
Hydra, a Milano il processo contro l'alleanza tra mafiosi di Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra

28 luglio 2025
Il 28 luglio del 1985 Beppe Montana indossava un costume da bagno e non aveva le tre pistole che portava sempre con sé. Si era recato a Porticello – una frazione di Santa Flavia, vicino Bagheria – insieme alla fidanzata Assia Mezzasalma e stava per imbarcarsi sul motoscafo Speedy el Sud, che utilizzava spesso per osservare dalla costa di Mongerbino e Aspra i movimenti sospetti sulla terra ferma.
Quarant'anni dagli omicidi di Montana, Cassarà e Antiochia
Il commissario era fatto così: amava il mare ma soprattutto il suo lavoro, in modo viscerale. Quando lo uccisero a colpi di pistola, doveva ancora compiere 34 anni e a Palermo era già diventato un punto fermo della catturandi, la sezione della squadra mobile specializzata nello stanare i latitanti. Allergico ai protocolli, il suo particolarissimo metodo d’investigazione prevedeva l’assidua frequentazione della strada e delle zone più battute dai mafiosi; basti pensare che aveva preso casa in un condominio dove poco prima era stato scoperto un covo criminale.
Quando lo uccisero, Montana era già diventato un punto fermo della catturandi, la sezione della squadra mobile specializzata nello stanare i latitanti
Un approccio al lavoro meticoloso, coraggioso e spregiudicato, che in una stagione in cui a Palermo si uccideva per molto meno, e con una frequenza senza precedenti, non poteva che costargli la vita.
Sono trascorsi quarant’anni dall'assassinio di Montana. Suo fratello Dario, funzionario della Regione Sicilia e referente memoria di Libera, ha un ricordo lucido di quel periodo. “Beppe sapeva benissimo che volevano ucciderlo, durante un blitz aveva persino trovato alcune sue fotografie in mano ai mafiosi. Eppure viveva la quotidianità in modo normale, era innamorato della vita. Mio fratello aveva un carattere gioviale, era estroverso ma a casa non parlava molto, solo con mio padre”.
Nell’ambiente qualcuno lo chiamava Serpico, come il poliziotto italoamericano interpretato nell’omonimo film da Al Pacino. “In effetti non amava stare in ufficio, spesso usciva con i ragazzi della squadra mobile, alcuni più giovani di lui, affascinati da quel dirigente che consideravano un compagno di strada”.
Stragi di mafia, è ora di lasciare la logica emergenziale
Anni dopo l’omicidio Montana, dalle dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia emerse che all’interno di quella squadra mobile c’era una talpa e che anche grazie alle sue soffiate era stato possibile portare a termine il delitto.
“La storia dice che due dirigenti dell’epoca hanno avuto dei processi, mi riferisco a Bruno Contrada e Ignazio D’Antone, ma è una vicenda complessa, Per l’uccisione di mio fratello sono stati condannati in via definitiva anche i mandanti mafiosi e quindi siamo tra i pochi familiari ad avere ottenuto un risultato in tribunale. Restano, però, le ombre sulle responsabilità al di fuori di Cosa nostra".
"Sugli omicidi di quegli anni servirebbe una lettura complessiva e invece si continuano a organizzare celebrazioni e anniversari per ogni vittima, come se fossero storie tra loro distinte. La ricostruzione di una memoria a pezzi non serve a nulla, in Italia non esiste una memoria che serva davvero a comprendere cosa è accaduto. Penso agli slogan, a frasi come 'La mafia è una montagna di merda', che oggi non bastano più. Aveva senso quando la pronunciava Peppino Impastato, perché allora era necessario stabilire la distanza tra i mafiosi e chi non lo era, i famosi cento passi tra la casa di Peppino e quella di Badalamenti. Adesso in quelle case bisogna entrarci. La stessa antimafia non deve ridursi a organizzare convegni e celebrazioni. È anche per questo che insieme a Libera lavoriamo per costruire un’antimafia sociale”.
"Sugli omicidi di quegli anni servirebbe una lettura complessiva e invece si continuano a organizzare celebrazioni e anniversari per ogni vittima, come se fossero storie tra loro distinte", dice Dario Montana
Un percorso lungo che non può prescindere dalla fiducia verso lo Stato, seppure alcuni uomini abbiano voltato le spalle all’istituzione che avrebbero dovuto rappresentare. “Sono convinto che non possa esistere l’antimafia al di fuori dello Stato, tutti noi ci riconosciamo nella Costituzione. Le responsabilità sono individuali, non dobbiamo cadere in questa trappola. Come Libera abbiamo chiesto di introdurre nella Carta fondamentale il diritto alla verità: lo Stato deve fare di tutto per cercare la verità”.
Mafie senza pietà: bambini vittime delle faide
In vista dell’anniversario, Libera e i familiari di Montana hanno organizzato una serie di eventi, molti dei quali mettono al centro il tema dei minori. “Perché la memoria è il presente e l’impegno è costruire un futuro diverso. Il governo attuale, invece, continua a puntare su politiche securitarie che si occupano soltanto di poveri cristi, rinunciando a indagini più complesse. Non possiamo considerare la mafia un fenomeno strettamente criminale, è riduttivo. Cosa nostra gestisce denaro, controlla i voti, determina i destini del nostro Paese e ha bisogno di professionisti. Dinanzi a uno scenario simile si cerca di depotenziare un sistema che andava certamente rivisto ma che ha funzionato. L’eliminazione dal codice penale dell’abuso d’ufficio, la stretta sulle intercettazioni e la riforma dell’ordinamento della magistratura rientrano in questo disegno pericoloso”.
Nella mattanza palermitana, appena nove giorni dopo l’omicidio di Montana, la mafia uccise il vice dirigente della squadra mobile Ninni Cassarà, 38 anni, e l’agente Roberto Antiochia, 23 anni. Riuscì a scampare all’attentato un secondo agente della scorta, Natale Mondo, che verrà assassinato nel 1988.
Se qualcosa è cambiato è merito della coscienza civile
Una fotografia dell’epoca mostra la moglie di Cassarà, Laura Iacovoni, seduta sulle scale con a fianco il corpo esanime del marito. Qualche minuto prima, dal balcone di casa, aveva assistito insieme alla figlia alla sparatoria. Antiochia tentò di fare da scudo per consentire al superiore di fuggire, ma la raffica di colpi esplosi con fucili d’assalto non lasciò scampo a nessuno. Qualche tempo fa lavialibera ha dedicato un articolo alla madre di Roberto, Saveria Antiochia, che fino all’ultimo dei suoi giorni si è impegnata con estrema tenacia a tenere viva la memoria del figlio. È anche grazie a lei che nel 1995 è nata Libera.
Il giorno che uccisero Cassarà, Antiochia tentò di fare da scudo e permettere al superiore di fuggire, ma la raffica di colpi non lasciò scampo a nessuno
Proprio come Montana, Cassarà era un obiettivo dei boss, soprattutto per aver stilato il “rapporto 162” contenente l’organigramma di Cosa nostra, la cui struttura fino ad allora era sconosciuta. “Ninni sapeva bene che avrebbero potuto ucciderlo. Quando in compagnia di Paolo Borsellino si recò a Porticello, dove avevano sparato a Montana, Ninni disse che erano cadaveri che camminavano, una frase poi ripresa dallo stesso Borsellino. Nonostante il rischio altissimo, aveva scelto di andava avanti, motivava la sua squadra, li rendeva partecipi di tutto. Erano quasi felici di dare la vita per la Patria”. Chiamarla Patria al posto di Stato non è casuale. “C’è chi remò contro. Mio fratello, Montana e tanti altri furono volutamente lasciati da soli, senza nessuno che li proteggesse”.
“In quegli anni c’è chi remò contro. Mio fratello, Montana e tanti altri furono volutamente lasciati da soli, senza nessuno che li proteggesse”, dice Rosalba Cassarà
Fu grazie alle indagini portate avanti anche da Cassarà, coordinate dal giudice Giovanni Falcone, che nel 1986 si arriverà al maxiprocesso di Palermo. Senza dimenticare la retata del 29 settembre 1984, che portò alla cattura di centinaia di ricercati. “Mio fratello riuscì a instaurare una collaborazione proficua con i carabinieri e sentiva costantemente i confidenti, in un tempo in cui non esisteva ancora la figura del pentito. Ricordo che prendeva la macchina di mio padre, cambiava la targa e partiva. Per anni chiese invano un computer perché la tecnologia avrebbe accelerato le indagini, ne parlò anche agli amici più cari, ma il computer arrivò solo dopo la sua morte. Era un capo particolare, molto vicino ai suoi ragazzi, non mandava nessuno a fare i pedinamenti, li faceva lui stesso”.
La borghesia mafiosa e la zona grigia
Oggi, quarant’anni dopo, di Cassarà rimane il ricordo di un uomo coraggioso e un dolore mai sopito. “Quello non andrà mai via, la morte di Ninni ha cambiato le nostre vite, ma nel frattempo abbiamo dato senso a questo dolore. Mio fratello non c’è più, ma continuiamo a raccontare la sua storia e in un certo senso è come se fosse rimasto sempre accanto a noi”.
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