
Hydra, a Milano il processo contro l'alleanza tra mafiosi di Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra

18 luglio 2025
Ancora indagini, perquisizioni, sospetti e speranze. E ancora, un quadro molto complesso, inestricabile. A 33 anni dalla strage di via D’Amelio, a Palermo, dove un’auto imbottita di esplosivo piazzata da uomini di Cosa nostra uccideva il procuratore aggiunto Paolo Borsellino insieme agli agenti della sua scorta – Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Fabio Li Muli e Claudio Traina –, gli investigatori sono ancora al lavoro su alcune piste, magari non nuove, ma rilette con altri punti vista, con altri dettagli.
Un ruolo lo ha avuto la commissione parlamentare antimafia, guidata da Chiara Colosimo (Fratelli d’Italia), che ha avviato una serie di audizioni per ripercorrere ed esplorare piste alternative sulla strage di via D’Amelio. Lo aveva fatto – ha ribadito Colosimo venerdì 18 luglio in occasione del convegno del partito chiamato “Parlate di mafia” – per dare una risposta ai figli, Manfredi, Lucia e Fiammetta Borsellino. “Mio padre era un inguaribile ottimista – ha dichiarato giovedì il primo –. Lui la voleva vincere questa guerra (contro la mafia), ma gli è stato impedito, da tanti. Forse anche da troppe persone vicine a lui, del suo mondo lavorativo. Ancora siamo alla ricerca di questo ‘amico’ che lo ha tradito”.
Borsellino, l'Antimafia tenta di far luce sulla strage di via D'Amelio
Partendo dalle audizioni dei figli di Borsellino e del loro avvocato, Fabio Trizzino, la commissione ha sentito alcuni testimoni dell’epoca e negli ultimi mesi ha dato particolare spazio all’ascolto del generale dei carabinieri Mario Mori e di Giuseppe De Donno, processati e assolti nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia (leggi qui) imbastito dalla procura di Palermo, verso la quale il primo nutre sentimenti di disprezzo.
Come i figli di Borsellino e il loro avvocato, gli ufficiali dei carabinieri individuano la ragione dell’uccisione del procuratore aggiunto di Palermo nella sua volontà di indagare sul dossier “Mafia e appalti”, inchiesta da loro avviata sui legami tra Cosa nostra, grandi imprese e politica. Si tratta di una chiave di lettura che – fanno notare molti componenti di minoranza della commissione antimafia – è slegata dalle ragioni della strage di Capaci del 23 maggio 1992 e dalle stragi “continentali”, di Roma, Firenze e Milano nel 1993. Tuttavia le loro obiezioni su quanto affermato da Mori e De Donno sono state censurate da Colosimo.
C’è anche chi, come il professore di diritto penale Giuseppe Fiandaca, ha una posizione diversa e afferma in maniera netta – in un'intervista a Il Foglio – che “questa commissione antimafia deve chiudere” perché “è diventata un oggetto di confusiva sovrapposizione rispetto alcune indagini in corso. Invade terreni che non le competono”. E allora andiamo a vedere cosa sta facendo negli ultimi mesi la procura di Caltanissetta, a cui spetta il compito di indagare reati commessi o subiti dai magistrati di Palermo e che da oltre 30 anni lavora sulle stragi del 1992.
"Commissione antimafia sotto sequestro", M5s contro Colosimo
La procura di Caltanissetta, guidata da Salvatore De Luca, ha avviato accertamenti a partire da alcune circostanze emerse nelle audizioni a Palazzo San Macuto, sede della commissione antimafia. Da questi accertamenti si è arrivati a un’inchiesta che coinvolge gli ex pm Giuseppe Pignatone (poi procuratore a Reggio Calabria e a Roma) e Gioacchino Natoli e il generale della Guardia di Finanza Stefano Screpanti. Sono indagati di favoreggiamento alla mafia perché, secondo le ipotesi investigative, avrebbero “insabbiato” e infine distrutto alcune intercettazioni – trasmesse dalla procura di Massa Carrara – da cui emergevano collegamenti tra Cosa nostra e società del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini (imprenditore di rilievo e protagonista delle indagini di Mani Pulite sulla corruzione dei partiti). I pm nisseni ritengano che ciò sia avvenuto per volontà dell'allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco (morto nel 2018), e dell'aggiunto Pignatone.
Natoli ha risposto pubblicamente di non aver distrutto nulla, tant’è che in seguito negli archivi del Palazzo di giustizia sono stati ritrovati sia le bobine, sia i brogliacci (le trascrizioni). Da tempo sono in corso perizie per ripulire gli audio, trascrivere e rileggere il materiale. Intanto Natoli è finito sotto intercettazione e alcune conversazioni con l’ex collega Roberto Scarpinato, ora senatore del M5s, sono state trasmesse alla commissione antimafia, fornendo ai suoi membri di destra una leva per chiederne l’esclusione dai lavori per conflitto d’interesse.
“Lo hanno fatto senza neanche chiedere l’autorizzazione al Senato – dichiara l’avvocato Fabio Repici, che assiste Salvatore Borsellino, fratello di Paolo –. Se lo stesso fosse stato fatto in passato per il senatore Marcello Dell’Utri, la destra avrebbe fatto le barricate. Invece per Scarpinato lo reputano accettabile”. L’avvocato si spinge a dire che tra la procura di Caltanissetta e la commissione parlamentare non c’è semplicemente una “sovrapposizione”, come dice Fiandaca, ma che la prima si sia sottoposta alla seconda, come dimostrerebbe la trasmissione di intercettazioni non penalmente rilevanti di un parlamentare.
La destra contro i conflitti d'interessi, ma solo in commissione antimafia
“Il primo ostacolo è il buio istituzionale che avvolge la vicenda della sottrazione dell'agenda rossa dalla borsa di mio padre che aveva con sé il giorno in cui la strage è stata compiuta, sottrazione della quale naturalmente risentono le indagini perché sarebbe stata una fonte inoppugnabile di informazioni che ci avrebbe consentito di colmare (penso di ritenere) tutti i tasselli mancanti di questa storia”Lucia Borsellino - Audizioni in Antimafia il 6 ottobre 2023
C’è un altro filone coordinato dalla procura di Caltanissetta e condotto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros), che stanno dando la caccia all’agenda rossa di Paolo Borsellino, quella su cui il magistrato appuntava informazioni sulle sue attività e spunti investigativi. “Il primo ostacolo è il buio istituzionale che avvolge la vicenda della sottrazione dell'agenda rossa dalla borsa di mio padre che aveva con sé il giorno in cui la strage è stata compiuta, sottrazione della quale naturalmente risentono le indagini perché sarebbe stata una fonte inoppugnabile di informazioni che ci avrebbe consentito di colmare (penso di ritenere) tutti i tasselli mancanti di questa storia”, spiegava Lucia Borsellino in commissione antimafia il 6 ottobre 2023.
Il 26 giugno scorso, i carabinieri hanno perquisito tre abitazioni di Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta nel periodo delle stragi, alla ricerca del reperto mancante. Nelle due case in provincia di Caltanissetta e nella terza, ad Acicastello (Catania), non è stato trovato nulla. Nulla neanche in una cassetta di sicurezza utilizzata in una banca dall’ex magistrato. È emersa la presunta affiliazione a una loggia massonica coperta con sede a Nicosia (Enna), dove Tinebra aveva prestato servizio dal 1969 al 1992. Sulla base di alcune indagini passate, delle dichiarazioni di alcuni pentiti e di testimoni, quella loggia era confluita nel “Terzo oriente”, organizzazione che mirava a prendere l’eredità della P2. La circostanza dell'affiliazioni massonica– scrive Salvo Palazzolo su La Repubblica – viene ricollegata all’indagine su mafia e appalti, perché alcuni imprenditori e mafiosi indagati “erano inseriti in ambienti massonici”.
Tinebra era già finito al centro di polemiche per come aveva coordinato le indagini sull’attentato del 19 luglio. Nei giorni tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio non ha mai fatto raccogliere la testimonianza di Borsellino. Aveva inoltre coinvolto nelle indagini il Sisde (i servizi segreti interni) di Bruno Contrada, fatto del tutto irrituale per un’inchiesta giudiziaria. Non avrebbe mai sollevato dubbi sul lavoro del gruppo “Falcone-Borsellino”, squadra di investigatori guidata dal capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, e sulle dichiarazioni del finto pentito Vincenzo Scarantino, criminale di basso rango che – spinto da La Barbera e dai suoi uomini – si auto-accusò della strage, fornendo informazioni false. Un grande depistaggio, forse il più grande depistaggio della storia italiana.
Da via D’Amelio, venne portata via la borsa di Paolo Borsellino, consegnata a La Barbera e per mesi mai repertata. Secondo la famiglia Borsellino, sicuramente conteneva la famosa agenda rossa. Tra gli atti dell’inchiesta, che stando alla nota della procura di Caltanissetta è contro ignoti, c’è un appunto del 20 luglio 1992 firmato da La Barbera: “In data odierna, alle 12 viene consegnato al dr. Tinebra, uno scatolo in cartone contenente una borsa in pelle ed una agenda appartenenti al giudice Borsellino”. Secondo la procura nissena era un appunto “privo di qualsiasi sottoscrizione per ricevuta di quanto indicato da parte del dott. Tinebra non era mai stato trasmesso a quest’ufficio nell’ambito delle indagini per la strage di via D'Amelio, né il dott. La Barbera ne aveva mai fatto menzione nel corso delle sue escussioni”. Le verifiche non hanno permesso di verificare se la consegna “sia effettivamente avvenuta nelle mani” di Tinebra, né che si trattasse proprio dell'agenda rossa e non di quella ordinaria, “poi effettivamente rinvenuta”.
Il procuratore Salvatore De Luca e i suoi sostituti osservano comunque che, in ogni caso, la borsa recuperata in via D’Amelio sarebbe “pervenuta nella disponibilità del dott. La Barbera il 19 luglio sera” e sarebbe stata consegnata nella tarda mattinata del 20 luglio 1992, con la conseguenza che La Barbera “avrebbe avuto tutto il tempo di prelevare o estrarre copia della più volte citata agenda rossa”.
Già nel settembre 2023, informava La Repubblica, la moglie e la figlia del funzionario di polizia avevano subito altre perquisizioni, sempre finalizzate alla ricerca dell’agenda rossa di Borsellino. Questi accertamenti erano partiti dopo le dichiarazioni di un testimone, il padre di un’amica della figlia di La Barbera, destinataria di alcune confidenze. Per questa ragione la moglie e la figlia del dirigente di polizia erano state indagate per ricettazione aggravata dal favoreggiamento alla mafia.
Secondo l’avvocato Repici, è ancora mistero sul ruolo di Giovanni Arcangioli, il capitano dei carabinieri che aveva prelevato dall’auto di Borsellino la sua borsa con le agende. “L’agenda rossa era sicuramente lì dentro, poi è sparita”.
Intanto sulla pista nera, quella che lega l’operato di alcuni neofascisti a Cosa nostra nelle stragi, sembra essere messa in ombra, ma non è chiusa. A darne notizia è stato ilfattoquotidiano.it. Se i pm di Caltanissetta hanno chiesto l’archiviazione, il 14 luglio il giudice per le indagini preliminari ha respinto la loro domanda dopo l’intervento dell’avvocato Repici, che ha chiesto di prendere in considerazione un documento, “l’unico atto giudiziario su Capaci che porta la firma di Borsellino”, il verbale di una riunione tra i pm di Palermo e Caltanissetta del 15 luglio 1992.
Secondo Repici è un reperto importante, che dimostra un aspetto cruciale: “Borsellino in quel periodo aveva un solo interesse, ed era l’indagine su Capaci e non quella su mafia e appalti”. E come poteva lui, magistrato della procura di Palermo con la responsabilità delle inchieste di mafia sull’area trapanese, indagare su un fatto, la cui competenza spettava a Caltanissetta? Con un’escamotage legale, facendosi dare la delega per le inchieste di mafia su Palermo, così da poter raccogliere le dichiarazioni di Alberto Lo Cicero, un informatore poi divenuto pentito, sulla presenza di Stefano Delle Chiaie in Sicilia nei giorni della strage di Capaci. “Anche De Donno l’11 dicembre 1992 disse ai pm di Caltanissetta che Borsellino era soltanto interessato all’inchiesta su Capaci”, aggiunge l’avvocato.
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Sono stati finora cinque i processi svolti a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio. Il 5 ottobre 2021, al termine del processo Borsellino quater, la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva due boss palermitani, Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, e a condanne più lievi (per calunnia) due finti pentiti, istruiti come Scarantino (prosciolto per la prescrizione dei reati). Si trattava del procedimento nato dopo il pentimento del boss di Brancaccio Gaspare Spatuzza, che nel 2008 ha confessato di essere stato lui a rubare la Fiat 126 usata per l’attentato e ha sbugiardato i racconti di Scarantino e di altri pentiti, imbeccati da Arnaldo La Barbera e dai suoi collaboratori.
Alcuni di questi poliziotti sono stati processati per favoreggiamento. Il 4 giugno 2024 la Corte d’appello di Caltanissetta proscioglieva, per la prescrizione dei reati, tre agenti di polizia, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, componenti della squadra “Falcone-Borsellino”, accusati di favoreggiamento per aver depistato le indagini. Per altri quattro componenti della squadra “Falcone-Borsellino” è cominciato un altro processo, forse destinato alla stessa conclusione, la prescrizione di reati.
La commissione guidata da Colosimo, che ha poteri di indagine, vuole audire il procuratore De Luca e i suoi colleghi del pool “Stragi” impegnati nelle inchieste, molte delle quali sono ancora in corso e coperte quindi dal segreto investigativo. Doveva essere prima dell'anniversario della strage di via D'Amelio, ma non è ancora stata fissata. E viene da chiedersi se quest'audizione posso rientrare tra le prerogative dell'Antimafia parlamentare, o se sia un tentativo di influenzare la giustizia o di conoscere nuovi dettagli utili allo scontro politico.
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