23 ottobre 2020
"Tutte le emergenze sono anche psicologiche". E di emergenze Donatella Galliano ne ha viste: i terremoti, la tragedia di Rigopiano, l’attentato terroristico di Nizza e altro. Presiede Psicologi per i Popoli Federazione, un insieme di associazioni fondato nel 1999 da Luigi Ranzato. Lei e gli altri volontari sono specializzati in psicologia dell’emergenza. Lavorano a stretto contatto con la Protezione civile che, in caso di bisogno, chiede il loro intervento. È avvenuto anche per la pandemia di Covid 19: "Abbiamo collaborato all’attivazione della linea telefonica di sostegno psicologico del Ministero della salute. Dopo i primi giorni, abbiamo ricevuto qualcosa come 40mila telefonate".
Siamo fatti per affrontare la vita e i traumi. Ci siamo già adattati al Covid-19 e questo ci aiuterà ad affrontare situazioni simili in futuroDonatella Galliano - Presidente Psicologi per i popoli
Dottoressa Galliano, quindi l’emergenza Covid-19 non è stata solo sanitaria?
Tutte le emergenze hanno una forte componente psicologica perché provocano la distruzione delle strutture portanti degli individui e della comunità, dei riti e dei miti condivisi, della socialità e di quelle cose piccole e banali della nostra quotidianità, ma fondamentali per la nostra esistenza. Per questa ragione le emergenze vanno “previste” e richiedono programmazione. Lasciano dietro di loro distruzione e il vissuto di normalità deve essere ricostruito e ricucito sull’identità delle persone, che devono riconoscersi nella loro nuova casa interna ed esterna.
Cosa avete visto in questo periodo?
Rispetto a terremoti o attentati, è stata un’emergenza strisciante e impietosa. Le persone erano disorientate, spaventate e incredule. Abbiamo assistito a un dolore che ha colpito sfere inaspettate della quotidianità. Pensiamo alla vita di comunità e alle relazioni o alle separazioni di chi accompagnava i parenti malati al pronto soccorso: alla tenda del triage venivano separati e di lì in avanti avevano poche informazioni. Ricordo una famiglia di Torino che si è rivolta a noi: avevano un familiare ricoverato a Cuneo, uno a Palermo e uno a Bologna, ottenevano da ogni ospedale poche notizie e loro stessi erano in quarantena, chiusi in casa con la paura di ammalarsi senza la possibilità di essere seguiti.
Anche medici e infermieri si sono rivolti a voi. Con quali paure?
Non temevano il contagio personale: i sanitari hanno maggiore coscienza dei pericoli e una grande convinzione sul loro ruolo, che è salvare gli altri. Avevano paura invece di non fare abbastanza e di diventare untori, contagiando anche i loro cari. Molti hanno cambiato l’architettura delle loro relazioni familiari, lasciato le loro case per vivere soli, mantenere le distanze ed evitare i contatti.
E i bambini?
Di solito, nel corso delle emergenze, ricevono molta attenzione. In questo caso sono stati completamente affidati alle famiglie, senza distinzioni tra le diverse possibilità di assistenza ed educazione. La differenza l’ha fatta la condizione socioculturale. Spesso quelle meno informate e più marginalizzate non sanno riconoscere le loro difficoltà e quindi non chiedono aiuto: manca quella sensibilità che rende possibile la comprensione, l’insight situazionale (la visione interna, l’intuizione, ndr).
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Gli anziani come hanno sofferto?
Sono stati terrorizzati perché soggetti a rischio. Hanno avuto difficoltà a tenere i contatti con familiari e amici e a utilizzare gli strumenti informatici. Con loro è stato molto più adeguato il telefono. Gli anziani nelle residenze sanitarie-assistenziali hanno assistito alla drastica sospensione delle visite, spesso senza capirne i motivi. Hanno vissuto una solitudine estrema, senza pensare alla mancanza di vicinanza dei propri cari nelle fasi finali della vita. Gli anziani sono stati travolti in modo diverso rispetto alle altre emergenze.
Diverso come?
Quando interveniamo ad esempio dopo un sisma, spesso le famiglie si riuniscono intorno agli anziani. Sono la memoria storica del Paese e la dimostrazione che è possibile vincere qualsiasi crisi. Con i loro ricordi danno sollievo e fiducia. Nelle loro parole c’è saggezza. Abbiamo incontrato temprati novantenni che avevano perso e ricostruito casa per la seconda o terza volta nella loro vita, che avevano reagito ai drammi della guerra, alle perdite più atroci senza smarrire il senso della vita e la concretezza per affrontare le difficoltà. La capacità di resilienza, la capacità di coping: gli anziani hanno capitalizzato tante strategie di risposta ai problemi, sviluppate anche attraverso l’esperienza, che infondono speranza alla loro comunità.
Gli adulti come hanno reagito al lockdown?
“Isolarsi” è il contrario di quanto anche noi raccomandiamo alle persone: di solito si dice di uscire, di lasciarsi coinvolgere nelle attività e di incontrare altre persone. È stato faticoso mantenere il distanziamento, sia per chi ama la socialità, perché trova negli altri supporto e gioia, sia per chi ama la solitudine ma trova sempre qualcuno che lo stimola a uscire, a vincere la chiusura e l’apatia. L’isolamento ha rafforzato le debolezze di tutti. La misura dello sconvolgimento creato nelle persone si è potuto leggere con la riapertura, quando la ripresa pacata della vita ordinaria ha rappresentato una nuova paura. Si erano assestati sulla risposta condizionata. A proposito di lutti: i funerali sono stati a lungo vietati.
Quanto è importante il rito funebre?
Il lutto è un percorso di elaborazione del dolore più o meno difficile, a seconda delle circostanze, delle relazioni e delle persone. In questi momenti ci vengono in aiuto tradizioni culturali antiche e condivise, basate sempre sul supporto e sulla presenza delle persone più care. In tempi ordinari ci sono veglie, preghiere, visite dei parenti più lontani; le famiglie si riuniscono per affrontare il dolore. Lo stare insieme rende più forti, confortati, compresi e fiduciosi. La condivisione permette di riconoscere la persona insieme al suo lacerante dolore e al diritto di vivere la sofferenza.
Alle calamità naturali si reagisce meglio: è colpa della natura e la comunità fa fronte comune. L’attentato terroristico, fatto dall’uomo, elimina la fiducia
Invece il Covid-19 cosa ha fatto?
Ha annientato tutto questo patrimonio di resilienza naturale: nessuna visita e condivisione, nessun rito, corpi chiusi in sacchi neri, portati via in solitudine e spesso cremati senza troppe riflessioni. Ci sono persone che hanno salutato con la mano il loro caro nella tenda del triage e qualche tempo dopo hanno ricevuto la comunicazione del decesso e poi un’urna. Ci stanno arrivando ogni giorno richieste di aiuto per la sofferenza provocata dalla separazione ma soprattutto dalla colpa, dal disagio di non aver potuto onorare il commiato. È necessario riprendere al più presto la ritualità dell’ultimo saluto e del ricordo, per ogni comunità e confessione.
In che modo quest’emergenza è diversa dalle altre?
Ogni emergenza ha una sua particolare sofferenza. Alle calamità naturali, per un certo verso, si reagisce meglio: la colpa è della natura e la comunità fa fronte comune. Un attentato terroristico è più difficile da superare: è provocato dalla mano dell’uomo, elimina il senso di fiducia e le persone tendono a non solidarizzare, si perde il senso dell’identità sociale e di appartenenza. La pandemia ci ha fatto sentire piccoli in un mondo che immaginavamo potente. Ci ha ricollocati nei più modesti binari dell’umano.
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Come operano gli psicologi nelle emergenze?
Gli interventi vanno preparati e pianificati secondo le linee guida per il soccorso psicologico e le normative vigenti. Prima si fornisce un sostegno elementare alla moltitudine di persone scampate: ad esempio si garantiscono sicurezza e informazione e in modo concreto si indirizzano i cittadini verso comportamenti adeguati e proattivi, oppure si rassicurano sulla presenza delle forti emozioni che accompagnano l’emergenza, l’ansia, la paura o l’insonnia, si spiega come sia normale provarle. Via via che si identificano gruppi che hanno bisogni particolari si offrono interventi più specifici. Si arriva al vertice della piramide, con interventi rivolti a pochi individui con alto livello di sofferenza. Inoltre si procede con squadre multi-professionali e con alto livello di preparazione e addestramento comune sul campo. È importante sapere che ogni gesto concreto comunica qualcosa e ha un significato psicologico di vicinanza umana, e anche che insieme alla necessità dell’“agire” è necessario “ascoltare” e “pensare”.
Lei su quali fronti è intervenuta?
Sono entrata in Psicologi per i Popoli nel 2003. Il primo grande intervento per catastrofi naturali è stato quello per il sisma a L’Aquila nel 2009. Un’altra esperienza è stata il sisma in Emilia Romagna nel 2012. Nel 2016 invece abbiamo affrontato il terremoto del Centro Italia: è stata una grande esperienza di squadra e di collaborazione tra la Protezione civile, le Regioni coinvolte e le altre che hanno fornito supporto. Quando però stava terminando il nostro intervento, c’è stata la tragedia di Rigopiano. In altre situazioni abbiamo soccorso le persone scampate agli attentati terroristici, Nizza ad esempio, o Barcellona. Spesso collaboriamo alla ricerca delle persone scomparse.
Quali sono i ricordi più forti?
Mi ricordo spesso un momento lontano. Un istante che ha fissato in me l’importanza di avere una formazione specifica e pratica per intervenire in emergenza con professionalità. Ero a L’Aquila, nella tendopoli allestita dalla colonna mobile della Protezione civile della Regione Piemonte. Siamo arrivati subito, la gente era smarrita e sotto choc. Lì mi sono resa conto di quanto c’era da fare. Ho attinto a tutte le risorse di cui disponevo e ho sentito riemergere ciò che avevo imparato insieme ai colleghi dell’associazione, soprattutto nei campi scuola a Marco di Rovereto, attraverso il lavoro teorico e con le tante esercitazioni sul campo.
Spesso tra i migranti ci sono dei politraumi: non basta il manuale di classificazione delle patologie. La loro salute mentale è una questione da affrontare
Vi occupate anche di migranti.
Sì, e in molte di queste situazioni ci troviamo di fronte a politraumi: sembra non bastare il Dsm-5, il manuale di classificazione delle patologie, per esprimere la sofferenza di queste persone. Abbiamo ascoltato storie di esistenze maledette. Cominciano il loro esodo sfuggendo ai pericoli della loro terra, affrontano il deserto, viaggi impietosi di cui riferiscono episodi strazianti, come bambini strappati alle madri e abbandonati, la detenzione nei centri libici, per poi arrivare all’attraversamento del mare. Arrivano se sono fortunati in Italia, pieni di speranze ed esausti. La tutela della salute mentale dei migranti è una questione da affrontare.
Secondo lei, dalle emergenze l’essere umano esce più forte?
Siamo fatti per affrontare la vita e i traumi. Ci siamo già adattati al Covid e questo ci aiuterà ad affrontare situazioni analoghe in futuro. Non so se l’uomo ne uscirà più forte. A volte l’emergenza può annientarlo. Altre volte effettivamente ne tracciano un’esistenza migliore.
Per molti esperti, per via dei cambiamenti climatici le catastrofi naturali e le pandemie saranno sempre più frequenti: ci si può preparare?
Adesso abbiamo un’esperienza in più. Dobbiamo capitalizzare ciò che abbiamo appreso, dare un senso a quanto è accaduto e alle ripercussioni su di noi. Mi auguro che questa esperienza possa illuminare le persone e farle muovere verso percorsi costruttivi e sicuri.
Da lavialibera n°3 maggio/giugno 2020
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