Massoneria e mafie sono mondi diversi e distinti, ma che si parlano, si toccano, si intrecciano ormai da molto tempo. Si hanno notizie di questi contatti da decenni, sia nelle stagioni in cui la criminalità organizzata di stampo mafioso è stata stragista sia in quelle più recenti, in cui prevale un profilo affarista.
I punti di contatto tra mafie e logge massoniche deviate (ma non solo deviate), si collocano all’interno della cosiddetta area grigia, lo spazio dei crimini dei potenti, dei reati perpetrati da insospettabili colletti bianchi, esponenti della borghesia politica, amministrativa, imprenditoriale e mafiosa.
Secondo le ricostruzioni emerse da numerose inchieste giudiziarie, le associazioni criminali come ‘ndrangheta o cosa nostra cercano nella massoneria la leva per creare o rafforzare i legami con ambienti in cui circolano potere e denaro. Dalle logge massoniche, le mafie tendono anche a mutuare alcune modalità organizzative. L’elenco delle indagini e dei processi che hanno portato alla luce questo fenomeno è ormai piuttosto lungo, inizia con la P2 e arriva fino all’arresto di Mattia Messina Denaro. Data l’ampiezza di questo legame tra mafie e massoneria, ci si è spinti fino a coniare un nuovo termine per descriverlo: massomafie. L’idea di fondo che si vuole modellare è che esista ormai un vero e proprio sistema massonico-mafioso e che quello tra logge e famiglie criminali sia un legame strutturale e non più occasionale. Visione respinta da molti studiosi, tra cui i professori Anna Sergi e Alberto Vannucci, che definiscono il concetto di massomafia “nebuloso e inconsistente nel confronto con la realtà empirica”. Più corretto, invece, analizzare a fondo e autonomamente ogni singola ipotesi di commistione tra colletti bianchi e criminalità organizzata. Insomma, massoneria e mafia si parlano, fanno affari insieme, ma non agiscono in simbiosi.