3 novembre 2024
Un filo rosso lega stragi e omicidi commessi dalla mafia in Sicilia che se letti nella loro unitarietà, mettendoli assieme e senza tralasciare nulla, possono dare – ne siamo convinti – letture corrette, e non soltanto sulla storia (perché trattandosi di fatti risalenti a oltre 40 anni addietro è in questo archivio della memoria che sono da collocare), ma anche sull’attualità. E quel filo rosso finirebbe sicuramente col tingersi di nero. Parlare di mafia in Sicilia e solo di mafia è sbagliato. Qui, in terra siciliana, Cosa nostra è stata storicamente a contatto con la destra eversiva, lo scrisse negli anni ’70 un poliziotto, Giuseppe Peri, capo della Squadra Mobile di Trapani, costretto a finire la sua carriera in un sottoscala della Questura di Palermo dove morì di infarto. In quel rapporto anche altre tracce, la massoneria e quei pezzi di istituzioni che pensavano a proteggere un certo potere. La mafia borghese, quella dei latifondisti e di certi banchieri, i grandi riciclaggio di denaro.
Era il 2 aprile 1985 quando a Pizzolungo (sulla strada costiera tra Erice e Trapani) un’autobomba destinata al pm Carlo Palermo fece strage di una famigliola. Vennero dilaniati Barbara Rizzo, 30 anni, ed i suoi due gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta, avevano sei anni. Barbara stava portando con la sua auto i figli a scuola. Su quella maledetta curva la blindata del magistrato superò l’utilitaria guidata da Barbara Rizzo, non ci riuscì del tutto perché in quell’istante venne innescata l’esplosione. La vettura con la famiglia fece da scudo a quella con a bordo il magistrato, salvando la sua vita.
Strage di Pizzolungo, intervista a Margherita Asta
Il 21 giugno 1989 il giudice Giovanni Falcone scampava ad un attentato mentre si trovava nella sua casa al mare all’Addaura di Palermo. In fondo alle scale realizzate su di una scogliera e che portavano al mare, c’era un borsone pieno di esplosivo e un innesco elettronico. Qualcuno della scorta si accorse di tutto in tempo e la bomba preparata fu disinnescata. Era un periodo in cui Falcone indagava sulle casseforti svizzere dei grandi riciclaggi e sull’omicidio del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella.
Pochi mesi dopo, il 5 agosto, un giovane poliziotto, Nino Agostino, e sua moglie, sposata da poco, Ida Castelluccio, furono uccisi da un paio di sicari nella casetta sulla costa di Villagrazia di Carini, periferia palermitana. Ida portava in grembo quel figlio che resterà così mai nato per colpa di quei sicari. Dopo 35 anni ci sono state le sentenze che hanno condannato i mafiosi responsabili della loro morte, Nino Madonia e Gaetano Scotto. Nell'ottobre 2023 la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'ergastolo al primo, che aveva optato per il rito abbreviato. Il 7 ottobre scorso la Corte d'Assise di Palermo ha condannato il secondo al massimo della pena, ergastolo con isolamento diurno.
Agostino il segugio messo sulle tracce dei latitanti e degli incroci pericolosi, morto forse per aver scoperto certi traditori in divisa e le coperture istituzionali garantite a Cosa nostra. Sarebbe stato lui a fare arrivare alla scorta di Falcone l’avviso che qualcosa all’Addaura poteva accadere, e quindi la vigilanza divenne più attenta e quel borsone tra gli scogli non passò non visto. E Falcone, che conosceva bene Agostino per avergli affidato compiti in maniera diretta, all’indomani del duplice omicidio di Villagrazia di Carini, confidò a Saverio Montalbano, dirigente del commissariato San Lorenzo di Palermo, dal quale dipendeva Nino Agostino:
“Montalbano vedi che questa è una cosa fatta contro di me e contro di te”
Perché citiamo questi tre episodi? Pizzolungo e l’Addaura hanno in comune l’esplosivo. Era dello stesso tipo, la stessa mistura, precisa precisa. Esplosivo fatto di tritolo, T4, pentrite, semtex. Il semtex usato per potenziare l’innesco, si può trovare solo nelle polveriere militari e non nelle grotte o nei nascondigli mafiosi. E per raccontarla per intero, era lo stesso esplosivo comparso già nel 1984 sulla scena dell’attentato al treno 904, il rapido Napoli-Milano: nella sera del 23 dicembre mentre il treno attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro (la stessa della strage dell'Italicus del 1974), una carrozza venne dilaniata dal “botto” dell’attentato; sarà anche l’esplosivo comparso sulla scena della strage di via d’Amelio, il 19 luglio 1992, quando a Palermo furono uccisi il procuratore Paolo Borsellino e la sua scorta, Emanuela Li, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano.
In questi episodi c’è il comune denominatore dell’esplosivo, e poi Pizzolungo e il delitto Agostino-Castelluccio, hanno uno stesso responsabile, Nino Madonia, e quegli ordini di morte partiti da vicolo Pipitone di Palermo, dallo “scannatoio” dei Galatolo. Ma sovrapponibili sono anche i contorni di quelle trame che sebbene accennate e accennabili, con ritardo sono venute fuori e che intricate restano: un intreccio di interessi e legami coinvolgenti, a vario titolo, criminalità mafiosa ed entità finalizzate alla destabilizzazione istituzionale, stragismo mafioso che aveva tanto di quello terroristico, di quegli episodi criminali, come l’attentato al Treno Rapido 904, dove resterà forte il sospetto che il mandante era da ricercarsi in soggetti che frequentavano le logge della massoneria segreta e gli uffici degli apparati di sicurezza dello Stato. E leggendo questi atti si finisce al nostro punto di partenza, a quella mafia che con la destra eversiva costituivano una unica identità.
Gli omicidi del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Catelluccio sono dentro questo intreccio. E dentro questo insanguinato crocevia c’è Trapani. La terra della mafia borghese. La terra dove certuni per decenni hanno fatto finta di dar la caccia ai mafiosi, tanto da far dire al pentito Nino Giuffrè che “a Trapani la mafia sapeva tenere i cani attaccati”, e dove Gladio, la struttura para militare dei servizi segreti, Stay behind, nata in funzione antisovietica negli anni della Guerra fredda, aveva la sua base, il centro Scorpione, e altre cellule tra Trapani, Palermo e Agrigento. Se c’era Gladio, c’erano anche gli 007 della nostra intelligence. L’arco di tempo è quello degli anni ’80. Ma per prendere i mafiosi abbiamo dovuto attendere gli anni dopo le stragi del 1992.
Trapani. Dove domina (il) Denaro
Nino Agostino non faceva parte dei “cani attaccati”. Anzi. Non era nemmeno organico alla Questura di Trapani. Dove se ogni tanto qualche poliziotto faceva il proprio dovere, nessuno poi andava a elogiarlo. Accadde a Giuseppe Peri, lo abbiamo detto, ma anche a Ninni Cassarà che dopo aver fatto irruzione nel “circolo dei nobili” venne trasferito a Palermo e lì nel 1985 ci furono i killer ad attenderlo, oppure a Giorgio Collura che finì infangato e ingiustamente arrestato perché custodiva i segreti delle indagini del giudice Ciaccio Montalto, era un testimone scomodo dopo il delitto del magistrato, ed ancora a Saverio Montalbano, rimosso dall’incarico dopo aver scoperto gli elenchi della loggia del circolo Scontrino, con dentro mafiosi, colletti bianchi, alti burocrati, un paio di giudici, un vice prefetto, una foresta di politici, da ultimo a Rino Germanà, che firmò il rapporto sugli affari loschi della Banca Sicula dei D’Alì (capo fila Antonio, iscritto alla P2, e Tonino, l’ex sottosegretario oggi in carcere per una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, datori di lavoro dei Messina Denaro) per poi essere trasferito a Mazara, una inspiegabile retrocessione che lo vide finire nel mirino di uno spietato commando composto da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, si salvò solo per essere una persona davvero accorta, così da scorgere per tempo il fucile puntato contro.
Antonio D'Alì, il senatore di Forza Italia vicino a Messina Denaro e devoto a Cosa nostra
In quegli anni ’80 Nino Agostino era di casa a Trapani. Veniva a Trapani a naschiare, a cercare la traduzione letterale, così confidò a suo zio che un giorno gli chiese dei suoi viaggi a Trapani, in borghese e portando con se una borsa. Erano gli anni dell’Alto Commissariato Antimafia, non sempre anni limpidi. E oggi di lui vogliamo ricordare i cento chilometri che percorreva per arrivare in questa città da Palermo e che raccontati possono diventare i cento passi verso il prossimo 21 marzo 2025 quando proprio a Trapani verrà celebrata la giornata nazionale organizzata da trent’anni da Libera per ricordare le oltre mille vittime innocenti delle mafie. Abbiamo dovuto attendere oltre un decennio per scoprire che nei mesi in cui Nino Agostino veniva, segretamente, a Trapani, in questa provincia erano nascosti i mafiosi più pericolosi, Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, forse anche Bernardo Provenzano, protetti da don Ciccio Messina Denaro, il patriarca della mafia belicina, e dal mazarese Mariano Agate. Qui dove i mafiosi oltre che essere punciuti erano anche affiliati alla massoneria.
I mafiosi sapevano molto di quei movimenti nascosti della polizia. All’ultimo processo per il duplice omicidio Agostino-Castelluccio, lo ha raccontato il pentito Gaspare Mutolo, la cui deposizione è stata ripresa nelle conclusioni offerte alla Corte di Assise di Caltanissetta dalla parte civile dell’associazione Libera, rappresentata dall’avvocato Enza Rando:
“Ma, allora si fecero soltanto queste illazioni, che c’era una squadretta di poliziotti giovani, che avevano un elenco per cercare dei latitanti, per farli arrestare ecco, però c’erano altri poliziotti per esempio che si prendevano i soldi e raccontavano di stare attenti, mi sono spiegato, insomma è una cosa che veramente troppo lunga e tutta fantascientifica perché in quel periodo ci sono poliziotti che sono amici dei mafiosi e poliziotti che cercano di arrestare i mafiosi, quindi non è che è una cosa facile o uno ha potere di dire questo, si sentivano tante voci...”
Il collaboratore ha descritto quindi l’inquietante contesto in cui l’agente Nino Agostino si ritrovava ad agire, poliziotti che facevano il doppio gioco, vendendo la vita dei colleghi per un riconoscimento economico. Agostino con la sua intraprendenza era riuscito a inimicarsi diverse sfere di potere. Il collaboratore di giustizia Francesco Onorato ha riferito che Agostino aveva dei nemici anche nella stessa polizia.
Un poliziotto che veniva a Trapani per guardare bene cosa accadeva. Alcuni racconti emersi durante i processi contro Madonia e Scotto hanno offerto una ipotesi parecchio credibile: Agostino potrebbe essere finito a frequentare le stanze della Gladio trapanese. Non era un gladiatore vero, ma un infiltrato. Forse lì può aver letto le carte segrete dei traffici di esplosivo da e per Cosa nostra, o ancora di certe operazioni militari, come quelle che nel 1989 si sarebbero svolte nella zona dell’Addaura. Proprio in quei giorni del giugno 1989. Quel tentativo di attentato Falcone lo definì opera di menti raffinatissime, ed è cosa nota che menti raffinate più dei mafiosi sono quelle di certi generali direttori delle agenzie di sicurezza.
Quando uccisero Nino Agostino, Falcone confidò che proprio quel poliziotto lo aveva salvato. Nino Agostino lo ha potuto fare solo potendo leggere certe carte, e oggi che alcuni archivi sono stati aperti, sono venuti fuori quei fascicoli dove si parla di esercitazioni, punti di approdo e tanto altro, e tutto segnato sulla cartina geografica della provincia di Trapani. Nino Agostino custodiva qualcosa nel suo armadio, lasciò scritto che se fosse stato ucciso (quindi sapeva che il lavoro condotto era tanto pericoloso per la sua vita) era lì che bisognava andare a cercare movente e responsabili, ma qualcuno fece in tempo a far sparire tutto, opera sopraffina che ricorda come quando dopo il delitto del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa venne ripulita la cassaforte del suo appartamento. Immaginare i mafiosi che entrano e portano via tutto è un esercizio di immaginazione difficile dal poter riuscire.
ll 1982 e 1992, due anni spartiacque
Una persona che poteva sapere molto su Nino Agostino c’era. C’era perché nel frattempo è morto. Non di morte naturale. Ucciso da fuoco “amico” in Somalia. Si chiamava Vincenzo Li Causi, super agente del Sismi, il servizio segreto militare, capo del centro Scorpione di Trapani. Se Agostino frequentava la Gladio trapanese era con lui che doveva parlare, per forza. Li Causi fu ucciso, per sbaglio, a un check point in Somalia, dove era in missione, il 12 novembre 1993, alla vigilia di una sua partenza per Trapani dove era atteso in Procura per essere sentito sulla Gladio trapanese.
Sul tavolo del magistrati avrebbe potuto riversare tanti segreti. Su quella mafia che aveva trovato le sponde giuste , che era capace di incidere il territorio col bisturi, colpendo non a casaccio, e che usava i traffici “militari”, per i propri fini. Poco considerata ma emblematica resta una testimonianza fatta da un poliziotto durante il processo per l’omicidio del sociologo e giornalista Mauro Rostagno (ucciso a Trapani il 26 settembre 1988): raccontò della droga che negli anni ’80 arrivata con gli aerei cargo che atterravano dentro la base militare dell’Aeronautica di Trapani Birgi.
Mafia, latitanti, Gladio, servizi segreti. Massoneria e destra eversiva completano poi questi intrecci. Questo era il verminaio, trapanese, dove Nino Agostino si trovò catapultato dal commissariato di San Lorenzo di Palermo dove ufficialmente prestava servizio. Non a caso: all’interno di questo commissariato si era avviata una sorta di collaborazione “sperimentale” tra polizia e servizi segreti nelle attività investigative. I servizi segreti sono una costante, spuntano dappertutto, la corrispondenza Messina Denaro-Vaccarino dei primi anni 2000 sono una ulteriore conferma, perché su questa c’era la firma del Sisde del generale Mario Mori. E negli anni di Nino Agostino era proprio il Sisde a primeggiare.
Negli anni ’80, mai dimenticarlo, a Trapani erano di casa, perché qui erano nati, gli uomini dei tentato golpe degli anni 60 e 70, ed erano uomini profondamente di destra come lo erano i generali Vito Miceli e Saverio Malizia. E in quel 1980 crescevano altri comandanti dell’intelligence, certuni abili frequentatori del Quirinale, capaci di darsi del tu con Francesco Cossiga oppure Oscar Luigi Scalfaro. Tra questi il generale Angelo Chizzoni, niente contro di lui, mai toccato da indagini, ma la sua giovanissima moglie sarebbe stata la gola profonda che a Mauro Rostagno avrebbe raccontato di strani movimenti militari su un paio di piste dismesse dell’Aeronautica militare di Trapani.
A Trapani c’è stato di tutto, Sifar, Sisde, Sismi, Gladio. I campi paramilitari dei terroristi di destra. E poi mafia, massoneria, la “supercosa” di Matteo Messina Denaro. Ad uno ad uno o alcuni assieme, li ritroviamo negli atti giudiziari del dopo stragi del 1992, ne sono infarciti quasi tutti i processi eversivi e stragisti. Chiamare tutto questo un verminaio è poca cosa. Lo riconosciamo. Ma non riusciamo a trovare altro termine.
Ma i comuni denominatori non sono solo quelli fin qui citati. Mancano all’appello di depistaggi. Non è un caso che le condanne per i grandi delitti e le stragi di mafia, sono state pronunciate decenni dopo gli accadimenti. Ci sono i mafiosi condannati, ma non abbiamo le complete verità. Ci interroghiamo su chi abbia potuto aiutare i mafiosi nelle loro ultradecennali latitanze, ma non ci interroghiamo ancora oggi e fino in fondo su chi ha reso, per anni, latitanti, le prove delle indagini.
Se cento passi dobbiamo oggi compiere dobbiamo anche farlo alla ricerca dei responsabili dei depistaggi. In giro ce ne sono ancora tanti. E qualcuno oggi, frequentando aule parlamentari, anche come consulenti super considerati, cerca di inquinare i pozzi. Cento passi verso Trapani, dove certe verità, come dice don Luigi Ciotti, girano ancora per queste strade. Quelle stesse che Nino Agostino riuscì a percorrere fino all’estremo sacrificio.
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