3 marzo 2021
Nessun territorio può considerarsi un'isola felice, al sicuro da investimenti mafiosi per riciclare denaro illecito. Per questa ragione la Direzione investigativa antimafia è certa che la pandemia offra alle organizzazioni criminali altri margini di espansione della loro influenza, a partire dagli attesi fondi che l’Unione europea convoglierà verso il nostro Paese, attraverso il cosiddetto NextGenerationEu. In particolare, gli investigatori mettono in guardia sulla realizzazione e il potenziamento di grandi opere e infrastrutture, anche digitali, tra cui la rete viaria, le opere di contenimento del rischio idrogeologico, le reti di collegamento telematico e le opere necessarie per una generale riconversione alla green economy. La preoccupazione è che la fretta di ricostruire sulle macerie lasciate dal Covid, si trasformi in una grande occasione per le mafie di arricchirsi sulle emergenze: “Se l’obiettivo delle istituzioni è quello di rispettare una tempistica di assegnazione che non comprometta la sopravvivenza di molte attività economiche, il rischio è che le mafie, in questa fase, attraverso le proprie imprese si inseriscano nei flussi di assegnazione approfittando di un sistema di controlli labile – è scritto nella relazione sul primo semestre 2020 consegnata al parlamento –. Se la semplificazione ha riguardato l’assegnazione dei finanziamenti, il sistema dei controlli preventivi non ha avuto un parallelo adeguamento, rimanendo ancorato alle procedure ordinarie difficilmente applicabili nei casi attuali".
Eppure, nonostante quel che racconta la storia del nostro Paese, vi sono ancora categorie professionali, esponenti politici ed economici, pezzi di opinione pubblica, che al solo sentire parlare della presenza mafiosa sul proprio territorio, si irrigidiscono. Minimizzano e, quando non arrivano a negare, si girano dall’altra parte. Non necessariamente per connivenza, quanto per una sorta di rifiuto a considerare le mafie per ciò che sono: imprese, spesso multinazionali, che attraverso l’acquisizione illecita di denaro, mirano a gestire potere e ricchezze in forme diversificate, condizionando ogni aspetto delle dinamiche che regolano l’equilibrio di un territorio, dall’economia alla politica. Per farlo necessitano di sponde di chi apre loro le porte. Da anni gli investigatori, non raccontano “solo” le dinamiche di ‘ndrangheta, Cosa nostra, camorre, mafie pugliesi o mafie straniere, ma offrono uno spaccato, regione per regione, del grado di presenza che le mafie hanno raggiunto, non soltanto in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Lazio, ma anche in realtà più "marginali", finora poco (o per niente) sfiorate dalle grandi inchieste antimafia.
Jackpot. Al gran casinò Covid, la partita del crimine
Geenna e Perfido sono i nomi delle inchieste che nel giro di due anni hanno scoperchiato il vaso di Pandora sulla penetrazione della ‘ndrangheta nelle due regioni. La Valle d’Aosta nel 2020 è diventa l’undicesima regione con un Ente locale sciolto per infiltrazione mafiosa: il Comune di Saint-Pierre vedeva tra i propri amministratori un assessore, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, in stabili rapporti con la ‘ndrina locale. Non solo, dalle motivazioni del processo Geenna emerge come ben tre presidenti della Regione avrebbero chiesto sostegno agli ‘ndranghetisti nel corso di diverse tornate elettorali.
'Ndrangheta in Valle d'Aosta: un comune sciolto e tre politici a processo
Informazioni che per molti in Valle d’Aosta hanno rappresentato lo choc di cui sopra. Eppure c’erano amministratori locali, come il consigliere regionale Alberto Bertin, che da oltre dieci anni chiedevano l’istituzione di una locale Commissione speciale Antimafia. “Già da tempo si era avuta contezza della presenza di insediamenti ‘ndranghetisti in Valle d’Aosta, in quanto importanti risultanze investigative, come l’inchiesta Minotauro della Dda torinese del 2011, avevano mostrato chiari segnali sull’operatività di soggetti contigui alle consorterie calabresi Iamonte, Facchineri e Nirta”, scrive la Dia. Proprio il clan Nirta-Scalzone, ha appurato Geenna, aveva stabilito da tempo una locale di ‘ndrangheta ad Aosta.
Le ‘ndrine hanno messo radici anche in Trentino. L’inchiesta Perfido ha svelato “la costituzione di un locale, espressione della cosca Serraino, originaria di Reggio Calabria, insediato a Lona Laes nella provincia di Trento”. Una "colonizzazione" che si esprime nella “creazione di una fitta rete di contatti con diversi ambiti della società civile quali l’imprenditoria, le istituzioni e la politica – in alcuni casi anche con il sostegno a candidati nelle competizioni elettorali per il rinnovo degli enti locali –, al ricorso alla forza se ritenuto necessario per qualificare sempre più il vincolo associativo, ai fini dell’intimidazione e dell’assoggettamento delle vittime”. La ‘ndrangheta ha esteso il proprio controllo su “alcune aziende operanti nell’ambito dell’estrazione del porfido”, per poi ampliare i propri interessi anche in altri settori “quali il noleggio di macchine e attrezzature edili e per il trasporto merci”.
Per anni in Veneto si è sussurrato di “semplice” presenza criminale, ma non di radicamento. Eppure nel biennio 2019-2020 si contano ben dieci operazioni antimafia, che coinvolgono il territorio nella sua interezza, e vedono tra i protagonisti clan quali Iovine, Grande Aracri e Arena-Nicoscia, pezzi da novanta della camorra casalese e della ‘ndrangheta crotonese. In particolare, due operazioni condotte tra giugno e luglio dello scorso anno, denominate Isola Scaligera e Taurus, fanno emergere “il modus operandi tipico di un locale di ‘ndrangheta, articolato secondo gli schemi propri delle consorterie criminali calabresi, che vanno dalla creazione di un reticolo di solidi rapporti con amministratori pubblici e imprenditori, al ricorso, se necessario, della forza di intimidazione e all’assoggettamento”.
In Veneto l'Osservatorio per il contrasto alla mafia è un flop
Nessuna grande operazione antimafia ancora, nonostante le tante interdittive
Circondata a Nord e Sud da regioni in cui il radicamento mafioso è stato certificato anche a livello giudiziario, la Toscana non ha ancora conosciuto una grande operazione antimafia. Eppure motivi per rallegrarsi non ce ne sono. “I segnali della pervasività criminale si manifestano anche per mezzo di imprese non mafiose, ma comunque collaborative, nonché di schemi giuridici sempre più raffinati, attuati con la collaborazione di professionisti collusi (avvocati, commercialisti e notai). Di questo è stato trovato riscontro nelle indagini concluse nei provvedimenti interdittivi antimafia emessi, anche su input della Dia, dai prefetti toscani di Firenze, Arezzo, Massa Carrara, Prato e Pistoia…I provvedimenti confermano la propensione della criminalità calabrese a diversificare gli investimenti, in modo da rafforzare la propria presenza in svariati settori dell’economia legale”.
Molte altre regioni sono zone in cui vengono investiti i capitali illeciti
In Friuli Venezia Giulia gli investigatori evidenziano “l’esistenza di proiezioni delle mafie tradizionali, nella maggior parte dei casi impegnate in operazioni di riciclaggio. In particolare, soggetti riconducibili alla ‘ndrangheta hanno dato luogo a tentativi di infiltrazione in ambito commerciale nei settori del trasporto in conto terzi e delle frodi finanziarie”. Nelle Marche emerge nel tempo “la presenza di soggetti legati soprattutto alla criminalità organizzata calabrese” tra San Benedetto del Tronto e le province di Macerata, Fermo, Pesaro-Urbino e Ancona. Interessi della criminalità napoletana sono emersi “soprattutto nel reimpiego dei capitali illeciti nonché nel traffico degli stupefacenti”, mentre sono state accertate presenze di soggetti collegati alla criminalità organizzata pugliese, principalmente provenienti dalla provincia di Foggia. Anche in Abruzzo “vari esiti investigativi hanno confermato l’attività di riciclaggio e di reimpiego di capitali di origine illecita, ad opera di taluni prestanome operanti per conto di consorterie mafiose”. Perfino in Sardegna i clan “non mirano al controllo militare del territorio, quanto piuttosto a sfruttare le opportunità di riciclaggio nonché a ricercare accordi funzionali con organizzazioni autoctone per inserirsi nella gestione del mercato degli stupefacenti”.
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