La lettura della sentenza del processo Rinascita-Scott nell'aula bunker del Tribunale di Lamezia Terme
La lettura della sentenza del processo Rinascita-Scott nell'aula bunker del Tribunale di Lamezia Terme

Processo Rinascita-Scott, pene pesanti ai boss della 'ndrangheta, più lievi ai politici

A sentenza il processo di primo grado per 338 imputati. 207 le condanne, fino a 30 anni di carcere per boss e gregari delle storiche famiglie della 'ndrangheta del Vibonese. Condannato a 11 anni l'ex parlamentare Giancarlo Pittelli, ma per altri presunti appartenenti alla zona grigia decisioni contrarie alle richieste della Dda di Catanzaro

Francesco Donnici

Francesco DonniciGiornalista

20 novembre 2023

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Così com’era iniziato, nell’aula bunker di Lamezia Terme realizzata per ospitarlo, si è concluso il primo grado ordinario del processo Rinascita-Scott, nato dalla più grande indagine (almeno nei numeri) contro la ‘ndrangheta, in particolare quella operativa nel Vibonese, fino ad oggi. Dopo oltre un mese dallo scorso 16 ottobre, giorno in cui il tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Brigida Cavasino (a latere Claudia Caputo e Germana Radice), si era chiuso in camera di consiglio, è stata data lettura a una sentenza storica che non ha risparmiato le sorprese. Un verdetto, non ancora definitivo, che farà discutere a fronte della portata del giudicato e del carattere di alcuni degli imputati condotti alla sbarra dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro della procura guidata, fino a poche settimane fa, da Nicola Gratteri. Oltre a boss e gregari di alcune storiche famiglie della regione, nel rosario dei 338 nomi oggetto del dispositivo, figurano anche più o meno noti esponenti dell’imprenditoria locale, figure di spicco dell’ambiente politico, come l'ex parlamentare Giancarlo Pittelli, “divise infedeli” e professionisti legati a doppio filo al mondo massonico.

La lettura del dispositivo, iniziata intorno alle 10 del mattino, è durata poco più di due ore e ha visto pronunciate 207 condanne, e assoluzioni, con pene dai trent’anni in giù. L’accusa, rappresentata dai pm Antonio De Bernardo, Andrea Mancuso e Annamaria Frustaci, aveva chiesto 332 condanne, per l’applicazione di complessivi 4.774 anni di carcere, e 16 di assoluzione. L'ipotesi investigativa è stata confermata per larghi tratti, soprattutto nella parte riguardante soggetti ritenuti di fare parte delle famiglie di ‘ndrangheta. Diverso il discorso per i presunti esponenti della “zona grigia” (professionisti, politici e rappresentati delle istituzioni ritenuti complici dei mafiosi, ndr), molti dei quali non sono stati ritenuti dalla corte associati o concorrenti esterni, a differenza di quanto ipotizzato dalla procura. Spicca in tal senso l’assoluzione dell’ex sindaco di Pizzo Calabro e presidente Anci Calabria, Gianluca Callipo, per il quale erano stati chiesti 18 anni di reclusione nonostante già i giudici della fase cautelare avessero ridimensionato le contestazioni a suo carico (valse nel frattempo anche lo scioglimento del comune della costa tirrenica calabrese).

Al processo, che aveva visto celebrare la udienza il 16 gennaio 2021, è stato applicato fino alla conclusione della requisitoria anche l’ex procuratore di Catanzaro, Gratteri, da circa un mese capo della procura di Napoli. Nel bene e nel male, Rinascita-Scott, evocata da molti per analogie e differenze col maxi-processo di Palermo, viene considerato il “suo” processo, innescato da un metodo requirente, quello dell’accorpamento di più indagini volto a evocare il complesso quadro accusatorio dell’“unitarietà della ‘ndrangheta”, secondo i magistrati eredità della "lezione di Falcone e Borsellino", che è stato principale oggetto di discussione fin dai concitati momenti successivi agli arresti del 19 dicembre 2019.

Luigi Mancuso, da Limbadi al "tetto del mondo". Itinerario di un boss

Le condanne: le cosche del Vibonese

Condannato a 30 anni Saverio Razionale, definito dall'ex boss di Vibo Valentia e oggi pentito Andrea Mantella come "il Leonardo da Vinci della ‘ndrangheta", artefice della nascita della "’ndrangheta 2.0"

La maxi-indagine da cui nasce il procedimento vede al centro la cosca Mancuso di Limbadi, centro con poco più di tremila abitanti nel Sud-Ovest della provincia di Vibo Valentia. L’accusa descrive il paese come la “mamma” (la casa madre, ndr) del Vibonese, servendosi anche di alcune intercettazioni riportate in atti. Limbadi è anche il luogo natale del presunto “crimine” (capo) vibonese, Luigi Mancuso, la cui posizione processuale è stata però stralciata: U Supremu, come lo ha definito suo nipote Emanuele Mancuso, primo storico pentito della famiglia, verrà giudicato nel filone calabrese di Dedalo-Petrolmafie, altro importante processo in corso di svolgimento, nato dall’indagine di più procure sugli interessi delle mafie nel business dei carburanti.

Non mancano però le condanne illustri, anche tra i membri della famiglia di Limbadi. Condannati i presunti appartenenti al suo “cerchio magico”, che ne avevano favorito anche la latitanza fino all’arresto di fine 2019. Su tutti si cita il braccio destro Giovanni Giamborino, condannato a 19 anni e 6 mesi, che in una conversazione definisce Mancuso "il tetto del mondo", più influente anche di alcuni storici boss della provincia di Reggio Calabria. La sua condanna, tra le altre, si aggiunge a quella di un altro fedelissimo, Pasquale Gallone, già condannato a 19 anni e 8 mesi nel secondo grado del rito abbreviato.

Petrolmafie, un broker per tutte le organizzazioni

Il filo conduttore contenuto nelle oltre 13mila pagine degli atti cautelari di Rinascita-Scott, è rappresentato dal piano di Luigi Mancuso: uscito dal carcere nel 2012, voleva ricompattare la famiglia ponendosi come "uomo di pace", usando le parole di alcuni pentiti. Gli anni della carcerazione dello “Zio Luigi” sono infatti ricordati come quelli di faide sanguinose, molte delle quali addebitate al nipote, Pantaleone Mancuso detto Scarpuni, marito di Santa “Tita” Buccafusca, ricordata tra le vittime innocenti della ‘ndrangheta, e figlio di “don Turi”, storico esponente dell’ala militare della famiglia. Il piano di Mancuso parte dalla riunione dei due blocchi di potere creatisi all’interno della famiglia per arrivare al progetto di unire sotto l’egida del suo gruppo criminale tutte le ‘ndrine del Vibonese, anche quelle con cui storicamente non correvano buoni rapporti come i Bonavota di Sant’Onofrio o i “piscopisani” (clan di Piscopio, frazione di Vibo Valentia).

l processo tocca tutti o quasi i gruppi attivi nella provincia. Vengono decapitati i vertici presunti di una serie di ‘ndrine e locali (strutture territoriali, ndr) tra cui i Lo Bianco-Barba, i Pugliese e i Pardea-Camillò-Macrì di Vibo Valentia, gli Accorinti di Zungri, i Bonavota di Sant'Onofrio, i Cracolici di Maierato e Filogaso, i Mazzotta di Pizzo Calabro, i Barbieri di Cessaniti, i Fiarè-Razionale-Gasparro di San Gregorio d'Ippona, i La Rosa di Tropea. Una volta ottenuto il potere all’interno della provincia, Mancuso si sarebbe poi rivolto fuori anche ad altri territori, ritessendo la trama di interessi che collegano la sua cosca a famiglie della provincia di Reggio Calabria come i Piromalli di Gioia Tauro e i De Stefano, attivi nel quartiere Archi della città dello Stretto. Le condanne dei vertici della ‘ndrangheta Vibonese

Nel farlo, Mancuso avrebbe ricevuto supporto da alcuni personaggi “carismatici” al vertice di altri storici gruppi della provincia. Tra questi spicca Saverio Razionale condannato a 30 (tanti quanti ne aveva chiesti l’accusa), a capo dei Fiarè-Razionale-Gasparro di San Gregorio d’Ippona. Finito al centro di una serie di inchieste su alcuni fatti di sangue avvenuti nella provincia tra la fine degli anni '80 e l’inizio degli anni '90, dopo il trasferimento a Roma nel 1995 aveva deciso di "mettersi in giacca e cravatta". Il pentito Andrea Martella, ex boss di Vibo Valentia condannato a 8 anni in Rinascita-Scott, lo ha definito "il Leonardo da Vinci della ‘ndrangheta", artefice della nascita della "’ndrangheta 2.0". Secondo la procura Razionale era persona capace di tessere rapporti coi Mancuso e coi loro oppositori quanto con alcuni imprenditori. Su tutti si cita Antonino Delfino, originario di Reggio Calabria, condannato a nove anni di reclusione, finito in affari con Razionale per superare alcuni guai finanziari. Nel suo gruppo societario, l’uomo di San Gregorio d’Ippona investirà 500mila euro in forma occulta per incentivare una rete societaria attiva nel settore dell’abbigliamento tra l’Italia e il Regno Unito, e aprire dei nuovi esercizi commerciali a Vibo Valentia per espandersi ed entrare in affare anche con alcune delle griffe dell’alta moda.

Condannati anche i fratelli Domenico e Pasquale Bonavota, rispettivamente a 30 e 28 anni e ritenuti al vertice del gruppo egemone sul territorio di Sant’Onofrio. Il secondo, in particolare, era l’ultimo latitante rimasto in circolazione dopo il maxi-blitz di fine 2019 e fino al 27 aprile 2023, giorno in cui i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale lo arresteranno mentre pregava nella cattedrale di San Lorenzo, a Genova. A trent’anni di reclusione è stato condannato anche Paolino Lo Bianco, considerato a capo della ‘ndrangheta della città di Vibo Valentia, storicamente legata ai Mancuso, specie dopo la deposizione dei “Pardea-Ranisi”.

La 'ndrangheta nel vibonese, una scelta identitaria

I soggetti “cerniera”: accuse ridimensionate

"L'avvocato Giancarlo Pittelli – si legge nella nota firmata dai difensori – viene condannato per quello stesso reato rispetto al quale solo pochi mesi fa la corte di Cassazione prima, ed il tribunale per il Riesame subito dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza"Gli avvocati difensori

Le pronunce più attese erano però quelle nei confronti dei così detti “soggetti cerniera”, elementi di saldatura tra il mondo mafioso e la società civile in tutte le sue sfaccettature. Spicca in particolare la figura di Giancarlo Pittelli, principe del foro di Catanzaro nelle sue vesti di avvocato penalista nonché difensore per decenni dello stesso Luigi Mancuso e di alcuni esponenti di spicco dei Piromalli di Gioia Tauro; deputato e senatore per diversi mandati, a lungo con Forza Italia prima di passare, nel 2017, a Fratelli d’Italia con tanto di plauso dell’attuale premier Giorgia Meloni che lo definiva "un valore aggiunto per la Calabria e tutta l’Italia".

A Pittelli, condannato a 11 anni di reclusione, l’accusa, che aveva chiesto una condanna a 17 anni, aveva contestato anche il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – stessa ipotesi di reato avanzata anche dalla Dda di Reggio Calabria nel procedimento “Mala Pigna” – definendolo un “Giano bifronte”, capace di mettere in comunicazione il mondo mafioso con quello legale, oltre che massonico, rappresentando, nelle parole pronunciate dal pm De Bernardo durante la requisitoria, la possibilità per Luigi Mancuso "di arrivare dove non può arrivare con la mano sua". Intorno alla figura di Pittelli ruota anche una grande fetta della narrazione oltre il processo, fin dalla fase preliminare. Già al momento dell’arresto nella sua abitazione gli inquirenti avevano ritrovato un pizzino dove erano riportati alcuni elementi contenuti nel provvedimento cautelare firmato dal gip distrettuale Barbara Saccà. Elemento che aveva in parte confermato il timore dei magistrati su una possibile fuga di notizie che avrebbe reso vano il blitz qualora non si fosse presa la "drammatica decisione", così definita da Gratteri, di anticipare l’intervento, all'inizio previsto per venerdì 20 dicembre 2019, di 24 ore. Sorte simile a quella di Pittelli è toccata a un altro professionista, Francesco Stilo, condannato a 14 anni, tra gli altri ex avvocato di Andrea Mantella.

Subito dopo la lettura del dispositivo, i legali di Pittelli, Salvatore Staiano, Guido Contestabile e Giandomenico Caiazza hanno definito la condanna del loro assistito "indispensabile a salvare Rinascita-Scott". "L'avvocato Giancarlo Pittelli – si legge nella nota firmata dai difensori – viene condannato per quello stesso reato rispetto al quale solo pochi mesi fa la corte di Cassazione prima, e il tribunale per il Riesame subito dopo, avevano escluso la sussistenza anche solo di indizi gravi di colpevolezza. Tanto basta a far comprendere, a tutti coloro che abbiano la onestà intellettuale di volerlo fare, quanto questa condanna fosse ad ogni costo indispensabile per salvare la credibilità della intera operazione investigativa Rinascita Scott".

Assoluzioni tra i politici coinvolti

Sul fronte politico, arrivano i ribaltamenti più sensibili. Vale la pena soffermarsi sulle posizioni dell’ex consigliere regionale in quota centrosinistra, Pietro Giamborino, condannato a 1 anni e 6 mesi a fronte della richiesta dell’accusa di 20 anni. Secondo i collaboratori di giustizia, "battezzato" nel locale di Piscopio e pertanto "uomo d’onore" prestato alla politica. Circostanza smentita dal tribunale che non ha riconosciuto l’esistenza del reato di associazione mafiosa ipotizzato nei suoi confronti. Questo verdetto fa il paio con l’assoluzione pronunciata nei confronti di Gianluca Callipo per il quale l’accusa aveva chiesto 18 anni di reclusione. Nei suoi confronti erano contestate una serie di vicende che lo vedrebbero coinvolto nella sua veste di imprenditore attivo nel settore alberghiero-turistico, che lo avrebbero portato a scendere a patti con gli esponenti del gruppo “Mazzotta” capeggiato da Salvatore Mazzotta, condannato a 23 anni, attivo nel noto comune della costa tirrenica sciolto e commissariato qualche mese dopo l’arresto del primo cittadino.

Tra le “divise infedeli” spiccano le condanne pronunciate nei confronti del tenente colonnello dell’Arma dei carabinieri Giorgio Naselli, in forze al comando di Catanzaro dal 2006 al 2017 e comandante provinciale di Teramo al momento del blitz, condannato a a due anni e sei mesi (la richiesta era di otto anni), e l’uomo dei servizi segreti Michele Marinaro, maresciallo della Guardia di finanza, in servizio al centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Catanzaro prima di transitare alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei ministri (a cui fanno capo gli agenti dell'intelligence). Per lui la condanna è a dieci anni e sei mesi a fronte di una richiesta di 17 anni.

Rinascita Scott, per i media è un'occasione persa

I numeri del procedimento

L’operazione Rinascita-Scott era scattata tra la notte e l’alba di giovedì 19 dicembre 2019 e vedeva in tutto 416 indagati, 334 destinatari di misure cautelari. Con la chiusura dei successivi filoni d’indagine, gli indagati diventeranno in tutto 479. La sentenza di appello del rito abbreviato è arrivata alla fine dello scorso mese di ottobre ed ha visto 67 condanne (per un totale di oltre 600 anni di carcere) e sette assoluzioni, con una conferma quasi totale del dispositivo pronunciato in primo grado.

La sensazione che questa operazione fosse diversa dalle altre si è avuta già da quella mattina di fine dicembre, con l’intervento degli oltre tremila tra carabinieri del Ros e del comando provinciale di Vibo Valentia, scandito dagli applausi e dall’incoraggiamento della cittadinanza. Aspetto colto anche il successivo 24 dicembre 2019, con la marcia organizzata dal coordinamento provinciale dell’associazione Libera che aveva chiamato a raccolta migliaia di persone tra società civile, testimoni di giustizia e familiari delle vittime innocenti della ‘ndrangheta.

Il dibattimento e la pronuncia di primo grado si sono conclusi in tempi relativamente brevi data la mole del procedimento, a testimonianza dell’importanza riconosciutagli almeno nelle aule giudiziarie. Fuori, l’odierna sentenza cerca quantomeno di richiamare a l’attenzione di quella società civile spronata fin dal primo momento dal procuratore Gratteri ad "occupare gli spazi liberati" dopo gli arresti. E, in attesa delle prossime fasi procedimentali, rimane a prescindere la certezza che, solo quando spazi saranno realmente occupati dalle forze buone della società calabrese, si potrà dire realizzata una presa di coscienza simile che caratterizzò la Palermo post-stragista.

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