Aggiornato il giorno 2 gennaio 2021
* “… e il mio maestro m’insegnò com’è difficile
trovare l’alba dentro l’imbrunire”.
F. Battiato, Prospettiva Nevsky (1980)
“Odio, dunque sono”. Prendo spunto dall’intervento di Francesco Remotti a pagina dieci per una riflessione che credo congrua e, spero, proficua. Trovo profonda e convincente l’analisi del grande antropologo, salvo nel punto in cui parla di "odio immotivato" e "odio allo stato puro". Sia chiaro, non si tratta di giustificare l’odio e tutte le sue varianti razziste, sessiste eccetera, ma di coglierne un’eventuale radice, che magari con l’odio c’entra poco o nulla. Capire perché tante persone oggi – soprattutto sui cosiddetti social – non si fanno scrupolo di vomitare insulti o minacce su qualcuno che non conoscono e da cui non sono state offese. E capire perché il loro livore si scarichi preferibilmente su figure in vista, di riconosciuta autorevolezza intellettuale e morale. Se non cerchiamo di capire, fermandoci a una facile quanto sterile indignazione (non è il caso di Remotti, ovviamente) assolviamo un dovere di coscienza ma non ci avviciniamo alla risoluzione del problema.
Leggi gli articoli della rubrica "L'altro in noi" di Fabio Cantelli Anibaldi
Dietro l’odio si cela insomma un appello, una richiesta di attenzione: "Ti odio per il semplice fatto che esisti, anche se non mi hai fatto nulla di male".
Dunque qual è la motivazione profonda dell’odio? Cosa rende il problema dell’odio sintomo di un male ancora più allarmante perché capace di assumere forme subdole fino a manifestarsi come impulso da soddisfare a ogni costo? (tanto più che i social offrono a riguardo occasioni irresistibili: costo zero e massimo profitto). Credo che dietro ogni atto e parola d’odio – almeno dell’odio al tempo del web – agisca un bisogno profondo di riconoscimento: si odia per essere riconosciuti, si odia perché l’odio, soprattutto se rivolto a persone note e temi “sensibili”, garantisce il centro della scena. Dietro l’odio si cela insomma un appello, una richiesta di attenzione: "Ti odio per il semplice fatto che esisti, anche se non mi hai fatto nulla di male. E dicano pure che è ingiusto, indecente, immotivato: ciò che conta è che si parli di me. E tanto meglio se il biasimo sarà unanime: maggiore sarà il brivido di essere finalmente 'qualcuno'".
È, tecnicamente, il meccanismo della provocazione. Che tutti noi abbiamo scoperto da bambini: dire una bella parolaccia davanti alle amiche della mamma e vedere l’effetto che fa. Ed esercitato con maggiore perizia da adolescenti, appresa l’arte di apparire interessanti e “diversi” agli occhi dei coetanei. Diversità che però, per non ridursi a maschera, andava cercata e coltivata fuori scena, nella riflessione solitaria con noi stessi e su noi stessi, cioè nella scoperta di un sé magari fragile ma autentico, estraneo alla versione scintillante fin lì esibita. "Felice chi è diverso/essendo egli diverso/Ma guai a chi è diverso/essendo egli comune" ha scritto, memorabilmente, Sandro Penna.
Tutto ciò per dire che l’odio è sintomo di una malattia più profonda e vasta chiamata “io”: è lì che si annida la radice del male occidentale, la causa prima della nostra agonia civile e culturale. Egocentrismo che colpisce tutti o quasi, a partire dagli uomini di potere. È difficile trovare oggi un politico che non usi i social come volgari protesi dell’“io”, formidabili strumenti di propaganda in una politica ridotta a logorroico talk-show. Sparate e giudizi sommari in un’alternanza di sarcasmo e sentenziosità: il repertorio è infinito quanto grottesco, se si pensa alla pudica riservatezza di certa politica d’altri tempi, per la quale il potere era davvero responsabilità da far tremare i polsi. Che distanza dalla chiacchiera che infesta oggi i media, impegnata a escogitare sempre nuove trovate, con tutti gli imprevisti e incidenti del caso. Ecco allora un ministro dell’Interno, capelli e torace al vento, che nell’ansia d’interpretare il ruolo in modo innovativo e "alla mano", fa suonare l’inno nazionale nei bagni di una spiaggia romagnola, con tanto di pista da ballo e cubiste discinte che si muovono sinuose tra bagnanti entusiasti di dichiararsi in coro "pronti alla morte". O un capo di governo che, recatosi a Buenos Aires in visita diplomatica, per far bella figura davanti a quel popolo, cita una poesia sull’amicizia di Jorge Luis Borges, scrittore là venerato come qui da noi Dante, salvo che di Borges non è, falso di cui ogni suo lettore – cioè non il politico in questione – si sarebbe immediatamente accorto.
Personaggi da commedia dell’arte, se non fosse per l’enorme potere concentrato nelle loro mani, disposti a tutto pur di non passare inosservati. Finti “diversi” per dirla con Sandro Penna, mediocri che vogliono spacciarsi per speciali, egocentrici capaci di esistere solo grazie all’approvazione o al biasimo della folla. E qui si torna alla questione cruciale del riconoscimento. Veniamo al mondo senza sapere chi siamo: a dircelo saranno, via via, la cura dei genitori, le amicizie, gli amori.
Gli altri sono essenziali alla nostra formazione, ma più di tutti quello con cui siamo in costante, intima e avventurosa relazione. Parlo dell’altro che noi stessi siamo
Un tempo, animata da ideali pedagogici da applicare con particolare zelo ai troppo “diversi”, anche la società pretendeva di dirci chi eravamo o dovevamo diventare. Il riconoscimento svolge da sempre, insomma, un ruolo fondamentale in quella che Remotti chiama "antropo-poiesi", costruzione dell’identità umana. Gli altri sono essenziali alla nostra formazione, ma più di tutti quello con cui siamo in costante, intima e avventurosa relazione. Parlo dell’altro che noi stessi siamo. Proprio così: “io” – ora è chiaro perché la parola va messa tra virgolette – è un altro. Uno dei primi a scoprirlo, in pieno Ottocento, fu Arthur Rimbaud: "je est un autre", scrisse sedicenne nella Lettera del veggente. Ma già agli albori dell’Occidente, quattro secoli prima di Cristo, i Greci avevano compreso che l’identità è un processo, un’avventura: "Conosci te stesso" è scritto sul frontone del tempio d’Apollo a Delfi. Monito a esplorare l’alterità che ci abita e costituisce, altrimenti la cura del Dio o della polis rischiano di ridursi a maschere dell’io, identità fittizie e dunque bisognose di continue conferme, perché quando il riconoscimento viene dall’esterno è un fuoco di paglia – e la dipendenza dall’immagine pubblica di molti uomini di potere, ne è prova lampante.
Si fa un gran parlare in questi giorni dei giovani che hanno ripreso a occupare le piazze e del loro destino politico. Ecco allora un consiglio non richiesto: se volete davvero cambiare qualcosa state lontani dalla scena pubblica, non lasciatevi incastrare nel talk show perennemente in onda. I veri cambiamenti avvengono nell’ombra, prodotti da persone alla ricerca di sé stesse e dunque canali di vita pura, non contraffatta e greve come quella di un Occidente malato, che scappa da sé stesso, dall’altro che è. Ossia dalla sua possibile guarigione.
Da lavialibera, n° 1 gennaio-febbraio 2020
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