diritti dei palestinesi. Continuerai a scendere in piazza?

"Finché Israele continuerà a uccidere e opprimere i palestinesi avremo motivo per protestare e per rifiutare di servire un esercito che commette questi crimini"

Certo. Innanzitutto, non c’è davvero un cessate il fuoco: Israele ha ucciso più di 300 palestinesi a Gaza dall’annuncio. E lo status quo che vigeva prima del 7 ottobre non era certamente pacifico, era aparthaid e occupazione. Israele negava e continua a negare i diritti a milioni di palestinesi, che sia a Gaza, in Cisgiordania o in Israele. Due settimane fa, un ragazzino di 13 anni è morto dopo un mese di coma per aver inalato il gas lacrimogeno lanciato dai soldati israeliani mentre raccoglieva le olive vicino al suo villaggio. Quindi sì, finché Israele continuerà a uccidere e opprimere i palestinesi avremo motivo per protestare e per rifiutare di servire un esercito che commette questi crimini.

Sui social hai scritto che quello che tu hai vissuto non è nulla in confronto a ciò che subiscono i palestinesi nelle carceri israeliane.

Prima del cessate il fuoco erano più di 10mila i palestinesi detenuti da Israele, molti senza una condanna né accuse formali. Spesso si tratta di veri e propri campi di tortura: diverse testimonianze raccontano di violenze, abusi sessuali, privazione di cibo, sovraffollamento. Dal 7 ottobre sarebbero almeno 81 i palestinesi morti dietro le sbarre, il più giovane aveva 17 anni. Io almeno ho ricevuto cibo, libri, potevo telefonare una volta al giorno. Quello che vivono loro è inimmaginabile.

L’impressione è che le voci critiche in Israele siano una netta minoranza. È così?

Sì, a fare obiezione di coscienza per motivi politici siamo nell’ordine delle decine, niente che possa minacciare le capacità militari israeliane. Eppure vediamo tentativi di ridurci al silenzio sia da parte dei media che da parte del governo, segno che ci temono. Bisogna considerare anche il fatto che la maggioranza di chi fa obiezione non lo comunica pubblicamente per timore delle ripercussioni.

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Quali?

"Al di là del carcere, chi rifiuta il servizio militare paga un costo sociale: minacce, attacchi, difficoltà a trovare lavoro"

Al di là del carcere, c’è un costo sociale da pagare. C’è moltissimo odio, online e offline. La mia famiglia è stata avvicinata in sinagoga da persone che chiedevano conto della mia scelta, altre sono state proprio attaccate. Continuo a ricevere minacce al telefono e sui social, è spaventoso. Chi compie questa scelta spesso incontra anche difficoltà nel trovare lavoro, perché il servizio militare è considerato una tappa fondamentale per l’ingresso nel mondo professionale. 

Da mesi la politica israeliana discute se rimuovere o meno l’esenzione dal servizio militare finora concessa agli ebrei ultraortodossi. Che ne pensi?

Qualsiasi siano le ragioni, credo che nessuno debba essere obbligato a prestare servizio militare, a maggior ragione in un esercito che commette un genocidio. Spero che l’esenzione venga mantenuta, ma semplicemente perché voglio che Israele abbia a disposizione sempre meno soldati per commettere i suoi crimini. 

Gaza, la tragedia dei dispersi e dei corpi senza nome

In Italia e in tanti altri paesi abbiamo visto negli ultimi mesi piazze piene per Gaza. Credi che serva ancora mobilitarsi?

Certamente. Noi facciamo tutto il possibile per opporci all’operato di Israele dall’interno, ma siamo in netta minoranza. Per vedere cambiamenti concreti serve che la pressione arrivi da fuori, come è successo in Sudafrica e altrove. I governi hanno il potere e il dovere di interrompere i legami militari, economici e politici. Ai cittadini e alle cittadine spetta invece continuare a mobilitarsi ed esporre Israele per quello che è e che fa, squarciando il velo della propaganda che continua a dipingerlo come “unica democrazia del Medio oriente”.

Come vedi il futuro di Israele e Palestina tra trent’anni?

Io credo che non sia irrealistica la soluzione di uno Stato che garantisca il diritto al ritorno per il palestinesi e uguaglianza a tutti, ma per come stanno le cose oggi parlarne chiede un grande sforzo di immaginazione. Spero che un giorno si arrivi a discuterne, ma al momento siamo concentrati sul “qui e ora”. La priorità oggi è fermare il genocidio, l’aparthaid e l’occupazione.

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