Piersanti Mattarella, i pm indagano su due killer di Cosa nostra. La pista nera è chiusa?

Nino Madonia e Giuseppe Lucchese ufficialmente indagati a 45 anni dall'omicidio del presidente della Sicilia, erede di Moro che poteva arginare le infiltrazioni di Cosa nostra nella politica. Sembra la fine della pista che porta alla destra eversiva, ma Madonia era in contatto coi servizi segreti

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

17 gennaio 2025

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Killer eccellenti di Cosa nostra, Nino Madonia e Giuseppe Lucchese. Sono loro i due mafiosi – già condannati per molti altri importanti omicidi e tuttora detenuti – indagati dalla procura di Palermo quali esecutori materiali dell’omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio 1980 sotto casa sua in via Libertà a Palermo. La notizia è stata pubblicata da La Repubblica alla vigilia del 45° anniversario dall’assassinio di quello che era considerato sia l’erede politico di Aldo Moro, segretario nazionale della Democrazia cristiana sequestrato e ucciso due anni prima dalle Brigate rosse, sia l’uomo che voleva ripulire la politica e la Dc in Sicilia. L’iscrizione “non è stata comunicata con un atto, le indagini restano segretate”, ha spiegato a lavialibera il difensore di Madonia, Giorgio Vianello Accorretti.

La notizia dell’indagine sui due uomini di Cosa nostra ha un aspetto importante perché riapre una questione sorta negli anni Ottanta e più volte emersa: quale pista seguire per risolvere l’omicidio di Piersanti Mattarella? Due sono le ipotesi investigative dibattute: quella di un delitto politico voluto dai vertici della mafia contro un politico che voleva mettere fine ai loro affari, oppure quella di un delitto politico realizzato da uomini dell’estrema destra in combutta con l’organizzazione criminale palermitana. La prima ha portato, alla fine degli anni Novanta, alle condanne dei mandanti: nomi importanti, come Totò Riina, Bernardo Provenzano e altri. La seconda, invece, era un’ipotesi individuata da Giovanni Falcone negli anni Ottanta, ritenuta alternativa o complementare alla pista mafiosa, e più volte rilanciata e corroborata da informazioni e letture di altri importanti processi italiani, come quello sulla strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. A queste letture, poi, si uniscono analisi politiche più ampie, legate all’apertura di Mattarella verso il Partito comunista italiano (come voleva fare Moro) avversata da una parte degli apparati dello Stato, quelli legati alla loggia massonica deviata della P2, e dagli Stati Uniti.

“I tempi sembrano oggi maturi per una ricostruzione approfondita di una delle fasi più drammatiche della storia del nostro Paese”, hanno affermato i deputati del Pd Anthony Emanuele Barbagallo e Chiara Braga, che nel 2023 hanno proposto di istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sull'omicidio Mattarella e sulla stagione del terrorismo mafioso dal 1970 al 1993.

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Gli indagati

Il 6 gennaio 1980 Piersanti Mattarella stava uscendo di casa con la moglie Irma Chiazzese, il figlio Bernardo Mattarella e la suocera per andare a messa, quando un giovane con un giubbino azzurro, a volto scoperto, si è avvicinato al lato guidatore e ha sparato. Il killer poi è corso verso una Fiat 127 (rubata la sera prima), ha ricevuto un’altra pistola, e ha esploso altri colpi. Chi c’era in quel comando?

Secondo la procura di Palermo, c’era Nino Madonia, un nome già emerso in passato nelle ricostruzioni fornite da alcuni pentiti. Mai però si era ancora arrivati alla sua ufficiale iscrizione nel registro degli indagati. L’uomo è il figlio di Francesco Madonia, boss della Resuttana, zona di Palermo in cui è avvenuto l’assassinio. Attualmente Madonia ha 72 anni, è detenuto al 41-bis (confermato un anno fa dalla Cassazione) e all’epoca dell’assassinio ne aveva 28. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, sarebbe stato lui a sparare. L'autista sarebbe stato Lucchese, detto Lucchiseddu, 67 anni. All’epoca ne aveva 22. È possibile che ci fossero anche altre persone coinvolte.

Madonia ha ottenuto negli anni pesanti condanne per l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo, per quello del giudice Rocco Chinnici, del commissario Ninni Cassarà e dell’agente Roberto Antiochia, per l’assassinio del deputato comunista Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo, per la strage di Pizzolungo a Trapani (in cui morirono Barbara Rizzo e i figli Giuseppe e Salvatore Asta) e per il fallito attentato a Giovanni Falcone avvenuto all’Addaura. Un curriculum – non esaustivo – che fa paura. Più di recente (in primo grado e in appello) è stato ritenuto il responsabile dell’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio.

Madonia, inoltre, era in contatto con uomini dei servizi segreti, come Giovanni Aiello, detto “faccia di mostro”, e soprattutto Bruno Contrada, ex capo della Squadra mobile di Palermo e poi alto funzionario dei servizi segreti, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, condanna poi annullata dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quello tra i Madonia e i servizi segreti era un rapporto cominciato – così sostengono i magistrati sulla base delle dichiarazioni dei pentiti – dopo alcuni attentati dinamitardi compiuti, anche contro edifici pubblici, nel periodo natalizio del 1970, poche settimane dopo il fallito golpe Borghese. “Strategia della tensione mafiosa”, l’ha definita la procura palermitana. Secondo il pentito Francesco Di Carlo, vicino a Riina, furono messe “su richiesta di soggetti esterni”. 

Se il suo nome era già emerso – al punto che nel processo per l'omicidio Agostino l'avvocato Fabio Repici, difensore di parte civile, aveva affermato che è Nino Madonia l'assassino di Mattarella –, l’elemento più nuovo è il nome di Giuseppe Lucchese, altro killer di Cosa nostra con molte condanne alle spalle. Latitante dai primi anni Ottanta fino al 1990, aveva fatto parte del gruppo di fuoco dei Corleonesi guidati da Riina, e uccise decine di persone tra cui la sorella, la madre e la zia di Francesco Marino Mannoia dopo la notizia del pentimento di quest’ultimo. È anche lui tra i condannati per gli omicidi di Pio La Torre, Ninni Cassarà e Beppe Montana.

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Il processo ai mandanti

“È senza dubbio alla Commissione, organismo di vertice di Cosa Nostra che deve riconnettersi la decisione di eliminare il presidente Mattarella, per i danni che la sua azione aveva già arrecato e, ancor più, per il pericolo che egli rappresentava per il futuro degli interessi di natura illecita ed affaristica che facevano capo all'organizzazione stessa”Corte d'assise di Palermo - Sentenza del 12 aprile 1995

Sul caso Mattarella, finora erano stati condannati in via definitiva come mandanti i capi della cupola di Cosa nostra: Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci. “È senza dubbio alla Commissione, organismo di vertice di Cosa Nostra che deve riconnettersi la decisione di eliminare il presidente Mattarella, per i danni che la sua azione aveva già arrecato e, ancor più, per il pericolo che egli rappresentava per il futuro degli interessi di natura illecita ed affaristica che facevano capo all'organizzazione stessa”, si legge nelle motivazioni del primo grado. E ancora: “È chiaro infatti, dalle dichiarazioni dei collaboranti, che l’omicidio Mattarella fu fortemente voluto da Riina e dai corleonesi”, e non trovava d’accordo Stefano Bontate, a capo di un’ala tradizionalista che previlegiava un’infiltrazione “non violenta” e poteva puntare sui legami con Salvo Lima.

Il processo – che riguardava anche altri omicidi politici rilevanti, come quello del segretario provinciale della Dc Michele Reina e quello di Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista e deputato – vedeva al banco degli imputati anche Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, due terroristi dei Nuclei armati rivoluzioni, formazione della destra eversiva, entrambi condannati definitivamente per la strage alla stazione di Bologna. A lungo sono stati ritenuti anche gli esecutori materiali del delitto Mattarella, ma nel corso del processo degli anni Novanta sono stati assolti per assenza di prove.

Già in quei procedimento alcuni pentiti sollevato sospetti su Madonia. “Tutti i collaboranti che hanno reso dichiarazioni sugli esecutori materiali del delitto sono concordi nell’indicare il Nino Madonia come uno dei killer del presidente della Regione siciliana”, è scritto nelle motivazioni della sentenza della corte d’assise d’appello di Palermo del 17 febbraio 1998. Nuove indagini erano cominciate dopo la requisitoria del procuratore generale Leonardo Agueci, che aveva ricordato le dichiarazioni rese dal pentito Francesco Di Carlo, secondo il quale Mattarella fu assassinato da Madonia in un commando con altri due mafiosi, deceduti in carcere anni prima.

Perché era stato ucciso Piersanti Mattarella?

“La assoluta indisponibilità di Mattarella a qualsiasi tipo di compromesso poneva a repentaglio quegli equilibri tra le amministrazioni pubbliche e gli interessi mafiosi che attraverso altri soggetti era stato ormai da tempo possibile creare e mantenere”Corte d'assise di Palermo - Sentenza del 12 aprile 1995

Nella sentenza del 1995 contro i mandanti, si legge che con l’elezione di Piersanti Mattarella a presidente della Sicilia nel 1978, gli interessi affaristico-mafiosi, “consolidati in seno al potere politico in sede comunale e regionale, erano stati messi in discussione (ed erano a rischio)” e questo avveniva “proprio ad opera di un esponente della Democrazia Cristiana, il partito che fino ad allora aveva detenuto il potere in Sicilia in forma indiscussa e aveva assicurato alla mafia, in un regime di sostanziale egemonia, la gestione di tutti i più importanti affari della vita economica siciliana, a cominciare dagli appalti delle opere pubbliche”.

Mattarella aveva avviato delle iniziative legislative per limitare il malaffare nei lavori pubblici e nell’edilizia, ad esempio “ripulendo” l’assessorato ai lavori pubblici, ordinando controlli sull’appalto per la costruzione di sei scuole a Palermo e cambiando la legge urbanistica, fatti che provocarono malumori tra gli imprenditori edili e i proprietari terrieri. Il politico Dc voleva interrompere dei rapporti clientelari tra politica e gruppi di potere e per questa ragione era aperto a un dialogo con le forze politiche della sinistra. Tutto questo lo aveva reso inviso a Vito Ciancimino, ex sindaco Dc di Palermo e punto di riferimento politico dei Corleonesi.

“La assoluta indisponibilità di Mattarella a qualsiasi tipo di compromesso poneva a repentaglio quegli equilibri tra le amministrazioni pubbliche e gli interessi mafiosi che attraverso altri soggetti era stato ormai da tempo possibile creare e mantenere”, scriveva la corte d’assise nelle motivazioni sottolineando che Piersanti Mattarella era portatore “di una rinnovata disponibilità al confronto, anche in sede locale, con il Pci”, perché “stava cercando di allargare l’area della maggioranza ad altri partiti, compreso il Pci, proprio per diminuire il potere di condizionamento dei gruppi più ostili alla sua politica di rinnovamento”.

Nel corso delle indagini, l'attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fratello della vittima, aveva dichiarato:

“In questi anni ho maturato il convincimento, che peraltro mi si è fatto strada già nell’immediatezza dell’omicidio di mio fratello, che quest’ultimo è stato ucciso per tutta una serie di fattori fra di loro concatenati che hanno ispirato la decisione di eliminarlo. Già dalla istruttoria ritengo che sia emerso che mio fratello, quando era presidente della Regione siciliana, ha compiuto dei gesti molto significativi che di per sé, in un ambiente intriso di mafiosità, avrebbe potuto provocarne l’uccisione”.

La “pista nera”: il coinvolgimento dei Nar

“È quindi un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera’ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa”Giovanni Falcone - Audizione alla commissione parlamentare antimafia

La pista della destra eversiva era stata individuata  da Giovanni Falcone negli anni Ottanta e, di recente, è stata rilanciata dopo la sentenza con cui la corte d’assise di Bologna, il 9 gennaio 2020, ha condannato all’ergastolo Gilberto Cavallini, dei Nuclei armati rivoluzionari, per avere agevolato l’esecuzione della strage di Bologna da parte di Giusva Fioravanti e altri estremisti di destra (la condanna a Cavallini è stata confermata mercoledì dalla Cassazione). Quasi cento pagine delle motivazioni sono dedicate all’omicidio di Piersanti Mattarella, ripercorrendo le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva, al giudice istruttore di Palermo, Giovanni Falcone, e una serie di indizi.

“Io so infatti, per avermelo lui stesso rivelato, che egli è coinvolto nell'omicidio Mattarella”, aveva detto Cristiano Fioravanti il  29 marzo 1986. Di mezzo ci sarebbe stato uno scambio di favori con “imprecisati ambienti che avevano interesse alla uccisione del presidente della Regione siciliana”. Aveva raccontato di una riunione a casa di Francesco Mangiameli, militante palermitano di estrema destra che aveva ideato l’evasione dal carcere di Pierluigi Concutelli, un camerata detenuto per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio. La riunione era stata fatta “in periodo che non so di quanto antecedente all’omicidio del Mattarella”. “Aggiunse mio fratello – diceva Cristiano Fioravanti – che l’omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal Cavallini”. In un altro interrogatorio, precisava che il fratello non gli fece il nome di Mattarella, ma parlò genericamente di un politico siciliano che stava tornando da messa insieme alla moglie. Cristiano era convinto che il fratello era stato “strumentalizzato” e “utilizzato” dai poteri occulti contro cui si battevano. Per anni ha confermato e poi ritrattato le sue dichiarazioni, al punto che i giudici del primo processo per l’omicidio Mattarella non lo hanno ritenuto attendibile.

Giovanni Falcone non escludeva a priori la pista neofascista. Lo aveva spiegato lui stesso il 3 novembre 1988 alla commissione parlamentare antimafia, di fronte alla quale dava conto dei rapporti tra Cosa nostra e la politica, di un’indagine su Ciancimino e poi degli “omicidi politici” di Reina, Mattarella e La Torre: “L’esecuzione, le modalità, indicano chiarissimamente che sono omicidi eseguiti da personaggi collegati alla criminalità mafiosa. Ma il movente (senza che ci si possa addentrare in particolari) non è sicuramente mafioso o comunque non è esclusivamente mafioso”.

Proseguendo, aggiungeva che “il problema di maggiore complessità per quanto riguarda l’omicidio Mattarella deriva dall’esistenza di indizi a carico anche di esponenti della destra eversiva quali Valerio Fioravanti. Posso dirla con estrema chiarezza perché risulta anche da dichiarazioni dibattimentali da parte di Cristiano Fioravanti che ha accusato il fratello, di avergli detto di essere stato lui stesso, insieme con Gilberto Cavallini, l’esecutore materiale”.

“È quindi un’indagine estremamente complessa – proseguiva – perché si tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera’ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa”. O alternativa, o complementare. “Il che potrebbe significare saldature e soprattutto – aggiungeva – la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Era lui il primo a rimarcare che “per parecchi punti la materia è coincidente” con il processo per la strage di Bologna e che “ci sono collegamenti e coincidenze anche con il processo per la strage del treno Napoli-Firenze-Bologna”, alcuni dei quali “risalgono a certi passaggi del ‘golpe Borghese’” in cui “sicuramente” era coinvolta Cosa nostra, come dimostrano le bombe messe dai Madonia nel Natale 1970. “Questi elementi comportano per l’omicidio Mattarella, se non si vorrà gestire burocraticamente questo processo, la necessità di una indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi”.

I dubbi sulla pista nera

Per il superpentito Tommaso Buscetta, la strada della destra eversive non era quella giusta. Da quanto sapeva lui, l’omicidio era stato deciso dalla Cupola, cioè il massimo organo di Cosa nostra, ed era stato Riina a volerlo, “pur con qualche dissenso”, ad esempio quello di Stefano Bontate e altri boss. Il pentito garantiva “che i fascisti (cioè gli esponenti dei Nar, ndr) in questo omicidio non c’entrano” perché “la Cosa nostra non fa agire, per ammazzare un presidente della regione, due fascisti. È un controsenso”.

In seguito, i magistrati esclusero il coinvolgimento di Fioravanti e Cavallini. Dalle sentenze, emergono alcuni dettagli. Ad esempio, Fioravanti assomigliava a Nino Madonia e questo potrebbe aver tratto in inganno: “Il Di Carlo (Francesco, ndr) ha riferito di avere, vedendo la fotografia sui giornali di Valerio Fioravanti, commentato con lo stesso Brusca il fatto, rilevando come il Nino Madonia somigliasse moltissimo al terrorista nero – scrive la corte d’assise –. In particolare, il Madonia, come il Fioravanti, aveva gli occhi chiari e l’espressione degli stessi era glaciale”. Su questa somiglianza concordavano anche i giudici palermitani.

La pista nera, quindi, è chiusa? “Nino Madonia è forse più fascista e più ammanicato coi servizi segreti di quanto lo fosse Giusva Fioravanti”, riassume l'avvocato Repici.

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